Continuiamo l’analisi del Piano B di Savona: anche gli stati nel loro piccolo… si rompono

(di David Rossi)
09/07/18

Sollecitati dai molti lettori (grazie!) del nostro precedente articolo, continuiamo la nostra analisi del Piano B dell’allora prof. Paolo Savona: lo facciamo soffermandoci sui alcuni esempi di “breakup di stati federati o unitari”, come proposti dallo stesso autore di “una guida pratica per uscire dall’euro”, con lo scopo di capire che esempi di separazioni abbiamo di fronte come modelli per l’uscita dell’Italia dall’Eurozona (e probabilmente dall’architettura europea).

Nel testo del 2015, il neoministro per i rapporti con l’Europa fa riferimento, nell’ordine, all’Impero Austro-Ungarico, all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e alla Cecoslovacchia. Chi scrive premette che, ci perdoni il prof. Savona per la correzione, nessuno di questi tre casi costituisce, in effetti, un esempio di stato unitario: a ben vedere siamo di fronte a una confederazione (l’impero bicefalo asburgico) e a due stati federali (l’URSS e la Cecoslovacchia dal 1969 al 19921). Occorre anche premettere che il paragone tra l’Unione Europea e gli stati federali presenti e passati è a dir poco azzardato: con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht il primo novembre 1993 finisce, sì, una fase del processo europeo, quella in cui si poteva parlare solo di una organizzazione internazionale rafforzata o di un’unione doganale particolarmente avanzata. Da quel momento nasce una realtà che di fatto e di diritto viene a costituire una confederazione di stati2, cioè un’unione di soggetti che mantengono in modo sostanziale le loro sovranità pur mettendo in comune alcuni ambiti e poteri. Tutti i trattati successivi a quello sull’Unione Europea ne costituiscono un’evoluzione e un emendamento, ma non lo superano. Insomma, il paragone con l’URSS e la Cecoslovacchia non sta in piedi: a voler essere precisi, non ha nemmeno molto senso comparare una confederazione di due stati sovrani (l’impero Austro-ungarico) multietnici e multinazionali, a trazione austro-magiara… con una realtà a ventotto, dove tutti esercitano ancora la sovranità, pur con i limiti derivanti dal loro relativo peso politico, demografico ed economico. Ma evidentemente a Savona preme soprattutto valutare la questione dal punto di vista della rottura dell’unione monetaria: in questi tre casi, come anche in quello dell’Italia dall’Eurozona, manca il riferimento a un quadro politico-istituzionale. Insomma, da buon economista gli interessa la moneta. Punto.

Dalla slide 13 inizia l’analisi delle linee comuni di detti breakup politico-monetari, con una cascata di conseguenze:

  • I capitali si spostano verso la nazione (ex) federata o anche terza che offre maggiore tutela

  • Per questo, le autorità tendono a imporre controlli ai movimenti di capitali e cercano di ridurre al minimo il periodo transitorio

  • Nonostante tutto questo, non mancano frodi e contraffazioni, oltre alle inevitabili falsificazioni

  • Tutto questo anche a causa delle difficoltà di spin-off di due (o più) banche centrali indipendenti l’una dalle altre

  • Con la conseguenza inevitabile che le nuove valute, soprattutto nel breve periodo, sono soggette a forti oscillazioni.

A ben osservare, al momento della separazione dell’impero austro-ungarico3 nel novembre 1918, c’è una tacita determinazione a conservare la corona come moneta degli stati successori: a fare dell’overprinting sulle banconote e a limitarne l’ambito di validità al proprio territorio è all’inizio del gennaio 1919 il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (poi, Iugoslavia), seguito un mese dopo dalla Ceco-Slovacchia e a ruota, nel marzo 1919, dalla stessa Austria. Il professor Savona racconta al lettore che le varie valute hanno variazioni importanti “nel breve periodo”, quasi a sottintendere un esito felice nel medio e nel lungo termine, ma tace delle reali conseguenze del “breakup”, che chi scrive riassume così:

  • I prezzi dei beni di consumo in Austria crescono di 14.000 volte (il lettore non ha le traveggole: quattordicimila volte più alti!) tra il 1914 e il 1922, tanto che si arriva a un cambio tra la Corona e lo Scellino di 10.000 a uno, nel 1924;

  • In Ungheria, dove all’inizio del 1919 la Corona ungherese circola solo in banconote da 1, 2, 25 e 200, in meno di cinque anni si stampano pezzi da 500.000 e da un milione, a causa dell’iperinflazione e dell’economia non competitiva;

  • La corona austriaca che nel 1919 si cambia 11:1 col franco svizzero nel giro di due anni scivola fino a 10:000 corone per un solo franco.

Soprattutto, a chi scrive preme di evidenziare come la nascita di monete nazionali sia da considerare, nel caso del breakup dell’impero bicefalo, come una conseguenza patologica del modo caotico in cui i singoli stati successori guadagnano l’indipendenza nel 1918 e di come stentano (a parte la Cecoslovacchia fino al 1938) a portare avanti uno sviluppo politico-economico stabile. Insomma, l’Austria Felix non ha più motivo di gioire per ben oltre una generazione. In tutto questo, a ben vedere, la moneta non c’entra niente, se non come paradigma di un disastro politico.

Portiamo avanti l’orologio della storia e scorriamo il secolo breve (1914-1991) fino ai titoli di coda, quando anche sulle guglie del Cremlino di Mosca cala definitivamente la bandiera rossa. È il 25 dicembre 1991. La fine dell’Unione sovietica, secondo il professor Savona, non è un esempio di “crisi di successo”, perché è annunciata “mesi prima” a differenza del breakup della Cecoslovacchia un anno dopo, che diventa di pubblico dominio “sei giorni prima”. Tutto questo serve al noto docente per dimostrare che la segretezza è un valore così utile a impedire “speculazioni e contromisure da parte di altri Paesi” da superare anche “i pregi democratici di una divulgazione e di un dibattito politico interno”4. Peccato che sia vero il contrario: la Slovacchia proclama, infatti, la sua indipendenza il 17 luglio 1992, con Vaclav Havel che si dimette da presidente dello stato federale tre giorni dopo e con la divisione formale delle proprietà e degli obblighi tra due nuovi stati che viene approvata a metà novembre, in vista della dissoluzione dello stato cecoslovacco il 31 dicembre. Insomma, dibattito pubblico e patti chiari sono le caratteristiche della “Dissoluzione di velluto” che a Savona sfuggono del tutto. Viceversa, l’Accordo di Belaveža con cui Russia, Ucraina e Bielorussia dichiarano dissolta l’Unione sovietica arriva come un fulmine a ciel sereno l’8 dicembre 19915, lasciando i successori dell’ex impero socialista con un’infinità di questioni irrisolte, che solo per caso nei due anni successivi non hanno portato a un conflitto, eventualmente anche atomico. Nei due casi, la Cecoslovacchia e l’Unione sovietica, l’aspetto monetario è di nuovo secondario: basti ricordare il caso dell’Ucraina, dove tra il 1990 e il 1996 è in circolazione - inizialmente in parallelo al rublo sovietico - un tagliando (o un coupon) chiamato Karbovanec, che poi diviene la valuta nazionale e si deprezza al punto che nel giro di quattro anni il taglio maggiore passa da 100 a un milione di karbovanec. Nel caso della dissoluzione di velluto, all’inizio addirittura la vecchia corona cecoslovacca rimane come valuta di entrambi gli stati: solo dopo l’estate, per le preoccupazioni economiche ceche a causa delle difficoltà della sorella “povera”, nascono due monete distinte. Delle due, la corona slovacca è quella che soffre di più, deprezzandosi del 30% rispetto all’omonima valuta ceca: tuttavia, i progressi di Bratislava sono tali che il Paese viene ammesso nell’Eurozona dal primo gennaio 2009.

Il caso cecoslovacco, in realtà, presenta ulteriori spunti di riflessione, su quello che potrebbe essere un modello di ITALEXIT, ben al di là del famigerato Piano B di Savona. Siamo di fronte a una realtà più complessa di quello che il nome dello stato federale “ceco-slovacco” spieghi: infatti, la stessa “Cechia” altro non è che l’unione di due nazioni storicamente distinte, vale a dire Boemia e Moravia. Per settant’anni, le decisioni politiche più importanti a Praga sono state prese sulla base di un equilibrio a tre, non a due, come avrebbe potuto essere evidente. In un certo senso, Boemi e Moravi possono essere paragonati, nel loro rapporto così forte, al famoso asse franco-tedesco che è il vero motore dell’Europa. L’Italia, rispetto a questo asse, somiglia molto alla Slovacchia degli anni del socialismo reale, che subisce decisioni prese altrove. Il lettore ceco mi perdoni: il modo “vellutato” con cui si fa politica nella sofisticata Praga, così diverso da Budapest o da Varsavia, somiglia molto alla moral suasion esercitata dalla grassa e soddisfatta Berlino degli anni dieci di questo secolo… Ebbene, se si vuol arrivare a una separazione priva delle conseguenze patite dagli ex sudditi asburgici e sovietici, forse la strada cecoslovacca è la migliore: non in quanto rapida e indolore, ma proprio per l’esatto contrario, perché ragionata, cercata e prodotta con serietà e attenzione, puntando a creare futuri rapporti di buon vicinato e di collaborazione. La strada è quella di un voto parlamentare molto coraggioso, di dichiarazione di indipendenza, ma senza cercarla davvero attraverso un atto pubblico di rottura dell’Unione, ma limitandolo a un monito all’indirizzo del governo, perché possa trattare condizioni speciali di permanenza o una fuoriuscita per quanto possibile indolore e win-win, per la stessa Unione e per l’Italia. I casi danesi e britannici stanno a dimostrare che con Bruxelles si possono trattare anche posizioni speciali: basta avere la testa ferma e le idee chiare… Questo vale a evitare le conseguenze, già indicate nel nostro precedente articolo, prodotte da una rottura frettolosa e improvvisa.

Già, perché i tre casi illustrati dimostrano che la moneta in realtà non è mai causa di divisione, anzi è spesso oggetto di un tentativo di collaborazione post-breakup: tentativo quasi sempre vanificato per motivi politici contingenti. Quindi, le “separazioni” in esame - come quelle di Groenlandia e Regno Unito - mandano un messaggio squisitamente politico al mondo: cambieremo la nostra collocazione strategica, tentando di non cambiare quella economica. Ora, il lettore perdonerà allo scrivente una certa franchezza: nel caso dell’Italia, quale messaggio daremmo al mondo? Che non ce la facciamo a seguire le regole tedesche in materia di indebitamento e inflazione, nonostante le abbiamo pure (e volontariamente6) costituzionalizzate? C’è da notare che la Germania stessa le ha adottate da meno di dieci anni, non dai tempi della crisi della Ruhr, e ne ha fatto il segreto della crescita spettacolare dell’economia tedesca degli ultimi due lustri, figlia di minor indebitamento e razionalizzazione della spesa pubblica, non di scialacquamento di denaro. L’impressione è che il messaggio politico (e finanziario, di conseguenza) sarebbe implicitamente questo: gli Italiani non ce la fanno a sottostare a criteri di serietà accettati e se la svignano per non soffrire. Insomma, un nuovo 8 settembre…

Qualche lettore scrive che a questo punto, con l’Italia fuoriuscita, l’Unione europea sarebbe prossima a implodere e quindi non pericolosa, praticamente dissolta come l’URSS7. Dubitiamo che qualcuno razionale avrebbe il coraggio di definire non offensiva una tigre, anche se ferita mortalmente8: il danno di una separazione mal fatta è testimoniato da milioni di austriaci, ungheresi, russi e ucraini, che ancora oggi ne portano le ferite. Nel caso dell’Unione europea, troppo spesso si scrive che sarebbe “in crisi” o “finita”9, confondendone l’inefficienza con la sussistenza: colossi inefficienti come l’Impero Romano d’Oriente, l’Impero ottomano o la stessa URSS sono durati per decenni o secoli, facendo danni ovunque.

In conclusione, chi scrive ritiene i “pregi democratici” di un dibattito pubblico e di una trattativa aperta imprescindibili, soprattutto se si affronta la questione del significato da dare al breakup: la sovranità di per sé non è che un mezzo, non un fine, e non può essere posta a giustificativo di alcunché. Non a caso, Groenlandia e Regno Unito, gli unici casi di Paesi sovrani usciti dall’ambito UE/CEE sono passati da lì, da un referendum e da una trattativa, e hanno conservato - o intendono conservare - rapporti con l’Europa anche in ambito strategico-militare. Senza gli strappi e la segretezza che affascinano certi nostri leader, ma che manda al mondo un messaggio grigio: gli Italiani scappano un’altra volta…

   

1 A voler esser precisi, nel 1990 il Paese prese persino il nome di Repubblica Federale Cecoslovacca.

2 Non ce ne abbia il lettore ma occorre precisare anche che la “Confederazione” per antonomasia, cioè la Svizzera, dalla fine della guerra del Sonderbund e dall’entrata in vigore dell’attuale costituzione nel 1848 rappresenta in realtà uno stato federale, non una confederazione.

3 Il nome ufficiale della Duplice Monarchia era: “I regni e le terre rappresentate nel concilio imperiale e le terre della corona di Santo Stefano”.

4 Occorre sottolineare che l’ex ministro del governo Ciampi, nell’elencare i soggetti da coinvolgere in questa “segretezza”, si lascia un po’ calcare la mano: Presidente del consiglio, ministero dell’economia, ministero del lavoro, ministro degli esteri, ministero dell’industria, CONSOB, Banca d’Italia, COPASIR, CNEL, Confindustria, Sindacati, Confartigianato…e chi più ne ha più ne metta!

5 Mikhail Gorbachev lamenta: “Il destino di uno stato multinazionale non può essere determinato dalla volontà dei leader di tre repubbliche. La questione dovrebbe essere risolta solo per vie costituzionali con la partecipazione di tutti gli stati sovrani e considerando la volontà di tutti i loro cittadini. La frase secondo la quale le leggi cesserebbero di avere validità è illegale e pericolosa; può soltanto peggiorare lo stato di caos e anarchia. La fretta con cui il documento è apparso è anch'essa un'ulteriore preoccupazione. Questo non è stato discusso dalla popolazione né tantomeno dal Soviet Supremo delle Repubbliche nel cui nome è stato stipulato. Ancora peggio, il documento è stato presentato mentre la bozza di un trattato per l'Unione di Stati Sovrani, preparato dal Consiglio di Stato dell'URSS, era in discussione presso i Parlamenti delle Repubbliche”.

6 Nel 2012, il Senato ha approvato in seconda lettura il ddl costituzionale di riforma dell'art. 81, che introduce il pareggio di bilancio in Costituzione, superando il quorum necessario ad evitare il referendum popolare confermativo.

7 La quale URSS viene dissolta, per inciso, di comune accordo da parte dei suoi stakeholder, non per la sola iniziativa di uno: l’Ucraina non dà seguito alla sua dichiarazione di indipendenza per quattro mesi.

8 Anzi, qualcuno sostiene che l’Eurozona starebbe persino meglio senza i PIGS: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, diventando la valuta delle economie forti dell’Europa.

9 Chi scrive si stupisce a leggere articoli tipo: http://www.occhidellaguerra.it/unione-europea-fallimento/ dove si afferma che l’UE “non è mai stata, realmente, un’Unione, ma un insieme di Stati che si univano per gestire al meglio un continente, ma in cui ognuno aveva interesse a far prevalere la propria agenda”. Questo è il significato di confederazione, non uno scandalo. Certe anime belle, però, hanno un’idea romantica di Europa e devono spargerla al vento…

(foto: web)