Essere o non essere, il problema di un'identità bielorussa

(di Andrea Forte)
07/02/22

Qualunque Paese dell’Europa orientale, non può che relazionarsi alla potenza russa, per difendersene o per allinearsi a lei. Tanto più ciò vale per la Bielorussia, che è radicata nel sistema identitario e strategico di Mosca.

La cronaca giornalistica spesso immagina che la chiave del successo repressivo del regime di Minsk contro la contestazione delle elezioni presidenziali del 2020 sia dovuto solo ad uno spregiudicato uso della forza e all’appoggio russo. La forza è certo fondamentale, ma non spiega un fenomeno, lo sottolinea. A scontrarsi nella piazza non era solamente una questione politica, il sì o il no al “rieletto” Lukashenko, a scontrarsi erano anche due visioni diverse della storia bielorussa e quindi dell’identità. Affinché quest’ultima, che ancora non è compiuta, si definisca, serve un accordo sul senso degli avvenimenti storici vissuti. Identità che non potrà esserci finché non ci saranno miti collettivi e una memoria storica condivisa.

Lukashenko, per salvarsi, ha riabilitato nuovamente la versione che si può definire neosovietica o filorussa, tutt’oggi maggioritaria e maggiormente sentita, anche da chi avversa il regime, mentre all’opposto la versione, che si può definire con una certa forzatura “occidentalista”, non è riuscita a creare adesione ai suoi cardini interpretativi.

La domanda che ci si deve fare è in che cosa consistano le due versioni, solo così si potrà capire il prevalere dell’una sull’altra. Soprattutto, solo così sarà comprensibile come entrambe le versioni siano limitate dall’interno, perché alla ricerca di una legittimazione storica autonoma, che non ha praticamente fondamento.

Il salto più grande che i bielorussi compiono nel darsi un profilo è recente, dalla metà dell’800 circa, ed è limitato all’ambito letterario, capace di elevarsi da folklore a cultura, ma non per questo il bielorusso, così nobilitato, diventa lingua nazionale. La russofonia imperante e l’assenza di solidità identitaria che indica, relativizzano dunque qualunque dibattito circa una presunta distinzione etnica dei bielorussi.

L’incertezza identitaria bielorussa è figlia di una terra, che è crocevia di soggetti più compiuti di lei. In essa si è visto alternarsi e/o incrociarsi il dominio di vari attori geopolitici, quelli lituano, polacco-lituano, russo etc... In un tale contesto la parola più vaga, tutejshy, ovvero quelli di qui, è a rigore e per paradosso, la più precisa per definirne le genti. Non è però un nome vero, geopolitico. Parla di spazio, non di uomini, è il segno di un incompiuto, dice che nessuno degli altri nomi (ruteni bianchi, polashuki, litviny…) è sufficiente a racchiudere tutto, con ciò indicando però che qualcosa si sospetta di essere. Indica un’identità in cerca di sé.

Pacificarsi sui nomi significa pacificarsi sulle storie di dominio che questi nomi si portano dietro. Il nome Bielorussia indicherà un’identità solida il giorno in cui si porterà dietro una visione comune, che possa conciliare tutte le esperienze dei popoli avvicendatisi in questi luoghi.

Per avere identità serve memoria storica e viceversa. Soprattutto serve un mito fondante e accettato. Apparentemente i due fronti lo condividono, individuando nel Principato di Polock l’inizio di una storia bielorussa. Subito però si separano, perché se per i filorussi esso era organico alla Rus’ di Kiev, per gli occidentalisti si tratta invece di una sottomissione ad essa. Se la divergenza sul mito più antico è soprattutto accademica, quella sui miti moderni è drammatica, perché qui il mito dell’uno è sentito come anti-mito dall’altro e viceversa.

Innanzitutto la contrapposizione riguarda l’inizio della statualità bielorussa. Seconda la versione neosovietica è la rivoluzione bolscevica del 1917 a spingere le etnie della bielorussia al risveglio, che sarebbe confermato dal riconoscimento, che Mosca l’1 gennaio 1919 concede al Congresso della sezione occidentale del partito bolscevico, riunitosi a Smolensk, ovvero quello di una semi-statualità. Per gli occidentalisti invece il primo organismo statale moderno sorge con la fondazione della Repubblica Popolare Bielorussa il 25 marzo del 1918, approfittando della vittoriosa guerra tedesca contro i russi sul fronte orientale. La bandiera di questa entità è proprio quella che si ritrova nelle manifestazioni contro Lukaschenko, ovvero a strisce orizzontali bianca, rossa e bianca, ma fu una repubblica mai riconosciuta né sentita dalla maggioranza delle popolazioni locali.

Qualunque cifra avesse il risveglio, esso non riesce nel primo dopoguerra a pacificare le diverse appartenenze, per omogeneizzare le quali, le purghe staliniane negli anni ’30 colpiscono circa trecento scrittori e intellettuali tra quelli più convinti di una Bielorussia altra rispetto alla neonata storia sovietica. Il loro assassinio indebolisce la visione anti-russa, fino a risultare totalmente screditata quando, poco dopo, è fatta propria da quella parte della popolazione, che decide di schierarsi con il nazismo durante la seconda guerra mondiale. Tale conflitto, con le sue infinte stragi in quelle terre, è riconosciuto dalla maggioranza della popolazione come il momento più tragico della propria storia. I collaborazionisti decidono infatti, per legittimarsi, di far propria la visione degli occidentalisti, con ciò schiacciandola di fatto sull’appoggio all’occupazione nazista. La compromissione dunque c’è, e sarà l’ideologia comunista successiva a far passare come sinonimi occidentalismo e nazismo. Una condanna che trova però terreno fertile nella coscienza collettiva della stragrande maggioranza della popolazione, che combatte in quella guerra. A tutt’oggi la versione occidentalista asseconda involontariamente questa accusa, perché tenta di riabilitare il collaborazionismo, presentandolo come una difesa dell’indipendenza bielorussa da uno stalinismo russo e colonialista. Il 90% dei bielorussi non respinge l’idea che lo stalinismo fosse un sistema brutale, ma ritiene che questo non cambi il senso della storia vissuta dalla Bielorussia nell’Urss. Ciò sottolinea come non siano le verità scientifiche a creare le appartenenze identitarie, ma quelle vissute. La versione occidentalista non riesce ancora ad intercettare i reali vissuti popolari.

Un sondaggio del 2016 condotto dall’Istituto di storia dell’Accademia nazionale delle scienze, nello stabilire una gerarchia degli eventi più significativi per la popolazione della Bielorussia, ha evidenziato come il 70%, tra chi aveva più di 18 anni, indicasse la seconda guerra mondiale e riconoscesse il 3 luglio 1944, data della liberazione di Minsk, come veri miti fondanti (in positivo), mentre il secondo evento significativo (in negativo) era ritenuto il crollo dell’Urss. Tale percezione indica che la maggioranza dei bielorussi continua a ritenere che gli eventi fondamentali del proprio vivere collettivo siano legati al mondo russo-sovietico.

La lezione occidentalista del discorso storico non riesce a comprendere l’enorme spartiacque qualitativo della seconda guerra mondiale, dove la vittoria non è solo contro un'invasione, ma contro un immenso sterminio, difficilmente giustificabile con qualunque anti-bolscevismo/russismo. Inoltre con la vittoria avviene una vera emancipazione sociale. Prima della seconda guerra mondiale la popolazione urbana era per la maggior parte costituita da russi, ebrei e polacchi, che riempiono i ranghi dell'amministrazione, preclusa alle masse contadine. I massacri liberano i ranghi burocratici all'elemento socialmente più basso, alla masse più “bielorusse”. A ciò va aggiunto il relativo benessere economico, che l'impero sovietico riesce a garantire nel secondo dopoguerra. La versione occidentalista tenta di moderare la rivalutazione del collaborazionismo con l'idea che il respingimento del nazismo, pur necessario, sia avvenuto soltanto barattandolo con il ritorno del colonialismo stalinista, ma confermando così che tale fronte non riesce a produrre un paradigma corrispondente al vissuto reale. Questo è uno dei grandi limiti del discorso storico occidentalista, perché, come sottolinea Valentin Akudovich nel saggio Senza di noi del 2001, tale versione propone alle popolazioni locali non certo un'idea gloriosa di sé, di liberatori consociati ai russi, quanto piuttosto l’immagine di schiavi di una colonia, condizione percepita tanto più falsa alla luce della vittoria e del benessere. Va detto però che quando il regime bielorusso necessita di allontanarsi da un'eccessiva invadenza russa, si trova costretto a riabilitare simboli ed avvenimenti della versione opposta.

La forza di questi simboli non va però sopravvalutata, non si tratta infatti di una nuova adesione della maggioranza della popolazione alla versione storico-occidentalista, quanto piuttosto un “no”, per ora politico, ad un'elezione e ad un regime considerati ormai inaccettabili. Sembrano in parte consapevoli di questi limiti alcuni settori “filo-occidentali” quando, pur affermando l’idea che la Bielorussia sia Europa e non sia russa (con ciò sostenendo che la Russia non sia europea), subito precisano che non hanno intenzione di portare la Bielorussia nell'Unione Europea né nella Nato. Del resto trovare un ponte con l'altra versione e slegare il discorso sulla memoria storica dal no politico al presidente Lukashenko necessita ancora da parte di questa fazione, di una forte maturazione civica, per ora assente, ma che è riuscita almeno a introdurre nel dibattito e nelle coscienze determinate eredità e simboli storici legate ai mondi polacco e lituano. Senza però quel ponte e quella scissione suddette, tale visione ancora non può attirare l’appoggio della maggioranza della popolazione. Se ci fossero, questa potrebbe invece sul lunghissimo periodo slittare verso tesi, che legittimino una Bielorussia attuale come soggetto geopolitico orientale sì, ma solo parzialmente russo. È uno slittamento esclusivamente identitario e che sta effettivamente avvenendo, ma che rimane estremamente minoritario, lentissimo, con un cammino non scontato e doloroso, perché per compiersi deve scontrarsi con il gigante ai suoi confini. Fino a quel momento i bielorussi continueranno a sorgere senza diventare, a esistere senza essere.

Foto: Cremlino