Cosa aspettarsi dall’Amministrazione Trump in Libia?

(di Paolo Lolli)
30/12/24

Il terzo lunedì del primo mese dell’anno, nello specifico il 20 gennaio 2025, come previsto dal XX emendamento alla costituzione statunitense1, Donald Trump sì insedierà ufficialmente come 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America riportando i repubblicani alla Casa Bianca. Quest’analisi, lungi dal voler attribuire eccessiva rilevanza alle personali volontà del magnate newyorkese, o ad altre figure di spicco che assumeranno cariche nella squadra di governo e negli apparati, cerca di offrire un contributo per comprendere le possibili mosse di Washington in Libia.

In sintesi: non essendo il Paese nordafricano una priorità contingente per la talassocrazia a stelle e strisce – la competizione tra gli Stati Uniti e i maggiori rivali si fa sempre più accesa e lambisce tutti i continenti, ma è nelle sfide poste in Asia e in Europa che verranno ristabiliti gerarchia e ruolo delle varie potenze mondiali - difficilmente il dossier libico acquisterà prossimamente rilevanza fra le stanze del potere del Numero Uno. Allo stesso tempo, considerata l’impossibile rinuncia del proprio ruolo nel mondo e vista la sempre più precaria situazione nelle acque dell’ex Mare Nostrum, Washington è chiamata a mantenere costantemente uno sguardo vigile.

Insomma, nonostante Trump si faccia megafono e rappresentante di istanze isolazioniste pronte a dismettere i panni da “poliziotto globale” per dedicarsi alle svariate criticità domestiche e a convogliare le proprie risorse esclusivamente là dove necessario al mantenimento dell’egemonia mondiale, la fase imperiale non è al crepuscolo come narrato.

Gli Stati Uniti non usciranno dallo NATO né tantomeno dall’Europa. Non riporteranno a casa quell’industria manifatturiera consapevolmente autodistrutta a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta per trasformarsi in compratori di ultima istanza. Il più elevato deficit commerciale al mondo2 e il più grande debito pubblico3 sono tattiche escogitate razionalmente dagli apparati statunitensi per creare dipendenza fra sé e i vari satelliti. Nonostante questo processo abbia una radice antieconomica evidente, l’heartland industriale statunitense è ora famoso come rust belt4, risulta funzionale per mantenere l’egemonia mondiale. Contemporaneamente sembra finita (forse) l’era in cui gli apparati di Washington, affetti da ipossia, causa scomparsa del nemico sovietico e conseguente raggiungimento solitario della vetta, si dedicavano a redimere, leggi americanizzare, il resto del globo. Semplicemente non possono più permetterselo.

Oggi, la Pax americana è sotto attacco dalla crescente pervasività della Repubblica Popolare Cinese nei Mari Cinesi (Orientale e Meridionale) e dallo scadimento della Federazione Russa a socio di minoranza di Pechino, congiuntura, questa, capace di intaccare gli equilibri fra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. In aggiunta, le mire mandarine sui porti dell’estremo Oriente russo, possibili avamposti per puntellare l’avanzata gialla nell’Artico, e sul bacino energetico della Siberia, sono note.

Impedire una definitiva presa del Dragone sull’Orso è assurto a nuovo imperativo strategico per l’Aquila. Il necessario congelamento del conflitto russo-ucraino, oltre a scongiurare l’implosione di Kiev, serve proprio a staccare Mosca da Pechino.

Da ultimo, i continui disordini nel Medio Oriente impediscono a Washington un completo ritiro dall’area. Dopo aver raggiunto l’indipendenza energetica5, gli Stati Uniti pianificarono un graduale disimpegno dalla regione levantina. La strada per raggiungere tale obiettivo venne indicata dagli Accordi di Abramo (2020). Ufficialmente, questi, stabiliscono il mutuo riconoscimento e le relazioni diplomatiche fra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan, con l’Arabia Saudita alla finestra. Ufficiosamente, si tratta di fare di Tel Aviv il perno securitario locale in contrasto con l’Iran e i suoi vari proxy costituenti l’Asse della Resistenza. L’idea degli Stati Uniti è quella di far gravitare attorno a Israele, unico soggetto nucleare nel Medio Oriente, tutti quei Paesi che condividono il proposito di contenere la Repubblica Islamica. Il conflitto scatenatosi post 7 ottobre 2023 ha sì messo in evidenza tale intelaiatura securitaria, soprattutto durante gli scontri diretti tra Israele e Iran, ma ha anche manifestato plasticamente l’impossibilità prossima per gli Stati Uniti di abbandonare l’area.

In questo disordine mondiale come può la Libia – Paese di relativo interesse per gli Stati Uniti – acquisire una nuova centralità? Un impegno diretto statunitense in Cirenaica è da escludere. La priorità, a queste latitudini, resta quella di impedire a cinesi o russi di impossessarsi di una base navale a Tobruk o Derna. Se per quanto riguarda i primi pare praticamente impossibile, su Mosca, invece, persistono molte incognite a riguardo.

A riaccendere i timori di Washington e, soprattutto, di Roma, i recenti eventi nell’ormai ex “Repubblica Araba di Siria”. I primi effetti tangibili della caduta del regime di Assad si scorgono nella perdita di influenza russa e iraniana nell’area, estromessi dal lavoro sottotraccia turco. Ancora risulta impossibile stabilire con certezza se la base navale di Tartus e quella aerea di Hmeimim rimarranno nelle disponibilità della Federazione Russa. Al momento, Mosca, in fase di riorganizzazione, sta spostando personale, mezzi e attrezzature pesanti dalla Siria verso la Russia e verso la Cirenaica6, ma non sta abbandonando le basi7.

Vale la pena ricordare l’importanza della base navale di Tartus. Affidata al Cremlino nel 1971, operativa dal 1977, la base navale di Tartus rappresenta per Mosca uno sbocco sui mari caldi, l’unico sul Mediterraneo8. Tartus e Hmeimim, oltre a garantire la presenza russa nel levante, sono inoltre ideali perni logistici per proiettare influenza in Nordafrica. Il danno di immagine, provocato dalla caduta di Assad, dato dall’incapacità o dalla riluttanza russa a sparare per il regime alawita, potrebbe inoltre minare l’immagine di Mosca quale attore affidabile e nascondere potenziali ricadute disastrose per la proiezione estera moscovita, soprattutto in Africa9. Se Damasco cade in una settimana quali garanzie possono avere Niamey o Tobruk?

La Turchia ha sfruttato l’impegno moscovita nel bassopiano sarmatico per volgere a suo favore un dossier strategico dimostrandosi pronta a colmare vuoti politici lasciati da altri attori. Lo schiaffo siriano dato a Mosca e Teheran consente ad Ankara di accrescere notevolmente il suo peso nella questione mediorientale. Inoltre, preso atto della vulnerabilità russa in quadranti per lei determinati ma attualmente messi in secondo piano, la Turchia potrebbe ulteriormente sfruttare il momento favorevole per ripetere la mossa siriana in Libia. L’aspetto più preoccupante di tale ipotesi, per l’Italia, è che potrebbe ricevere l’avallo dagli Stati Uniti.

Sebbene Washington non possa vedere di buon occhio l’eccesivo attivismo turco nel Mediterraneo e altrove, lo ritiene preferibile rispetto a un tentativo russo di consolidare le proprie posizioni. Il soggetto che più sarebbe danneggiato, oltre la Federazione Russa, sarebbe l’Italia. Talmente danneggiata che tale congiuntura potrebbe rivelarsi la molla necessaria per spingere Roma a adeguarsi agli obiettivi imposti dalla NATO (2% del Pil alla difesa10). Se per baltici e scandinavi la mai sopita minaccia russa ha da sempre costituito l’incentivo necessario, per la Penisola, forse, pensano gli strateghi americani, una minaccia che lambisca le coste della Sicilia potrebbe essere funzionale a tale scopo. Ecco quindi che Washington potrebbe “utilizzare” la Libia - soprattutto le minacce che scaturirebbero da un’unificazione fra Cirenaica e Tripolitania dietro la decisiva spinta turca - per spronare Roma ad adeguarsi ai nuovi tempi.

Alla luce del nuovo contesto geopolitico, irto di rischi ma anche di opportunità, vi sono le basi per riscrivere l’intesa fra Italia e Stati Uniti. È in base all’incontro tra gli impellenti bisogni di quest’ultimi e l’esigenza italiana di soddisfare i primari bisogni nel proprio intorno geografico che Washington e Roma possono rinsaldare i propri legami. Tuttavia, in primis, la Penisola è chiamata a un cambio di approccio nei confronti del proprio garante alla sicurezza. L’idea per la quale partecipando a tutti gli impegni militari statunitensi e della NATO, specialmente dagli anni Novanta in poi, dimostrando così allineamento e affidabilità verso gli alleati, cercando così di acquisire credito politico, non può più funzionare. Essendo il soggetto presente nel Mediterraneo centrale, con il quale Washington condivide maggiormente i propri interessi, (impedire l’inserimento russo o cinese ed evitare che si accenda ulteriormente la rivalità tra Parigi e Ankara) è in queste acque che Roma dovrebbe sgomitare e proporsi quale bastione securitario meridionale dell’Alleanza Atlantica, una sorta di Polonia mediterranea. Conscia di questo vantaggio e attraverso l’investitura diplomatica, militare ed economica statunitense, l’Italia potrebbe assumere così un ruolo più autonomo in una regione sempre più instabile.

Il rischio è che ormai sia troppo tardi. L’ambasciata russa in Libia, giovedì 12 dicembre, ha esortato, tramite un messaggio sul proprio sito11, i cittadini russi a non prendere in considerazione il Paese nordafricano quale meta turistica o personale, soprattutto nella sua parte occidentale. Il provvedimento ha scatenato le ire del Governo di unità nazionale di Dbeibah, il quale, attraverso il ministro degli esteri Al-Baour, ha chiesto urgenti spiegazioni12.

La possibilità che gli eventi finiscano per travolgere la Penisola, costringendola così a un brusco risveglio, è elevata. Passare da una posizione reattiva a una proattiva è ciò che ci viene chiesto dagli Stati Uniti e ciò che più ci serve per restare a “galla” nelle acque sempre più mosse del Mediterraneo.