Che fine ha fatto l’Afghanistan?

(di Paolo Palumbo)
15/05/17

La teoria vichiana sui corsi e ricorsi storici sembra scritta apposta per lo scenario afghano. Gli anni trascorrono, il tempo passa e la storia si ripete: cambiano le armi, gli avversari, ma gli americani restano sempre gli stessi, ivi compresa la goffaggine nel trattare i problemi in quella parte del mondo. Non appena arrivato alla Casa Bianca il presidente Donald Trump ha affrontato diversi problemi di natura economica e sociale, paventando un deciso ripiegamento americano su tutte le questioni internazionali. Pochi mesi dopo la musica era già cambiata: Siria, Russia e Corea del Nord hanno forzatamente rigettato l’America al centro dell’arena mondiale, quasi a ricordarle il suo ruolo di prim’attrice. Tra le questioni più scottanti ereditate da Trump c’è proprio l’Afghanistan dove, malgrado una guerra senza fine, il dispiegamento di uomini e mezzi e l’esborso di ingenti somme di denaro a favore del governo di Kabul, gli equilibri di potere non sembrano mutati.

Nel 2014, lo scossone causato dall’annuncio della morte del Mullah Omar e la conseguente lotta per la successione fecero traballare le convinzioni dei talebani senza per questo indebolirne l’operatività. Il vuoto di potere – per quanto breve – rinforzò i legami tribali, sfaldando il fronte talebano in gruppi più o meno importanti che cominciarono ad agire indipendentemente contro l’esercito nazionale e le forze della NATO. Le divisioni interne facilitarono altresì l’infiltrazione dello Stato Islamico (ISIS-Khorasan) e una rinnovata spinta di al-Qaeda per assicurarsi il controllo delle milizie e del territorio. Nuove realtà emergenti, come AQIS, stanno oggi rinforzando la loro posizione in Afghanistan meridionale, mentre gruppi più veterani – Lashkar-e-Taiba e Tehereek-e-Taliban Pakistan – operano indisturbati lungo la frontiera dell’intero stato. Alla luce dei fatti, per Trump non esistono altre opzioni se non quelle di reiterare l’impegno militare con un cospicuo rafforzamento delle truppe già presenti in loco. I rischi di una recrudescenza talebana sono molti, mentre è ormai assodato che l’Afghanistan e il Pakistan sono nuovamente diventati un “paradiso protetto” per diversi terroristi.

Il campanello d’allarme è stato suonato dal generale John William Nicholson jr.(foto), comandante della missione Resolute Support. Dei 13.000 soldati che oggi supportano l’esercito afghano, 8.400 provengono dagli Stati Uniti e se le istanze del comandante americano fossero accolte potrebbero aumentare di altre 3.000/5.000 unità. Il problema più grave riguarda certamente i talebani, tuttavia – come fa notare Javid Ahmad in un articolo apparso su Foreign Affairs – il pericolo maggiore è riscontrabile nella connivenza sempre più marcata tra talebani ed elementi dell’Afghan National Army1. Il progressivo disinteresse americano ha contribuito al peggioramento dei rapporti tra militari USA e forze locali. Le differenze culturali e i diversi misunderstanding scaturiti da inopportune traduzioni o il mancato rispetto di alcune usanze locali hanno, di fatto, creato un rischioso e ingestibile clima di tensione. Neanche un mese fa tre soldati americani sono caduti vittime dell’ANA: sebbene il movente resti oscuro, non ci sono dubbi sulla forte presa psicologica che i talebani esercitano sui connazionali che hanno scelto di arruolarsi. Tali episodi non sono certo una novità e anni addietro hanno coinvolto anche i nostri soldati traditi diverse volte dal “fuoco amico” dell’esercito o della polizia locale.

Secondo l’indagine di Ahmad, l’infiltrazione dei talebani nelle file dell’ANA è favorita soprattutto da un senso di frustrazione generale che colpisce i giovani afghani messi a cospetto della cultura occidentale. Gli americani – in particolare – vengono accusati di sminuire il loro alleato, commettendo un grave errore di valutazione. Entro le mura di una base in cui vengono istruite le forze locali, si intrecciano dinamiche sociali provenienti da culture dissimili le quali passano erroneamente in secondo piano rispetto l’addestramento. Ad esempio, un rimprovero fatto da ufficiale americano ad un connazionale non è uguale all’umiliazione che può accusare una recluta afghana; allo stesso modo i problemi sono emersi anche a livelli di comando intermedio. Il Pentagono ha dovuto così prendere nuove misure di sicurezza, dettando restrizioni più severe per l’arruolamento e una più attenta sorveglianza sia ad opera dell’intelligence americana, sia attraverso informatori locali.

Tutto questo è terreno fertile per i talebani che protraggono il loro dominio territoriale con un’asfissiante propaganda di terrore. I mujaheddin conoscono chi serve nella polizia o nell’esercito, prende di mira le rispettive famiglie, minaccia ed estorce informazioni con la violenza, ciò nondimeno da qualche tempo appare più evidente una pericolosa accondiscendenza da parte della popolazione.

L’agenda di Donald Trump non ha in scaletta un’opzione politica “afghana”, poiché al momento gli sforzi maggiori sono rivolti all’annientamento dello Stato Islamico: d’altronde i talebani – come ricordò nel 2011 il vice presidente Biden – non sono di per sé il vero nemico2. Senz'altro la super bomba sganciata dagli aerei americani ha sollevato qualche perplessità tra le autorità di Kabul, le quali si sono chieste il perché la NATO si affanni a colpire l’ISIS quando i talebani controllano il 57% dei distretti. Non v’è dubbio che l’identificazione su chi sia il reale nemico non è semplice, ma la Casa Bianca non può e non deve continuare ad agire con indifferenza e discontinuità. Il governo di Ashraf Ghani gode del beneplacito alleato, ma seguita ad essere corrotto, incline alla sperequazione delle risorse e totalmente assente sulle effettive necessità del popolo afghano (a riguardo leggi anche...).

Come negli anni Ottanta, la guerra in Afghanistan rischia di diventare il terreno di confronto per questioni internazionali affini alla “Guerra Fredda”. Scott Worden, direttore dell’Afghanistan and Central Asia Programs sostiene che Iran e Russia starebbero giocando una subdola partita, offrendo ai talebani una ghiotta possibilità di vincere lo scontro con gli occidentali sul lungo termine3. Sulla carta l’appoggio di Mosca serve a scongiurare un rafforzamento dello Stato Islamico in Afghanistan, forti dell’idea che buona parte dei mujaheddin non ami la presenza dei terroristi. L’atteggiamento del Cremlino, il cui unico obiettivo è quello di contenere il Movimento Islamico dell’Uzbekistan, si dimostrerebbe poco lungimirante poiché armare i talebani non scalfisce i gruppi jihadisti, storicamente abili sfruttatori del confronto tra Mosca e Washington.

Il 31 dicembre 2016, il portavoce del governatorato occidentale della provincia di Farah dichiarò ufficialmente che il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniane addestrava e concedeva rifugio ai mujaheddin, facendo loro attraversare il confine indisturbati4. Gli sconfinamenti dei guerriglieri e il commercio di armi erano però solo la punta dell’iceberg: la collaborazione tra iraniani e talebani si concretava soprattutto attraverso la costruzione di veri e propri campi di addestramento a Birjand – a sud della provincia del Khorasan e Razavi - e finanche all’interno dell’Iran. La notizia diffusa dal governatore non sollevò particolare meraviglia dacché, nonostante la dichiarata inimicizia tra talebani e Teheran, le due parti hanno sempre mantenuto un velato scambio di informazioni in funzione anti americana. Dal 2014 in poi il vento è cambiato e lo spauracchio degli ayatollah non sventola più la bandiere a stelle e strisce, bensì quella nera dello Stato Islamico: Teheran sostiene i talebani per evitare che gli jihadisti di al Baghdadi rinforzino le istanze delle comunità sunnite, in particolare quelle della provincia del Sistan e Baluchestan. Un’alleanza dunque di mera convenienza, utile soltanto ad armare i talebani e a mantenere il caos in tutto il settore occidentale dell’Afghanistan.

La verità è che sia Mosca, sia Teheran non hanno nessuna velleità di controllo verso Kabul: l’establishment dei due paesi ambisce solo ad allontanare lo spettro dell’ISIS e se questo mette ulteriormente in difficoltà gli Stati Uniti, ben venga. L’Afghanistan ha bisogno degli Stati Uniti ed è uno dei pochi paesi a non rifiutarne l’aiuto; la Casa Bianca deve innanzitutto sviluppare una politica economica credibile che non sia minata dalla corruzione insita nello stesso governo afghano. L’invio di un nuovo contingente è necessario, così come l’elaborazione di un piano strategico comune per respingere le offensive talebane nelle varie province. Questo però può essere fatto solo con opportuni accorgimenti che coinvolgano sia la sfera militare, sia quella socio religiosa, lavorando per la creazione di un esercito afghano la cui tradizione culturale venga rispettata a 360°. Gli afghani non sono gli iracheni, essi sanno combattere, sono coraggiosi, conoscono le regole della guerra e sono fieri del proprio passato: il rispetto del loro carattere è un passo fondamentale per strutturare una forza affidabile. La diplomazia americana non può permettersi di trascurare le relazioni diplomatiche, sforzandosi di allestire un tavolo di trattative che includa anche i talebani. La Russia, insieme all’Iran e al Pakistan, ci sta provando e forsanche con successo; sarebbe consigliabile per Trump leggere attentamente il capolavoro di Peter Hopkirk “Il Grande Gioco”, quel tanto da accorgersi che l’Afghanistan è un teatro dove, da secoli, gli attori recitano la medesima parte.

1 Ahmad, Javid. "What Drives Insider Attacks in Afghanistan?" Foreign Affairs. 12 May 2017. Web. 12 May 2017.

2 Lemmon, Gayle Tzemach. "Adrift in Afghanistan." Foreign Affairs. 12 May 2017. Web. 12 May 2017

3 Worden, Scott. "How to Stabilize Afghanistan." Foreign Affairs. May 12, 2017. Accessed May 12, 2017. https://www.foreignaffairs.com/articles/afghanistan/2017-04-26/how-stabi....

4 Ahmad Majidyar. “Iranian Support for Taliban Alarms Afghan Officials, The Middle East Institute, Jan 09, 2017, URL: http://www.mei.edu/content/io/iranian-support-taliban-alarms-afghan-offi...

(foto: U.S. Army / NATO)