Come la demografia ha decretato l'esito della Guerra Civile Siriana (parte 3)

(di Andrea Gaspardo)
20/03/20

In Siria, la fecondità, che fino alla metà degli anni Ottanta raggiungeva record mondiali, è diminuita a partire dal 1986. I Siriani hanno cominciato ad avere meno figli anche nelle zone rurali. È un esempio, tra tutti gli altri, di reazione demografica ai rigori generati dal calo delle rendite petrolifere del mondo arabo. La Siria è una piccola produttrice di petrolio, ma usufruisce indirettamente della rendita petrolifera del Golfo attraverso la diaspora siriana ivi residente. È uno dei paesi arabi più avanzati sul piano educativo, poiché la soglia di alfabetizzazione del 50% era stata raggiunta sin dal 1946 dagli uomini e dal 1971 delle donne. La contrazione delle risorse economiche si è prodotta su un terreno culturale favorevole e la fecondità è calata molto normalmente e molto bruscamente, da quasi 7,8 figli tra il 1960 e il 1982 a 4,25 del 1990. In seguito, il calo ha rallentato molto velocemente per diventare quasi nullo negli anni Novanta: 3,5 figli per donna nel 2005. Queste contrastanti evoluzioni si sono prodotte nel quadro di un discorso demografico inalterabile e insolito. La Siria si fa notare per il popolazionismo ed il natalismo, contrariamente a quasi tutti i paesi del Sud del mondo. A differenza dei regimi egiziano, tunisino, giordano e anche yemenita, quello siriano non ha mai incoraggiato un calo della fecondità. Il “modello cinese” ha affascinato Damasco per il suo autoritarismo politico e per il suo liberalismo economico, ma il controllo delle nascite incoraggiato dai dirigenti di Pechino ha lasciato insensibili i Siriani. Nelle dichiarazioni ufficiali come nelle conversazioni tra i normali cittadini, il problema demografico assume una forte carica emotiva.

Queste convinzioni popolazionistiche sono un prodotto della complicata storia del paese e, per comprenderle, è necessario risalire non solo alle Guerre Arabo-Israeliane, ma oltre, all'indomani della Prima Guerra Mondiale. Lo spazio siriano “percepito” era allora molto più vasto di quello della Siria odierna. Il “Bilad al-Sham” composto dalle odierne Siria, Libano, Giordania, Israele/Palestina, Sangiaccato di Alessandretta (provincia turca di Hatay) e Iraq occidentale e settentrionale è stato amputato in base ai dettami degli “Accordi di Sykes-Picot” con conseguente creazione del Grande Libano a ovest, dall'incorporazione nell'Iraq del “vilaya di Mosul”, dal distacco della Palestina e della Transgiordania (ora Giordania) a sud e dalla cessione del Sangiaccato di Alessandretta alla Turchia a nord. Non solo; durante tutto il periodo del dominio coloniale francese (1919-1946), dovendo la potenza transalpina fronteggiare numerose rivolte armate e la generale ostilità degli abitanti locali, il territorio mandatario venne frammentato in una serie di “staterelli” in base al principio del “divide et impera”. Furono così creati: lo Stato degli Alauiti, lo Stato del Jabal Druso, lo Stato di Aleppo (comprendente anche l'autonoma “Provincia di Jazira”) e lo Stato di Damasco. Anche se tali entità furono formalmente abolite nel 1936, fu solamente al momento della piena indipendenza della Siria, nel 1946, che l'unità del paese venne veramente ricostituita. Si capisce quindi come il popolazionismo risponda ad una sindrome di restringimento storico e geografico. Le Guerre Arabo-Israeline e la conseguente perdita delle strategiche alture del Golan hanno accentuato ulteriormente questa pulsione popolazionistica: il numero è stato promosso a fattore strategico di un conflitto che si sarebbe sviluppato sul lunghissimo periodo. In questo caso osserviamo come nazionalismo e demografia vadano di pari passo.

In Siria, il numero di figli per donna era elevato in partenza; il desiderio di un figlio rilevato dal sondaggi era forte e lo stato non è dovuto intervenire per garantire una forte fecondità. All'unanimità, i Siriani di tutte le comunità etno-religiose sceglievano la famiglia numerosa, idealmente 6,1 figli negli anni Ottanta (contro 4,25 reali) e 4,6 figli nel 2005 (contro 3,5 reali). La Siria è uno dei rari paesi al mondo dove il numero di figli desiderato dalle coppie è maggiore del numero effettivo. A partire dalla metà degli anni Ottanta, troviamo che la fecondità cala bruscamente senza che il regime abbandoni minimamente la sua ufficiale posizione natalista. In più, emerge curiosamente che le regioni e le comunità che hanno portato a termine la rivoluzione demografica, raggiungendo indici di fecondità compresi tra 2 e 2,5 figli per donna, sono le più favorevoli al regime. Una delle particolarità della Siria è che il suo regime, più che autoritario, si appoggia fondamentalmente sulle minoranze religiose e in primo luogo sugli Alauiti (11% della popolazione pre-conflitto), aderenti alla corrente dell'Islam sciita, dominanti nelle provincie costiere di Latakia e Tartous.

Nel 2004, secondo i dati dell'ultimo censimento ufficiale prima dell'inizio della Guerra Civile Siriana, la fecondità della regione alauita era di 2,1 figli per donna, quella del Djebel druso di 1,8, quella di Quneitra di 2,66, e quella di Damasco 2,45. I Cristiani delle varie confessioni, sparsi su tutto il territorio del paese erano a 2 figli per donna. Queste regioni e comunità minoritarie possono sembrare minacciate dalla demografia “esplosiva” della maggioranza sunnita (3,83 figli ad Aleppo, 5,46 a Raqqa, 6,21 a Deir ez-Zor), da due a tre volte superiore, registrata nello stesso censimento. Unici tra le minoranze del paese, i Curdi (8% degli abitanti) sono molto fecondi a causa di una combinazione di arretratezza e “sindrome di accerchiamento”.

Tuttavia è necessario notare che il gruppo maggioritario del paese, gli Arabi Sunniti, pur essendo un gigante numerico è anche una categoria artificiale, un aggregato che soddisfa le statistiche senza avere una reale consistenza sociologica. Le altre comunità sono sì meno numerose ma “reali” perché frutto di identità condivise e stratificate nei secoli, anche a causa delle persecuzioni subite. L'esempio celebre è quello delle “due capitali”: l'opposizione tra i Sunniti di Aleppo e quelli di Damasco dipende dal folclore nazionale e impregna la coscienza popolare sin nel profondo. I “damasceni”, non hanno quasi più nulla a che spartire con i loro correligionari “aleppini”. Data la convivenza con una comunità alauita che, prima della guerra, era stimata in mezzo milione di persone (più membri di altri gruppi religiosi), i “damasceni” hanno finito per assorbirne valori ed “ethos” tanto che per cultura (scolarizzazione dei figli, durata degli studi), per antropologia e demografia (strutture famigliari, esogamia, matrimoni misti, fecondità, coabitazione residenziale), per la loro stessa cucina, sono passati in blocco “dall'altra parte” completando la disgregazione del blocco sunnita.

Pragmatico, il regime degli Assad ha praticato per decenni il “laisser-faire” senza provare a modificare gli squilibri demografici comunitari e regionali, né ad incoraggiare uno sviluppo specifico del controllo delle nascite tra i Sunniti. Sarebbe stato infatti inopportuno proclamarlo, ferendo le sensibilità religiose e dando un argomento facile a degli oppositori come i Fratelli Musulmani, che avrebbero potuto denunciare che il regime degli Alauiti, eretici se non proprio empi, cercava di minare l'Islam e di indebolire la Siria privandola delle sue forze vive (cosa poi puntualmente avvenuta!). Ma come spiegare la diversità regionale della Siria sul piano demografico al netto dell'istruzione e dello sviluppo? In questo caso la variabile religiosa è sicuramente pertinente, poiché è attraverso di essa che possiamo descrivere le differenze a livello di fecondità. Sarebbe allettante fermarci a questo stadio dell'analisi, accontentandoci di affermare che le tradizioni religiose alauite, druse, ismailite, sciite duodecimane e cristiane non sono popolazioniste. Un dettagliato studio teologico finirebbe probabilmente per confermare questa ipotesi per i Drusi, ma non di certo per gli Alauiti, i Cristiani e gli altri. Del resto si dovrebbe anche dimostrare che l'Islam sunnita sia essenzialmente più favorevole alla procreazione. Ma se ci avventuriamo oltre nell'analisi delle strutture sociali e mentali, troviamo immediatamente una spiegazione semplice e logica, non solo per la transizione demografica completata nelle zone alauite e druse, ma anche per la transizione frenata o temporaneamente bloccata della regione sunnita. È stato infatti dimostrato che la cosiddetta “periferia” della Siria, costiera e montagnosa, è caratterizzata da resti consistenti di matrilocalità, da uno statuto delle donne più elevato e da una più ampia tolleranza verso la successione all'eredità famigliare da parte delle figlie femmine, tratto in realtà associato ad una tradizione religiosa di tipo sciita.

Le zone interne della Siria, invece, in particolare le provincie caratterizzate da una fecondità molto elevata sono al contrario patrilineari a un grado che può essere considerato massimo su scala planetaria: nella zona rurale della provincia di Deir ez-Zor, la patrilocalità è al 99%. L'Islam sunnita però può essere considerato responsabile solamente in parte di questa ossessione patrilineare, dato che tale tendenza risale almeno all'epoca assira. Si può in compenso stabilire un rapporto diretto tra la patrilinearità assoluta ed il blocco temporaneo sopra i 3 figli per donna. È sotto questa soglia che la probabilità di non avere figli maschi comincia ad alzarsi in maniera significativa. Con 4 figli, la probabilità di avere un maschio, condizione di applicazione del principio patrilineare, è del 94%; con 3 figli dell'88%; con 2, del 75%. Perché la fecondità di una data popolazione scenda al di sotto dei 3 figli per donna, bisogna che un quarto delle coppie accetti il rischio di non avere una discendenza maschile, il che equivale ad una rinuncia del principio patrilineare da parte della società. Si capisce perché le zone alauite, meno ossessionate dalla patrilinearità, non siano bloccate sopra i 3 figli per donna. Questo problema non è insuperabile per le società patrilineari che, come la Cina e l'India del nord, si adattano all'aborto, quando non al vero e proprio infanticidio femminile. Nel caso del mondo arabo e islamico, che essenzialmente lo rifiuta, il problema è più complicato e spiega il tempo d'attesa e l'estrema esitazione su questa soglia non solo della maggioranza della Siria, ma anche di paesi come la Giordania, l'Egitto e l'Arabia Saudita.

Possiamo avere conferma finale di tutto ciò osservando i dati stimati, per l'anno 2009, (ultima stima prima dello scoppio della guerra) dei tassi di fertilità totali e dei tassi di fertilità matrimoniali (cioè il numero di figli solamente delle donne sposate) per tutte le provincie della Siria (**):




Nome

Tasso di Fertilità Totale

Tasso di Fertilità Matrimoniale

Aleppo

3,2

5,4

Damasco

2,6

4,7

Dara'a

5,2

7,3

Deir ez-Zor

6,9

10,2

Hama

3,3

6,6

al-Hasakah

3,5

6,8

Homs

3,1

5,9

Idlib

4,8

7,7

Latakia

2,2

4,5

Kuneitra

3,8

6,5

Raqqa

5

7,9

Rif Dimashq

3,3

5,4

al-Suwayda

2,1

4

Tartous

2,3

4,8

Syria

3,5

6

(**) UNESCO Institute for Statistics, IMF, World Bank demographics rough datas

(continua)

Foto: Difesa Online