Chi fa la storia?

(di Gino Lanzara)
31/10/19

Il continente americano è un laboratorio geopolitico ricchissimo di spunti: al nord i Padri Pellegrini, i Wasp, i melting pot; al centro sud il cattolicesimo, i neo latini spogliati delle loro vestigia e mai capaci di rendersi effettivamente indipendenti malgrado le enormi potenzialità.

Kissinger, da buon pragmatico, sosteneva che da un sud incapace di produrre storia, non ci si poteva attendere nulla di rilevante. Da Bolivar, di cui si è dimenticata l’avversione per il potere esercitato da uomini di sangue misto, fino a Peron, Castro, Chavez Lula, Morales, Correa, l’America Latina ha generato personalità carismatiche ma non in grado di imprimere svolte capaci di confutare le tesi Kissingeriane.

Malgrado le progettualità, il Sud America rimane dipendente dai Paesi del Nord che, in quest’ambito, hanno rallentato anche l’ascesa cinese, non incline ad invadere un’area di esclusiva yankee. Economia, sanità, corruzione, violenza, attriti territoriali ed etnici, fanno parte di un copione che contrasta con l’immagine oleografica di un Sud dai colori vividi e dalle sonorità coinvolgenti; grazie alla politica USA non esiste un egemone politico regionale, dato che i maggiori attori (Messico e Brasile) hanno optato per posture filo occidentali, ed è emerso un nazionalismo latino che ha spesso ispirato interventi militari volti a contenere l’onda marxista suscitata da Cuba e respinta dalla Dottrina Monroe.

L’era bolivariana e socialista prende vita dalla recente politica estera americana, non più sollecitata né dalla potenziale minaccia sovietica né dai regimi di ispirazione marxista. L’elettorato indigeno ed afroamericano ha condotto in parlamento candidati poco propensi al Washington Consensus, e ha permesso la svolta a sinistra che ha consentito a Chavez di prendere il potere in Venezuela ed, al contempo, di sostenere economicamente il regime castrista, proiettato ad influenzare la politica d’area. Insomma, una regione geopoliticamente non statica, dove il Brasile non ha inteso confermare l’esperienza Lula, pure attento a non entrare in contrasto con gli USA; come in Argentina, alle prese con un possibile default tecnico, dove sta risorgendo il peronismo; come in Cile, dove a seguito di violente proteste motivate non tanto dalla congiuntura economica quanto dalla forte disuguaglianza nella distribuzione del reddito, l’Esercito è tornato nelle strade; come in Ecuador dove il governo ha dovuto cedere alle proteste di piazza; come in Bolivia, dove si contesta apertamente l’ennesimo mandato presidenziale di Morales.

Se è vero che il XXI secolo ha generato un nuovo marxismo (secondo la definizione del sociologo tedesco Heinz Dieterich, che pure ha tentato di separarla dal chavismo), è altrettanto vero che quella che era stata indicata come la rivoluzione bolivariana sta conoscendo un declino che potrebbe segnare la fine della svolta a sinistra e riconsegnare un Sud America in formato tradizionale, in cui gli USA non ammettono intromissioni; anche la dimensione ideologica di Bolivar andrebbe forse rivista, affrontando il campo minato di un riesame storico meno accondiscendente e più obiettivo.

Ammettiamolo, il buon vecchio Henry1, pur non avendo lo stesso appeal del Libertador, non è andato poi così lontano dalla realtà.

Petrolio e potere

Il chavismo venezuelano è stato protagonista del neo marxismo sudamericano, inaugurando una forma di petrodiplomazia anti USA, puntando sul concetto Bolivariano di Grande Patria, e facendosi sostenere sia dal mutuo supporto cubano sia da un consenso interno alimentato dalle popolazioni indigene.

Chavez non ha però tenuto conto né delle fluttuazioni di mercato, né del contrasto degli USA, primi soci commerciali e soprattutto tra i pochi capaci di raffinare il greggio pesante venezuelano; a poco è servito cercare sponde tra i Paesi inseriti da Washington nella lista nera, tanto da non riuscire ad incrinare i rapporti di forza nemmeno tra i partner regionali e gli americani.

Al momento solo la Turchia intrattiene rapporti con Caracas, così da conquistare un potenziale spazio transattivo con gli USA, aspetto questo che legittima più di qualche dubbio circa le effettive capacità politiche e negoziali di Maduro che nulla ha potuto né contro la Dottrina Monroe né contro la persistente dipendenza economica, facilitata da iniziative difficilmente attuabili e comprensibili come quella relativa all’applicazione del cambio valutario controllato, comunque incapace di frenare un’incontenibile iperinflazione.

L’avversione chavista per il capitalismo, oltre alla sua accezione più classica, si è incarnata in un contrasto alla modernizzazione ed ai detentori di competenze specifiche, ritenuti di fatto un male secondo un pensiero unico di moda, ma che al di là della propaganda ha agevolato il tracollo dell’istruzione venezuelana, ovvero un fallimento che, come ovunque, in futuro non potrà che certificare la totale assenza di una classe dirigente effettivamente preparata, anche se proveniente dalla Universidad Bolivariana, più malleabile di quelle borghesi. I docenti sono in fuga, confusi nella massa di venezuelani che cercano riparo all’estero, alimentando un esodo che, secondo le UN, è prossimo a toccare i 5 milioni di rifugiati.

Sullo sfondo il disegno castrista, basato sull’accessibilità alle risorse venezuelane e volto a formare una grande coalizione ispanoamericana preceduta da ALBA2, una parvenza di trattato di libero scambio attualmente in regressione per i problemi economici di Caracas; Chavez prima, Maduro poi, hanno garantito a Cuba la disponibilità delle rendite petrolifere mentre l’Amministrazione USA bloccava gli asset venezuelani in America.

Chavez, nel periodo che lo ha visto al potere, oltre a subordinare l’intelligence venezuelana a quella cubana, ha operato sulla struttura dello Stato, influenzando alcuni apparati (il giudiziario), creandone altri utili a consolidare la sua posizione, e strutturando, in apparente presa diretta, un fronte politico comune tra istituzioni, militari (sempre più presenti anche a livello di gestione finanziaria) e base popolare, inizialmente destinataria di migliorie socio-economiche. Malgrado tutto neanche il Colonnello, che ha comunque accentrato il potere imponendo uno stretto controllo sui media, ha compreso come liberarsi dal condizionamento economico del petrolio, colpevolmente dimentico di quanto veniva raccomandato già dagli anni ’30 per diversificare e modernizzare l’economia.

Chavez era un catalizzatore carismatico, dote di cui è carente il suo successore, Maduro, eletto grazie ad una esigua differenza di voti rispetto all’antagonista Capriles, dialetticamente messo in costante difficoltà dall’auto proclamato Presidente Juan Guaidò cui non ha potuto che rispondere con una repressione senza precedenti, messo alle corde da una crisi economica figlia di scelte avventate che fanno storcere il naso anche a Russia e Cina, e non da ultimo affetto da familismo nell’assegnazione delle cariche.

Gli USA, consci della pericolosità di un intervento militare diretto, prolungano lo stallo puntando a demolire la struttura economico militare venezuelana dall’interno con interventi sanzionatori, forti del consenso internazionale riscosso da Guaidò, sorretto peraltro dalla fronda dei fedeli di Chavez epurati da Maduro.

Le Divisioni del Papa

Vi proponiamo ora un’altra chiave di lettura, quella Vaticana, ovviamente solo sotto l’aspetto politico.

Il Pontefice argentino ha una visione prospettica della Grande Patria latino americana che, seppur religiosa, rimane intrisa di convinzioni bolivariane, in un’unione ideologica non sempre facilmente districabile tra marxismo e teologia della liberazione.

L’America Latina, pur tra miriadi di faglie, è intesa come un’entità geopolitica omogenea, un crogiuolo di entità diverse ma comunque cristiane, seppur non più esclusivamente cattoliche.

La Presidenza Trump, pur frenandoli, non ha potuto impedire che ci fossero contatti diretti tra S. Sede e diversi Stati, volti ad agevolare negoziazioni diplomatiche contraddistinte da alterna fortuna; il Papa, in questo contesto, ha operato anche con il Venezuela per giungere ad una mediazione fattiva tra un regime che non ha mai tollerato voci dissonanti, e l’opposizione, un regime che ha definito i vescovi, per bocca di Chavez, un tumore.

Il problema si presenta sotto un duplice aspetto: da un lato il chavismo che si palesa come un fenomeno politico e pseudoreligioso, testimoniato dai crocefissi raffiguranti Chavez e presentati da Maduro a Bergoglio, e dall’altro, malgrado la presa di posizione contro la convocazione dell’Assemblea Costituente, la non chiara postura politica vaticana nei confronti delle opposizioni, mai apertamente sostenute. Il Venezuela è un rompicapo anche per la diplomazia petrina che non ha tuttavia ritenuto opportuno esimersi dal presenziare, seppur in tono minore, all’inaugurazione del 2° mandato di Maduro, sottolineando di intrattenere rapporti con gli Stati e non con i governi, e probabilmente auspicando un cambiamento politico radicale.

Paisanos dimenticati

Gli Italiani ed il Venezuela si devono vicendevolmente molto, ed il nostro governo dovrebbe considerare l’assunto per cui i connazionali vanno difesi a prescindere, sia per proteggerne gli interessi, sia per preservarne una possibile influenza su un futuro esecutivo; dimenticare i propri migranti non farebbe altro che rendere più impervia la susseguente politica estera, specie laddove si intendessero mantenere improbabili posizioni ideologiche volte a confermare un indefinito principio di non ingerenza ed un oleografico sostegno terzomondista.

Lasciare al loro destino gli italiani del Venezuela, trait d’union con l’Occidente imprenditoriale, significherebbe relegarsi ad un ruolo subalterno nel momento in cui dovesse palesarsi un cambio di rotta che non potrebbe non tenere conto delle inanità governative nostrane, ignare delle potenzialità economiche venezuelane.

In sintesi, la politica estera italiana ha preso un altro granchio, preferendo appellarsi ad assunti dai contorni indefiniti, non considerando la matrice geopolitica e realista che ha spinto i più avveduti al riconoscimento di Guaidò, sostenuto dai nostri connazionali, dal Dipartimento di Stato USA, e dalla mediazione del governo norvegese.

I paisanos sono stati abbandonati una volta di più da una politica votata all’ideologia astorica ed astratta, caratterizzata da un generico sentimento anti americano che ignora quali possano essere gli interessi nazionali da declinare secondo valutazioni fondate su competenze e conoscenza.

Poc’anzi abbiamo evidenziato un trend di pensiero che ha portato allo sfacelo il sistema scolastico venezuelano: rileggete con calma, potreste rinvenire preoccupanti analogie.

Conclusioni realistiche

Il Venezuela è proiettato verso il default – certificato da Standard & Poor’s –, perché non in grado di rispettare le scadenze, con un ingente cumulo di miliardi di arretrati tra capitale ed interessi, e paralizzato da un regime ormai avvitato su sé stesso; gli USA potrebbero spingere per una proxy war combattuta dal Brasile, tuttavia bene attento a non inasprire i rapporti con un vicino tradizionalmente bellicoso. D’altro canto c’è il paradosso cubano, che non può permettersi di perdere il sostegno economico venezuelano, ma che di fatto ha condotto il Paese ad una crisi sistemica irreversibile.

Mentre nel resto del continente il XXI secolo marxista si avvia verso un epilogo tormentato dovuto o a promesse mancate o ad un naturale evolversi ciclico della storia, emergono tutte le premesse per un regime change che, per quanto ipotizzabile, non potrà che essere cruento specialmente nel post quando, come per ogni conflitto interno, si aprirà la stagione del redde rationem; interessi economici e fedeltà dei vertici delle FFAA lasciano presumere che non basterà una tornata elettorale per variare gli equilibri.

1 Kissinger

2 Alianza bolivariana para los pueblos de nuestra America

Foto: presidency of the republic of Turkey / web / presidenza del coniglio dei ministri