Al Zawahiri, fine di un re tra le fiamme dell'inferno

(di Gino Lanzara)
02/08/22

Al Qaeda perde la sua mente più sottile; come in un romanzo di Tom Clancy, al Zawahiri è stato eliminato dai 2 missili Hellfire lanciati da un drone.

Queste righe non intendono essere un’agiografia, non possono né vogliono di certo esserlo, ma non c’è dubbio che la morte di un capo susciti sempre interrogativi e domande visto che, peraltro, Zawahiri, con un abile gioco di disinformazione era già stato dato per morto in diverse occasioni.

Egiziano, radicale ma di estrazione sociale agiata, alle 06.30 di domenica i led della taglia da 25 milioni posta sul suo capo dagli USA hanno preso a brillare a Kabul nel distretto di Sharpur, confondendosi con le vampate dei missili.

Abbottabad in Pakistan, dove è morto Osama Bin Laden è un ricordo, ora il focus si sposta su Kabul.

Per Biden l’evento presenta due commodities di non poco conto: in primo luogo il gradimento popolare in occasione delle elezioni di mid term, in secondo luogo una prospettiva scenica d’impatto che allontana le attenzioni planetarie dalla pencolante diplomazia della speaker del Congresso nello Stretto di Taiwan.

Un portavoce talebano ha espresso la protesta1 del governo in carica appellandosi agli accordi di Doha che, nello spianare da un lato la strada all’entrata trionfale dei mullah a Kabul, ed ai gate dell’aeroporto alla mortificante ritirata dei militari a stelle e strisce, vietano gli attacchi condotti da Washington su territorio afghano. Purtroppo per i mullah, va considerato che l’accordo prevede una garanzia talebana che l’Afghanistan non sarà utilizzato da Al-Qaeda, dall’Isis o da altri gruppi terroristici, e va anche considerato che la presenza di Zawahiri non può che essere considerata come una chiara violazione dei patti, specialmente da parte da parte di chi ha visto aerei schiantati e vittime gettatesi nel vuoto.

Il tutto riporta, per chi ha memoria e desiderio di approfondire, ad un parallelismo con l’operazione Eichmann, compiuta dagli israeliani in Argentina, senza dimenticare la vicinanza con il Pakistan, dominus più che interessato agli sviluppi afghani. Tra l’altro fonti riservate segnalano come Zawahiri fosse nascosto in un edificio di proprietà di un maggiorente del regime talebano, Sirajuddin Haqqani, che sembra debba piangere, quali vittime dell’attacco americano, figlio e genero.

Gli USA hanno cambiato passo, nella loro strategia, e a differenza di Abbottabad, hanno privilegiato un UAV alle forze speciali, demandando operazione e supporto alla CIA con la collaborazione del Pentagono e con la supervisione di Jake Sullivan, Consigliere per la Sicurezza nazionale.

Con lo strike di domenica gli USA hanno posto la parola fine ad una caccia durata più di 30 anni, ovvero prima ancora che the Doctor (si laurea in medicina nel 1974) collaborasse con Bin Laden all’attacco alle Torri Gemelle.

L’attività sovversiva parte dal Cairo alimentata dagli scritti di Sayyd Qutb, arriva ad Israele ed al nemico americano, mai troppo lontano. Il tempo tuttavia non perdona nessuno, ed anche l’influenza sull’islam salafita di Zawahiri perde smalto; ma non per questo Washington lo dimentica ed anzi rilancia, dimostrando di poter continuare a colpire in un territorio pur abbandonato dalle sue truppe.

Il curriculum di Zawahiri, quale terrorista, è di tutto rispetto, e già dall’assassinio del presidente Sadat nel 1981, l’appartenenza alla Fratellanza Musulmana porta il suo nome all’attenzione dei servizi di sicurezza, che lo trovano nuovamente a partire dal 1996, come poi dimostrato dai successivi attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania (oltre 250 vittime), ed a Luxor (62 vittime), che da solo gli vale la condanna a morte egiziana in contumacia. Nel 2006 scampa ad un primo raid americano a Damadola, villaggio pakistano limitrofo all’Afghanistan.

I viaggi che compie lo portano a Peshawar, poi in Arabia Saudita: cerca fonti di finanziamento contestuali all’assunzione della guida della Jihad islamica egiziana nel 1993 che accende una campagna insurrezionale che porta alla morte più di 1.200 persone.

Aneddoto di pugno di Zawahiri da ricordare: nel 1996 viene catturato e detenuto per almeno 6 mesi in Cecenia dai russi, che lo rilasciano non essendo riusciti a tradurre i testi arabi rinvenuti sul suo computer. Assurto a compiti di comando dopo la morte di Bin Laden, che ha portato carisma e denaro, Zawahiri mette a disposizione capacità tattiche e doti organizzative: insomma, uomo meno appariscente ma di indispensabile utilità, che rimane tuttavia del tutto spiazzato dall’incapacità di empatie che gli permettano di controllare le varie branche periferiche, come in Siria.

Il re (un altro) dunque è morto. Viva il re?

Un ginepraio. Hamza, il figlio di Bin Laden nonché delfino designato per la successione, è stato ucciso da tempo con uno strike aereo, secondo lo stesso paradigma interessante il generale pasdaran Qassem Soleimani. C’è poco da stupirsi: i sunniti di al Qaeda, malgrado reciproche e profonde diffidenze, hanno fruito dei provvidenziali appoggi sciiti degli Ayatollah iraniani che ancora detengono l’egiziano Saif al Adel, ex colonnello con taglia da 10 milioni ed ormai destinato alla successione qaedista in linea diretta, a meno di non soccombere a nuovi pretendenti non vincolati alla permanenza in Iran che, alla luce dell’uccisione di Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi per mano americana e dell’eliminazione dell’egiziano Abu Muhammad al Masri nelle strade di Teheran, farebbe bene a vegliare sui suoi ospiti.

Teoricamente Iran e Al-Qaeda sono separati da un fossato ideologico, visto lo sciismo persiano del primo, e la visione militante, sunnita ed araba del secondo, ma non si può dimenticare la convergenza delle reciproche e coincidenti convenienze: insomma un aiuto con juicio. Secondo Daniel Byman, professore alla Walsh School of Foreign Service della Georgetown University, a seconda del clima politico, l'Iran sarebbe felice di vendere Al-Qaeda, ma solo al giusto prezzo.

Se al Qaeda è operativa, bisognerebbe però chiedersi quale sia, alla luce di questi avvenimenti, la sua capacità di reazione, magari associata ad una precisa strategia del silenzio che tiene conto della morte di leader conclamati, dell’emersione dell’Isis su cui scaricare l’impatto della controffensiva occidentale, e del messaggio delle Primavere Arabe che, seppur con evoluzioni ancora in fieri, sfidano il messaggio radicale dell’uso inevitabile della violenza e dimostrano la necessità dell’appoggio delle masse, a dispetto dei vari settarismi d’élite.

Tutto finito così? No, andrebbe segnato un altro nome che probabilmente risentiremo, quello di Abdullah Bin Laden, figlio maggiore di Osama che, secondo un rapporto del Consiglio di sicurezza delle UN, dall’Arabia Saudita si è recato in Afghanistan nell'ottobre 2021 incontrando, grazie ad Amin Muhammad ul-Haq Saam Khan2 i principali leader talebani.

È evidente che i Talebani danno ancora sostegno ad Al Qaeda, che ha dato il suo supporto alla riconquista del paese. In questo momento, a fronte di una fazione più moderata che abbandonerebbe al Qaeda per un più fungibile riconoscimento internazionale, è più certo che qualsiasi legame venga negato per rassicurare Cina e Russia, e per mantenere operatività e leadership pronta ad attaccare nuovamente l’Occidente guidata dall’ennesimo re.

1 Secondo il Jerusalem Post, Zabihullah Mujahid ha condannato l'azione Usa, definendola una violazione dei "principi internazionali".

2 Ha coordinato la sicurezza di Osama in Afghanistan