Contenimento e isolamento: l’azione diplomatica di Biden verso la Cina

(di Giorgio Grosso)
30/06/21

“America is back”. È questo lo slogan del viaggio compiuto da Joe Biden. Il presidente degli Stati Uniti ha scelto l’Europa per il suo primo viaggio diplomatico all’estero, incontrando prima i suoi omologhi del G7, poi i vertici di NATO e UE e infine il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin. L’obiettivo dichiarato di Biden per il suo viaggio in Europa è quello di rinsaldare l’asse atlantico, ristabilire per Washington il ruolo di guida del mondo occidentale e ricostruire la fiducia dei partner europei dopo l’amministrazione Trump, più protezionista e meno incline a portare avanti una politica multilaterale basata sulle organizzazioni internazionali.

Questo “ritorno della diplomazia” è stato un punto fermo di tutta la campagna elettorale del 2020 e si è realizzato nella pratica assumendo la forma di una vera e propria manovra di accerchiamento diplomatico verso la Cina, in particolare durante il G7 tenutosi in Cornovaglia.

Nonostante l’ex presidente Donald Trump accusasse Biden di voler “svendere il Paese alla Cina” ammorbidendo la linea verso Pechino, il nuovo presidente ha agito in continuità con il suo predecessore, assumendo posizioni anche più dure rispetto a Trump. Già a gennaio 2021 Anthony Blinken, nominato segretario di Stato, ha dichiarato che quella con la Cina sarebbe stata la principale sfida per gli Stati Uniti, dichiarandosi d’accordo con la scelta di una postura più muscolare operata dall’amministrazione precedentei. Un’ulteriore conferma è giunta anche con la cerimonia di insediamento, alla quale ha presenziato Hsiao Bi-khim, rappresentante di Taiwan negli Stati Uniti.

Era la prima volta dal 1979 che un rappresentante ufficiale del governo di Taiwan partecipava ufficialmente all’evento, dal momento che gli Stati Uniti riconoscono il governo di Pechino come l’unico governo cinese legittimo e non quello di Taipei, avallando la “one China policy”. Essa è il prerequisito necessario per l’instaurazione e il mantenimento delle relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare Cinese.

Come previsto, il governo di Pechino ha immediatamente protestato per la scelta della nuova amministrazione, sottolineando come questa vada a violare il principio di “una sola Cina”. A Taipei la notizia è stata ovviamente accolta con un sospiro di sollievo, poiché ha smentito il rischio di un’amministrazione Biden compiacente con Pechino e quindi meno supportiva nei confronti di Taipei.

Un altro elemento è rappresentato dalla spinta della nuova amministrazione per ulteriori verifiche sull’origine del nuovo coronavirus che ha causato la pandemia. La tesi dell’origine artificiale del virus, basata sulla possibilità che l’agente patogeno sia fuoriuscito dai laboratori di virologia di Wuhan, è stata scartata a più riprese dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e da altri esperti. Biden sembra comunque intenzionato ad approfondire ulteriormente la questione, soprattutto per avere un’altra leva politica contro Pechino e rafforzare l’accerchiamento e le pressioni politiche internazionali intorno alla Cina.

Un punto sul quale invece ci si aspettava una forte pressione dalla nuova amministrazione democratica è la questione del rispetto dei diritti umani in Xinjiang e a Hong Kong.

Il nuovo presidente ha subito portato l’attenzione delle cancellerie mondiali su quanto avviene in Xinjiang, dove secondo Washington si verificano regolarmente violazioni dei diritti umani verso le minoranze del luogo, in particolare quella uigura. Questi ultimi sarebbero costretti in campi di rieducazione dove avrebbero luogo pressioni psicologiche e sociali, oltre che lavori forzati e torture, per piegare e reprimere i movimenti autonomisti della regione.

Pechino nega in larga parte le accuse, sostenendo che in Xinjiang avvenga solamente un’opera di prevenzione del terrorismo di matrice estremista islamica. Il dossier di Hong Kong è portato alla ribalta internazionale nella stessa misura, specialmente in seguito all’approvazione delle leggi speciali che consentono l’estradizione di cittadini della Regione Amministrativa Speciale rei di aver commesso crimini contro il governo centrale di Pechino. Di fatto, dal punto di vista del governo cinese è una mossa preparatoria in vista dell’abbandono del modello “un Paese, due sistemi” sul quale si è basato il ritorno della ex colonia britannica alla madrepatria cinese.

Per Washington tutto ciò rappresenta semplicemente la soppressione delle legittime richieste di democrazia e libertà della popolazione di Hong Kong. Per entrambe le questioni Pechino risponde con la richiesta di non intromissione negli affari interni del Paese, prassi in cui la Cina richiede simmetricità e che è al centro dell’azione diplomatica cinese fin dalla fondazione della Repubblica Popolare.

Il viaggio di Biden in Europa non fa altro che confermare e sottolineare la postura muscolare di Washington verso Pechino. La sua intenzione di contenere l’ascesa della Repubblica Popolare Cinese deve avvenire, a differenza di quanto fatto da Trump, tramite un contenimento che coinvolga non solo le nazioni parte della Quad (Australia, Giappone, India e gli stessi Stati Uniti), geostrategicamente prossime allo scenario, ma anche gli alleati europei.

La Cina è stata, per volontà statunitense, al centro delle discussioni in Cornovaglia: Biden ha testualmente chiamato a raccolta i partner del G7 per organizzare una risposta comune alla sfida posta dalla Cina, ponendo l’accento anche sulle differenze ideologiche con una narrazione imperniata sulle democrazie che difendono l’ordine mondiale dai rischi delle autocrazie: un chiaro messaggio non solo per la Russia, ma soprattutto per la Cinaii. In seno al G7 è anche nata l’idea del B3W, un progetto di infrastrutture e finanziamenti rivolto ai paesi a reddito medio-basso, pensato essenzialmente per controbilanciare l’espansione economico-finanziaria cinese nei Paesi in via di sviluppo dell’Asia e dell’Africa.

In seguito a questi comunicati la Cina ha alzato il proprio livello di allerta, protestando ufficialmente per i toni aggressivi del summit in Cornovaglia e accusando gli Stati Uniti di manipolazione politica dei Paesi europei, con i quali la Cina dialoga e commercia in relativa serenità.

Nonostante il grande entusiasmo statunitense, la risposta dei Paesi europei alla chiamata a raccolta anticinese è stata infatti tendenzialmente fredda: Paesi come la Germania e la Francia hanno interessi nazionali propri (nel caso della Germania soprattutto economici) che non intendono sacrificare sull’altare dell’asse atlantico, mantenendo un atteggiamento guardingo ma comunque disposto alla cooperazione e al dialogo nei confronti di Pechino.

Più complicata invece la posizione italiana: nel 2018 l’allora ministro dello Sviluppo Economico Luigi di Maio (nella foto, quello a destra) e il presidente della commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme He Lifeng hanno firmato congiuntamente il Memorandum d’intesa sugli investimenti del programma “One Belt, One Road”, che prevede tra le altre cose l’inserimento dell’Italia, nello specifico di alcuni suoi porti, all’interno della rete di investimenti infrastrutturali promossa da Pechino.

In seguito al summit del G7 l’attuale presidente del consiglio Mario Draghi ha annunciato di voler rivedere questi accordi, sottolineando l’adamantino posizionamento dell’Italia all’interno dell’asse atlanticoiii. È bene ricordare che l’accordo, in quanto memorandum d’intesa, dal punto di vista del diritto internazionale non vincola in alcun modo le parti e ha un significato più politico che legale.

L’operazione diplomatica di Biden è proseguita con il vertice NATO a Bruxelles. A differenza del suo predecessore, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha sottolineato l’importanza della NATO, aggiungendo che per l’alleanza è giunto il momento di spostare la propria attenzione e i propri sforzi sulla minaccia “sistemica” rappresentata dalla Cina, oltre che a continuare a vigilare sulla minaccia “militare” russa.

Biden ha dichiarato che i vincoli del Trattato Atlantico sono ancora considerati “sacri” dagli Stati Uniti, aggiungendo inoltre che Russia e Cina stanno tentando in tutti i modi di indebolire l’architettura dell’alleanza a loro vantaggio.

Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, ha anch’esso evidenziato che “la Cina non condivide i nostri valori”, ma ha anche aggiunto che non è il momento per una nuova Guerra Fredda con la Cina, che pur rappresentando una sfida non è ancora un nemicoiv. Ha inoltre aggiunto che tutti i Paesi dovranno collaborare maggiormente al budget dell’alleanza, soprattutto in vista del maggiore sforzo richiesto nei settori cyber e spazio, dove proprio la Cina sta investendo cifre importanti.

Per quanto queste dichiarazioni abbiano un peso specifico importante, è difficile affermare che Biden abbia già raggiunto i suoi obiettivi. Ricalibrare la NATO ponendo nel suo mirino anche Pechino è una mossa che, dal punto di vista di Washington, permette di rivitalizzare un elemento centrale della politica estera statunitense che nell’ultimo decennio sembrava essere diventato più un problema che un vantaggio, specialmente per le spese sostenute in larga parte proprio dagli Stati Uniti.

La NATO può diventare nel lungo periodo una risorsa per gli Stati Uniti contro la Cina, ma il processo dovrà necessariamente essere basato su una cooperazione volontaria dei Paesi membri, che allo stato attuale non è così scontato. Inoltre, l’articolo 5, che prescrive l’intervento immediato di tutti gli Stati membri in caso uno di essi subisca un attacco, limita la sua efficacia solamente all’area geografica dell’Atlantico del Nord e dell’Europa. Questo lascia intendere che, in caso di gravi contrasti militari tra Washington e Pechino nel Mar Cinese Meridionale, non si avrebbe l'attivazione immediata del Trattato, lasciando spazi di discrezionalità ai Paesi NATO.

Anche dal punto di vista del budget è difficile che i Paesi europei impegnino risorse maggiori nel prossimo futuro: la ricostruzione delle economie europee in seguito ai problemi economici dovuti alla pandemia di Covid-19 è al centro dell’agenda continentale e il contenimento della Cina non rappresenta uno stimolo abbastanza forte per convincere i Paesi europei a sottrarre risorse all’obiettivo primario.

L’incontro con Putin è stato un altro evento centrale nell’azione diplomatica di Biden nei confronti della Cina. Per quanto i due abbiano sottolineato le rispettive differenze su diversi dossier, è stato raggiunto un accordo per il ripristino della normale attività diplomatica, dando la sensazione che stia avvenendo un piccolo riavvicinamento tra i due Paesi. Nell’azione di Biden, questa mossa potrebbe essere un tentativo di creare una possibile sponda a Mosca in chiave anticinese, andando a detrimento del possibile asse tra Russia e Cina.

Questa possibilità aprirebbe uno scenario analogo alla “diplomazia del ping pong” degli anni Settanta, ma a parti invertite: l’allora presidente Nixon decise di aprire canali diplomatici ufficiali con la Repubblica Popolare Cinese per rompere l’unità del blocco comunista.

In realtà oggi non esistono le animosità che all’epoca caratterizzavano il rapporto tra Cina e URSS ed è probabile che Mosca e Pechino proseguano nel loro dialogo: pur essendo più una comunanza di intenti che un vero e proprio asse, i due Paesi dialogano e collaborano su più fronti, ma senza un’eccessiva istituzionalizzazione. Questa flessibilità potrebbe consentire a Russia e Cina di poter gestire eventuali pressioni da parte di Washington.

In conclusione, l’azione diplomatica di Biden è un tentativo di raccogliere più alleati possibile nella sfida con Pechino, in modo da mettere ulteriore pressione sulla Cina in chiave deterrente, evitando che quest’ultima non prosegua quella che agli occhi di Washington è una politica estera aggressiva, volta a modificare lo status quo soprattutto nella regione indopacifica. In realtà, è proprio questo approccio che potrebbe stimolare un’eccessiva recrudescenza nell’aggressività del governo cinese.

Dal punto di vista cinese è facile notare le incoerenze dei proclami di Washington, che ha impostato una narrazione basata sul rispetto del rule of law internazionale e dei diritti umani pur avendo una condotta non impeccabile su questi fronti. Come sottolineato dal generale Fabio Mini, “è difficile che i cinesi accettino le richieste statunitensi circa il Mar Cinese Meridionale quando sono proprio loro a non aver sottoscritto gli accordi di Montego Bay, che rappresentano il centro della legislazione internazionale in materia. Non si può pretendere il rispetto di regole alle quali in primo luogo non ci si è voluti adeguare per avere maggiore discrezionalità politica, preferendo invece far valere il peso dei propri fattori di potenza marittima militare.” Sulla questione dei diritti umani, la Cina ha sottolineato spesso come gli eventi che hanno dato vita al movimento Black Lives Matter, unitamente alle sacche di povertà e disagio sociale presenti nel Paese, siano prove che il rispetto dei diritti umani non sia una materia nella quale gli Stati Uniti possano permettersi di dare lezioni.

Inoltre, come affermato in precedenza, è improbabile che gli Stati europei si adeguino totalmente alla linea di Washington, almeno nel breve periodo. L’interdipendenza economica tra Europa e Cina è un fattore abbastanza importante per evitare le possibilità di azioni che vadano oltre proteste formali e semplici condanne di violazioni dei diritti umani.

Un altro aspetto che gli Stati Uniti probabilmente sottovalutano è rappresentato dalla loro impostazione strategica tradizionale, basata sul dominio tecnologico del campo di battaglia. In questa dimensione del combattimento gli Stati Uniti conservano sicuramente un grande vantaggio, ma le scelte strategiche cinesi potrebbero nascondere delle insidie invisibili perfino agli avanzatissimi sistemi di ricognizione statunitensi.

La scienza militare cinese è basata principalmente sul materialismo di stampo marxista-leninista, e quindi in larga parte su Clausewitz, ma è anche vero che sia la storia sia la tradizione filosofica cinesi rappresentino un patrimonio intellettuale che è da anni in via di riscoperta da parte delle élite cinesi. Lo stesso Mao era un grande conoscitore dei classici cinesi e questo aspetto emerge chiaramente dai suoi scritti. Come indicato dal sinologo Adriano Madaro, “gli statunitensi non hanno idea di come combatterebbero i cinesi. Il pensiero militare di Mao Zedong è ancora oggetto di studio e presenta diverse soluzioni che la Cina potrebbe decidere di adottare, qualora si arrivasse a uno scontro armato. La Cina sarebbe probabilmente pronta a difendersi attirando l’avversario in profondità all’interno del continente asiatico, per poi accerchiarlo. Potrebbe essere una soluzione estrema, dai costi umani elevati, che andrebbe a mutare le strategie operative statunitensi attualmente concentrate su un possibile conflitto centrato sull’Oceano Pacifico”.

L’ipotesi di uno scontro vero e proprio è ancora lontana, ma le attuali scelte politiche dell’amministrazione Biden potrebbero innescare una spiralizzazione negativa che sarebbe difficile invertire. L’ascesa cinese è indubbiamente la grande sfida del XXI secolo, ma allo stato attuale è ancora gestibile in termini competitivi, raccogliendo i frutti della cooperazione ove possibile.

Il pragmatismo della classe dirigente cinese è un fattore che consente un dialogo anche in presenza di visioni sistemiche differenti, così come testimoniato dalle relazioni tra Pechino e Taipei. I due governi sono agli antipodi per quanto riguarda gli obiettivi nazionali, ma sono ben disposti a collaborare quando un accordo prospetta benefici per entrambi.

Un conflitto aperto con la Cina sarebbe quindi devastante e costoso per tutte le parti in causa, ma è ancora possibile evitarlo, a meno che l’occidente a guida statunitense non decida altrimenti.

iv https://www.euronews.com/2021/06/14/nato-recognises-china-as-a-security-...

Foto: The White House / Xinhua / Twitter / ANSA / NATO