Diplomazia KO: la crisi USA-Ucraina e la politica estera ridotta a talk show

(di Gino Lanzara)
02/03/25

Dallo scontro Casa Bianca - Zelensky la prima vera grande sconfitta è la diplomazia, senza contare i convincimenti istituzionalisti sgretolati dal realismo più violento. La prima impressione, banale, che si ricava è che l’incontro sia stato organizzato in modo dilettantesco e condotto ancor più disastrosamente. Inevitabile attendersi un pericoloso disgregamento dei rapporti USA-Ucraina ed un complicarsi di quelli con l’Europa già messi a dura prova dall’ultimo discorso del vice presidente Vance.

Se l’impressione di impreparazione americana risponde a realtà, bisognerebbe chiedersi se la squadra di Foggy Bottom sia all’altezza degli eventi e delle dinamiche più o meno improvvise. Mentre Cina e Russia si avvicinano, anche solo un mero cessate il fuoco si allontana, con il presidente ucraino bene attento a non diventare il capro espiatorio di un accordo che non fornisce garanzie securitarie per Kiev. Di fatto si è innescata una situazione da tutti contro tutti, dove russi e cinesi diffidano degli USA sempre più sfuggenti anche per Bruxelles.

Se c’è una cosa che ora più che mai deve essere ben presente al nuovo segretario di Stato americano, è che la politica estera è di gran lunga più complicata e pericolosa di quanto non appaia, Kissinger docet.

Per superare la situazione di stallo occorrono tempo e strategia, ora ambedue mancanti, al contrario del poco diplomatico compiacimento del presidente americano al termine di un incontro già dall’inizio intossicato dalle leggerezze verbali di Trump circa la responsabilità dell’attacco attribuita a Kiev, in realtà non solo aggredita ma beffardamente anche reputata avventata responsabile del possibile terzo conflitto mondiale.

Quali errori attribuire al presidente USA e quali a quello ucraino, che ha chiarito di non gradire alcuna forma imposta di vassallaggio, stante anche l’irritualità della contemporanea presenza di un presidente che preferisce non discutere direttamente con un suo pari, delegando a ciò il suo vice.

Le schermaglie sono state grottesche, con la coppia presidenziale a stelle e strisce che ha cercato la sponda del pubblico televisivo e che ha accusato Kiev di non volere la pace, un assist per Zelensky che ha rintuzzato come la Russia, pur forte di una costante disinformazione cognitiva, occupi l’Ucraina dal 2014 infrangendo l’accordo di cessate il fuoco sul Donbass del 2019. Insomma, una congerie di luoghi comuni da bancone imprecisi e non consoni ad un consesso che avrebbe dovuto essere di livello elevato. Zelensky potrà forse risultare poco empatico, ma che sia deciso non sembrano esserci dubbi, alla luce anche del fatto che dall’insediamento di gennaio, l’attuale amministrazione americana è riuscita a mettere in crisi 80 anni di cooperazione euro-americana.

Zelensky suscettibile? Forse, ma certo vivere in un paese occupato e, in alcune zone, riportato indietro di qualche secolo a colpi di artiglieria campale, non giova certo al carattere.

Zelensky vestito male? Che la grisaglia abbia un’altra eleganza è certo, che si dileggi una tenuta prettamente simbolica induce a ritenere che la semiotica (povero prof Eco) sia praticamente ignota, anche a fronte, del resto, dell’uomo più ricco del mondo che, nello studio ovale, permane in baseball-cap e t-shirt. Insomma, pretendere di pubblicizzare urbi et orbi quella che di fatto è un diktat commerciale imposto ad un paese agonizzante e privo di garanzie, è forse stato un po' troppo, anche se potrebbe soddisfare una base elettorale a cui ora potrebbe essere interessante proporre sondaggi. Il problema tuttavia è concreto perché, di fatto, l’Ucraina non può fare a meno di sorbire l’amaro calice del supporto di Washington che, in più, presentandosi in veste mediatrice, non può sedere al fianco di Kiev.

Alla luce del fatto che, alle spalle di Zelensky, si agitavano le centinaia di migliaia di fantasmi dei caduti ucraini e di quel che l’Europa ha rappresentato politicamente per secoli, è stato davvero un successo per Trump? C’è da dubitarne anche in chiave di gradimento politico interno, dunque si può escludere la teoria della premeditazione per accreditare la peggiore, quella dell’improvvisazione associata alla pervicacia da uomo d’affari di Wall Street che, perseguendo solo il lucro, butta alle ortiche qualsiasi ideologia, laddove ne abbia una, sbagliando, tuttavia, su un punto fondamentale: la crisi ucraina non può essere ridotta ad una mera questione finanziaria perché l’imperialismo da est difficilmente si limiterà a questo, altro che MAGA. Se i fronti si sono moltiplicati e dilatati, probabilmente a ciò ha contribuito in larga parte proprio la miopia politica americana, al netto delle maggioranze politiche succedutesi, agevolate dall’inanità europea.

A chi conviene ora la pace? La risposta è libera e secondo coscienza, tuttavia va considerato che se l’Ucraina è stremata anche l’aggressore russo è in difficoltà tanto da aver dovuto accettare - niente di meno che - il fraterno aiuto nord coreano. Chi manca davvero, ed ancora, è l’Europa, incapace di smascherare i bluff russi.

Trump erede ideologico del più celebre presidente Jackson, come ipotizzato da Walter Russell Mead nel 2016? Che l’accostamento sia piacevole è indubbio, specie per un affarista bisognoso di padri nobili. Le riletture delle scuole politiche americane date da Mead, tra l’hamiltoniana, la wilsoniana, la jeffersoniana e la jacksoniana, dovrebbero aiutare a comprendere quali e quanti convincimenti animino internazionalismo, realismo, mercantilismo, interventismo; a chi rifarsi fattivamente in una costante difesa del comune sentire eccezionalista, sempre più in pericolo ed assediato da altre egemonie emergenti? Mead con le scuole avvicina ad un’interpretazione politica che si indirizza verso un pragmatismo alla Hamilton, adatto a fronteggiare le crisi contemporanee. Lungi da tale realismo illuminato, il richiamato accostamento tra Trump e Jackson è da approfondire, se non altro per le significative connotazioni biografiche differenti ma con comuni istanze populiste; a ben vedere, forse, il jacksoniano più genuino è Vance, date le sue esperienze familiari e formative.

La politica estera jacksoniana è realista, le relazioni internazionali improntate ai rapporti di potenza, quanto di più distante dall’ideale wilsoniano. Per un jacksoniano la guerra è troppo costosa e mette a rischio la prosperità yankee, ma l’apparato militare è fondamentale per le garanzie che offre. La politica estera così intesa, pur non isolazionista, contempla necessariamente un indubbio vantaggio che deve essere perseguito, cosa che fa meglio comprendere, proprio con Trump, il ritiro americano dal confine nord-orientale siriano, con la Turchia libera di procedere alle operazioni anti curde, ed il successivo abbandono dell’Afghanistan. Quel che non è funzionale all’interesse americano va rivisto ed è un principio che ha interessato anche l’amministrazione Obama, sia pur con modalità e stili diversi.

In merito, l’analisi operata da Germano Dottori è illuminante, in un contesto che valuta i soggetti politici alla Trump come una casualità storica. Ma una figura come quella di Trump esce da tale accezione per rientrare tra le risposte alle minacce alla supremazia americana. Insomma, Trump non è stato un incidente ma un rafforzamento strategico già introdotto da Obama, conscio delle difficoltà egemoniche post guerra fredda; Trump è il prodotto di una polarizzazione politica e di uno spaesamento improvvisi derivati da un momento di ineludibile declino. Obama ha assunto una postura wilsoniana, Trump nazionalista, attento all’uso della forza militare correlata alla sicurezza economica, volto a ridurre l’esposizione politica americana.

Al netto delle considerazioni teoriche, il rischio è che Trump si manifesti ancora per ciò che si è palesato di fronte a Zelensky, ovvero l’interprete, contemporaneamente drammatico e grottesco, di una politica da talk show.

Fotogramma: The White House