Demografia e Potenza: Israele e Palestina, la forza dei numeri

(di Andrea Gaspardo)
23/06/21

Come accennato innumerevoli volte nel corso di diverse analisi scritte precedentemente, la demografia costituisce uno dei pilastri fondamentali della potenza di un paese ed, invero, ad un'attenta lettura, le persone rimarrebbero stupite nell'appurare quanto le dinamiche demografiche abbiano contribuito grandemente a plasmare la Storia della Civiltà Umana favorendo l'ascesa e la caduta di regni ed imperi. In questo contesto, la demografia merita un rispetto e riconoscimento pari a quello riservato ad altre discipline quali l'economia o la scienza militare.

Nell'inaugurare questa nuova serie di analisi ribattezzata, per l'appunto, “Demografia e Potenza” (laddove quella “e” può venire letta sia come una congiunzione sia come la terza persona singolare del verbo essere) ho deciso di partire da un evento di attualità ancora ben fresco nella memoria del pubblico internazionale al fine di poter vedere la forza della demografia all'opera nel contesto di uno dei più spinosi e contrastati conflitti dell'Era Contemporanea, il conflitto israelo-palestinese.

Il conflitto israelo-palestinese odierno rappresenta la naturale continuazione del conflitto arabo-sionista iniziato sin dal 1881 quando, a seguito dei “pogrom” anti-ebraici, che sconvolsero a quel tempo l'Impero Russo, le prime ondate di “Pionieri Socialisti” (Ebrei nativi dell'Europa Orientale fortemente ideologizzatisi a causa della diffusione delle idee socialiste presso le loro comunità) iniziarono progressivamente a riversarsi in quell'area geografica del Medio Oriente nella quale si sarebbe successivamente costituita la cosiddetta “Palestina Mandataria” sotto l'egida dell'Impero Britannico all'indomani della Prima Guerra Mondiale.

La fine dell'Impero Ottomano e la conquista delle terre mediorientali da parte degli imperi britannico e francese, concise con un'accelerazione del progresso di migrazione degli Ebrei dal continente europeo incentivata anche dalla cosiddetta “Dichiarazione Balfour” del 1917 (foto) che mirava alla creazione di un “Focolare Nazionale Ebraico” proprio in quella strategica area del Medio Oriente al fine di avere una migliore giustificazione per mantenervi indefinitamente la morsa imperiale britannica.

Originariamente i Britannici avevano formulato la propria proposta di “Mandato” in modo tale che esso comprendesse non solo l'area a sud del fiume Litani, a est e a nord-est del deserto del Sinai e compresa tra il Mar Mediterraneo ed il Giordano (la cosiddetta “Piccola Palestina”), ma anche le montagne attorno al Mar di Galilea e una vasta area desertica situata ad est del fiume Giordano protesa verso i deserti dei vicini Arabia Saudita, Siria ed Iraq. L'area così ottenuta, anche detta “Grande Palestina” nella vulgata popolare venne ben presto riorganizza in un “Emirato di Transgiordania”, oggi “Regno di Giordania”, comprendente tutti i territori ad est del fiume Giordano, retto dalla dinastia degli Hashemiti ed in una “Palestina Mandataria” comprendente invece i territori ad ovest del Giordano fino al Mar Mediterraneo, mentre le alture ad est del Mar di Galilea, anche dette “altopiano del Golan” vennero cedute alla Francia che le incorporò nel suo “Mandato della Siria”. Tuttavia l'immagine geografica di un unica entità politica che abbracciasse tutti i territori dell'originale “Mandato Britannico” è rimasta ben viva nella memoria collettiva, continuando ad animare i sogni sia della parte più oltranzista del cosiddetto “Movimento Sionista Revisionista” che ha dato origine alla moderna destra israeliana sia dell'élite di quello che sarebbe poi diventato il moderno popolo palestinese.

Nel contesto del conflitto israelo-palestinese, la demografia ha ricoperto un ruolo fondamentale sin dal principio. Nel 1881, all'inizio delle ondate migratorie sioniste, la popolazione di quella che sarebbe diventata la “Palestina Mandataria” assommava a circa 462.000 abitanti dei quali 404.000 erano musulmani (in larghissima parte Arabi), 43.000 cristiani (anch'essi principalmente Arabi, ma importanti erano anche gli Armeni, insediati nel quartiere di Gerusalemme di loro tradizionale stanziamento) mentre gli Ebrei erano circa 15.000 (pari al 3,3% della popolazione totale) concentrati nei centri di Gerusalemme, Hebron, Safed e Tiberiade (le quattro cosiddette “città sante” della tradizione ebraica). Nei decenni successivi, grazie sia alla natalità sia alla crescente immigrazione foraggiata dal Movimento Sionista, i rapporti di forza si modificarono sensibilmente tanto che nel 1947, su una popolazione totale di 1.970.000 persone, i musulmani erano 1.181.000, i cristiani 143.000 e gli Ebrei 630.000 (pari al 32% della popolazione totale); in 66 anni, la percentuale della popolazione ebraica rispetto alla popolazione totale del territorio era quasi decuplicata!

La “Prima Guerra Israelo-Araba” del 1948-49 ebbe come effetti immediati la creazione dello Stato d'Israele, l'espulsione di oltre 700.000 mila Palestinesi sia musulmani che cristiani dal territorio del neonato stato (la cosiddetta “Nakba”) e l'imposizione di una chiara maggioranza ebraica nei territori dello stato così internazionalmente riconosciuto (confini del 1949-67). È importante ricordare che, alla proclamazione dello Stato d'Israele (14 maggio del 19489), non fece seguito una proclamazione dello “Stato di Palestina”, ed anzi, al termine delle ostilità, i territori della ex-Palestina Mandataria rimasti nella mani delle forze arabe (la Striscia di Gaza e la Cisgiordania) vennero annessi rispettivamente dall'Egitto e dalla Giordania che li amministrarono con mano pesante attraverso veri e propri governi militari. L'esperienza del controllo diretto egiziano e giordano, rallentò ma non frenò il processo di creazione di un'identità nazionale palestinese, per quanto più giovane ed instabile di quella ebraico-israeliana, ed anzi la progressiva saldatura in un unico fronte delle comunità palestinesi a Gaza, nella Cisgiordania e nella Diaspora dei rifugiati avrebbe nei decenni successivi trasformato le organizzazioni politiche e militanti palestinesi in importanti attori nel panorama politico mediorientale.

Sul lato israeliano, mentre la popolazione ebraica era impegnata a consolidare la propria preminenza sia mediante la natalità che attraverso l'assorbimento delle diaspore più disparate, i cittadini non-Ebrei dello stato si trovarono di fronte ad un dilemma: integrarsi oppure opporsi alla nuova entità geopolitica? Contrariamente a quanto la vulgata popolare e molta stampa disonesta sarebbero disposte ad ammettere, osservando attentamente i dati demografici e le statistiche sociali, si evince che, nel periodo compreso tra il 1949 ed il 1967, tutte le comunità presenti nel territorio di Israele stavano convergendo verso un comune sentiero di sviluppo e di integrazione, per altro auspicato dal cosiddetto “Sionismo Socialista” che costituiva de facto l'ideologia quasi ufficiale dello stato a quel tempo.

Le cose sono poi drammaticamente cambiate a partire dal 1967. In quell'anno infatti, Israele ottenne una sbalorditiva vittoria nella cosiddetta “Guerra dei Sei Giorni” contro le forze arabe unificate e, nel corso delle operazioni militari, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) riuscirono a conquistare: l'Alta Galilea, il Golan, Gerusalemme Est, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e l'intera penisola del Sinai (quest'ultima poi restituita all'Egitto dopo gli accordi di Camp David del 1978). Una conseguenza di questi eventi fu che, diciotto anni dopo la conclusione della “Prima Guerra Israelo-Araba” la popolazione palestinese vivente sia all'interno dello Stato d'Israele che nei cosiddetti “Territori Palestinesi” (Cisgiordania e Striscia di Gaza) venne così “riunificata” e quello segnò anche il momento nel quale il processo di progressiva convergenza dei cosiddetti “Arabi israeliani” con gli “Ebrei israeliani” si interruppe. Le ragioni della fine di questo processo furono diverse, ma le principali furono le seguenti:

-la drammatica diminuzione, se non proprio la fine, degli investimenti pubblici da parte dello stato israeliano nelle aree di insediamento arabo, che sono così diventate la parte più depressa da punto di vista economico-sociale del paese;

-l'esposizione degli Arabi israeliani alla realtà della quotidiana occupazione dei “Territori” e delle condizioni di vita dei loro “fratelli Palestinesi”.

La combinazione di questi ed altri fattori ha comportano, nell'arco di più di cinquant'anni, un progressivo estraniamento degli Arabi di Israele dalla società ebraica tanto che, secondo i dati raccolti nel 2017 da una ricerca condotta da Sammy Smooha, professore di sociologia dell'Università di Haifa, il 16% degli abitanti arabi di Israele si identificano come “Arabi israeliani”, il 17% come “Arabi palestinesi” e il restante 67% come “Palestinesi che vivono in Israele”.

La questione della mancata compenetrazione tra le diverse comunità nazionali appare ancora più evidente poi quando si tocca il nervo scoperto dei matrimoni misti, per la verità argomento tabù nell'intero Medio Oriente. Secondo i dati raccolti dal Pew Research Center, aggiornati al 2015, infatti, l'82% degli Arabi musulmani si troverebbero a disagio se un loro figlio sposasse un ebreo e tale percentuale sale addirittura all'88% tra gli Arabi cristiani. Tuttavia tali percentuali sono più che rispecchiate tra gli Ebrei israeliani, l'89% dei quali vedrebbe in malo modo che un proprio figlio sposasse un Arabo cristiano e ben il 97% sarebbe contrario al matrimonio con un Arabo musulmano (addirittura il 50% degli Ebrei israeliani eguaglierebbe il matrimonio con un musulmano ad un “atto di tradimento contro lo stato”!).

Un ulteriore elemento che potrebbe alla lunga avvelenare i rapporti tra le diverse comunità è poi la cosiddetta “Legge sulla Nazionalità”, approvata dalla Knesset nel 2018, che ha sancito anche de jure il fatto che Israele sia lo stato del popolo ebraico praticamente azzerando qualsiasi spazio di manovra politica per le altre comunità. Sin dal momento della sua approvazione, tale legge è stata attaccata con particolare veemenza non solamente dagli Arabi musulmani e dagli Arabi cristiani, ma anche dai membri di altre comunità minori quali i Circassi, gli Armeni e, soprattutto, dai Drusi. Benché sulla carta assommino a meno del 2% della popolazione totale dello stato ebraico, i 5000 Circassi ed i 143.000 Drusi in realtà ricoprono un ruolo molto importante sia nelle forze armate che a livello politico dato che i maschi delle due comunità sono gli unici cittadini d'Israele (a parte gli Ebrei) ad essere soggetti al regime di coscrizione obbligatoria e si sono distinti in ogni singolo conflitto di Israele, dalla sua fondazione fino ad oggi, e spesse volte si sono rivelati importanti anche a livello, per così dire, “propagandistico” nel perorarne i valori in quanto “stato democratico per tutti i suoi cittadini”. Alla luce di questi eventi, non ci si può stupire del fatto che i membri di queste comunità da sempre considerate lealiste abbiano vissuto l'approvazione della “Legge sulla Nazionalità” come un'autentica pugnalata alla schiena.

Avviandoci verso la conclusione è però ora chiedersi: “quali sono effettivamente i rapporti numerici sul terreno tra le varie comunità che vivono nei territori di Israele e “Palestina”?

Osservando le tabelle demografiche prodotte negli anni da Arnon Soffer e Sergio Della Pergola, si nota come nell'intero territorio che va dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano e che include le alture del Golan, il numero totale dei non-Ebrei abbia ormai raggiunto quello degli Ebrei. La popolazione ebraica totale di “Eretz Israel” infatti assomma a 7.250.000 anime (considerando sia gli “Ebrei puri” che i congiunti non Ebrei membri di famiglie ebraiche) ma tale numero oggi è eguagliato dalla somma dei Palestinesi che vivono nei “Territori” (Gaza più Cisgiordania) e dei non-Ebrei che vivono in Israele (Arabi musulmani, Arabi cristiani, Drusi, Armeni, Circassi, immigrati africani, ecc...).

Se i non-Ebrei israeliani nonostante la cattiva stampa alla quale sono sottoposti, non rappresentano in realtà una minaccia esistenziale per lo stato ebraico, dato che, secondo tutte le proiezioni demografiche, non potranno mai superare il 25% della popolazione del paese, le cose cambiano radicalmente quando nell'equazione vengono considerati i Palestinesi dei “Territori” e la “bomba demografica” che essi portano in dote. Sebbene infatti il tasso di fertilità totale (TFR) delle donne ebree israeliane sia di 3 figli per donna (il più alto riscontrato nei paesi sviluppati), quello delle donne palestinesi è di 3,6 figli per donna.

Dal 1881 in poi, gli Ebrei hanno potuto usare come asso nella manica da loro lato del tavolo della partita geopolitica le “riserve umane” costituite dalla Diaspora ebraica, tuttavia anche questo serbatoio pare ormai esaurito, dato che le uniche due comunità ebraiche al mondo che presentano ancora tassi sostenuti di crescita sono quella israeliana e quella americana mentre tutte le altre sono in piena ritrazione demografica. Visto che ben difficilmente milioni di Ebrei americani avrebbero l'incentivo a migrare verso Israele, si capisce che, dopo 140 di “sfruttamento eccessivo”, anche l'arma dell'Aliyah (la migrazione in Israele) sia ormai stata sovra utilizzata.

Alla luce di questi fatti, è assai facile prevedere che, nei prossimi 10-20 anni, la forbice demografica tenderà sempre più ad allargarsi in favore dei Palestinesi, dentro e fuori ai confini d'Israele, e l'ipotetico scenario che questo possa tradursi nel lungo termine in una perdita dei connotati ebraici da parte dello stato israeliano, è una possibilità che non va per nulla scartata a priori.

Foto: IDF / web