Afghanistan: game over?

(di Gino Lanzara)
06/09/21

Come recita un adagio pashtun1, c’è chi ha tempo e chi solo un orologio per controllarlo. Al netto di quanto si è riportato più o meno avventatamente in questi giorni, rimane da capire quali siano, buoni ultimi nella lunga fila geopolitica sulla breccia, gli sfortunati vincitori del sempre più ardente cerino acceso, simbolo di un tragico game over.

Dopo 20 anni di operazioni militari occidentali l’Afghanistan, Paese storicamente ingovernabile, ha capitolato, concedendo gioco, set e match agli studenti coranici, non a caso a suo tempo protettori di Osama Bin Laden poi eliminato dall’intervento degli incursori americani presso Abbottabad (guarda caso) in Pakistan.

Senza arrivare a britannici e sovietici, pure protagonisti di discrete e storiche rotte, è opportuno rammentare il conflitto indo pakistano, latente e sempre troppo vicino ai confini di Kabul, e le cosiddette primavere arabe, che unite idealmente da una linea verde coranica all’apertura dell’ufficio politico talebano a Doha nel febbraio 2020, hanno evidenziato due elementi non trascurabili: il contrasto tra l’Islam politico ed i suoi oppositori2, e le imbarazzanti dichiarazioni americane che, in tutta la loro insipienza politica e culturale, hanno svelato il mistero di Pulcinella, ancora in cerca di alberi di fragole, circa la vera natura della fallace esportazione di aneliti democratici, fatto salvo (sic!) l’inedito impegno talebano a non dare ricetto a nuovi santuari del terrore, corroborato dalla liberazione a stelle e strisce di migliaia di prigionieri dalle carceri afghane, tra cui comandanti talebani e leader jihadisti.

Quali conclusioni potrebbe trarre la Russia, penultima reduce afghana? L'URSS ha condotto la sua guerra dal 1979 al 1989, e si è ritirata non solo perché impossibilitata a vincere, ma anche perché in preda ad una profonda crisi interna; le strategie sovietiche ed americane per attrarre il popolo afghano in fondo sono state affini, solo che invece di socialismo, uguaglianza e sviluppo, gli USA hanno utilizzato una parola sola: democrazia.

Gli USA, nel quadro della guerra al terrorismo, e pur di fronte ad una evidente divaricazione tra retorica e realtà, hanno dato vita al progetto geopolitico globale neocon3 indirizzato a democratizzare intere aree ma con esiti disastrosi; il problema è che il mondo islamico si allarga su spazi immensi, su regioni di frontiera, una sorta di Islam Rim incomprimibile in cui la strategia neocon si è indirizzata verso un possibile regime change iraniano. Un obiettivo non raggiunto, se è vero che l’Iran è ormai divenuto parte del sistema geopolitico a guida sino-russa, e che gestire il Medio Oriente è divenuto particolarmente difficile anche alla luce della politica di avvicinamento praticata dagli USA verso l’India, che da tempo coltiva interessi in Afghanistan, e che ha contribuito realisticamente ad avvicinare Islamabad, da sempre contigua ai Talebani anche ora con il primo ministro Imran Khan, a Pechino. Cina e Russia puntano dunque ad un Afghanistan che diventi passaggio strategico euroasiatico, evitando che possa ritrasformarsi in elemento destabilizzante, ma che invece contribuisca a realizzare nuovi equilibri tra Iran e Golfo Persico.

Chi ha paragonato il ritiro americano da Kabul a quello da Saigon non ha tenuto conto dell’opera di Kissinger che, nel sud est asiatico, riuscì ad assicurare un’invidiabile sicurezza strategica del tutto assente nella regione centro asiatica. Aver dimenticato che la guerra afghana, come tutte, è stata uno strumento politico ne ha cancellato qualsiasi senso e ha reso più complesso spiegare sia la debacle occidentale sia il repentino crollo interno.

Dalla fine della guerra fredda si è palesata una costante carenza di visione strategica ovviata con il tentativo di esportazione di modelli politico sociali inapplicabili; a Kabul, la sconfitta, prima che militare, è stata politica, in quanto sospinta, come in Iraq, dal tentativo di realizzare uno stato artificiale in cui l’immaginetta delle missioni di pace avrebbe dovuto essere sostituita dalla matura consapevolezza della necessità del costante uso di una forza tuttavia quanto mai sgradita ai delicati palati occidentali.

La guerra afghana ha intessuto la trama di ben quattro presidenze, a partire dal repubblicano George W. Bush, passando per il democratico – e premio Nobel – Barack Obama, per giungere al repubblicano Trump, che ha passato accordi e testimone all’obamiano Biden; un excursus rigorosamente bipartisan, ma non per questo meno inefficace e costoso, segnato peraltro da accordi che, per loro stessa natura, hanno finito di azzoppare il debole governo Ghani che, seppur sostenuto in via ufficiale, è stato scientemente escluso dalle iniziative politiche ricadenti sul suo capo proprio mentre cercava, velleitariamente, di cooptare la leadership talebana.

Il ritiro americano dall’Afghanistan, a cui va associato l’accordo stretto lo scorso 26 luglio tra il presidente Biden ed il primo ministro iracheno al-Kadhimi, che prevede la fine delle operazioni militari americane di tipo combat entro il termine del corrente anno, di fatto è stato motivato da valutazioni politiche interne piuttosto che da valutazioni reali e realiste, e ha ricondotto il gioco al punto di partenza, ma con l’elemento di novità della presa di possesso taliban degli arsenali generosamente sparsi a piene mani dagli USA. Quel che è certo è che, sui fronti di crisi, sia in Giappone che a Taiwan, che gli americani non possono, non vogliono, non devono perdere, si è acuita la sensibilità verso il modus operandi statunitense – chi morirebbe per Tokyo/Taipei? – senza contare la reazione dei paesi europei, chiamati ad associarsi alla vicenda statunitense, e che hanno dimostrato una volta di più una totale carenza di senso politico securitario comune; del resto non può non considerarsi l’ipotesi per cui gli americani, più sensibili all’Indo Pacifico, non abbiano più ravvisato alcun interesse per un Paese dominato da clan e tribù ed in cui sperano che altri rimangano intrappolati.

Nel Grande Gioco che ha visto russi ed inglesi tesi ad affermare invano la loro egemonia in Asia Centrale, Washington ha rilevato Londra, ma ha dovuto prendere coscienza dell’emersione di altre potenze quali la Cina, che ha interesse a mantenere stabile il corridoio della Via della Seta soffocando l’espansione integralista nello Xinijang uiguro4; il Pakistan, che punta a contenere l’India anche accettando il rischio di violenti ed incontrollabili rigurgiti talebani sul suo stesso territorio; l’Iran, che continua ad ospitare diversi leader qaedisti; la Turchia, che ha mirato al controllo dell’aeroporto di Kabul e ha finanziato le milizie turcofone afghane come quella uzbeka di Abdul Rashid Dostum5. In questo ambito spicca l’attività dello Stato Islamico del Khorasan, in apparente attrito con i taliban, rei di aver dialogato con gli infedeli sino americani, e la cui ala più moderata potrebbe pressare per un’interruzione dei rapporti con l’estremismo religioso per ottenere un più pagante riconoscimento internazionale. È tuttavia presumibile che il legame con il qaedismo venga negato pubblicamente per rassicurare Cina e Russia, ma che di fatto resti operativo per ridare slancio alla jihad contro l’Occidente.

Vanno in proposito considerate tre ipotesi: la prima contempla una compenetrazione tra la rete integralista ed i taliban così profonda da non consentire una rinascita di al Qaeda, data l’integrazione di una parte dei militanti tra le fila talebane, con la creazione di legami familiari attraverso matrimoni tra qaedisti e donne pashtun; la seconda considera la concreta possibilità, da parte di combattenti stranieri, di sfruttare comunque la vetrina mediatica afghana; la terza, la più attendibile, non prevede alcun cambiamento nei legami al-Qaeda-talebani, anche se è molto probabile, secondo la Defense Intelligence Agency, che i talebani chiedano ad al-Qaeda di limitare le proprie azioni, secondo gli accordi di Doha.

Il generale McKenzie, del Comando Centrale, ha affermato che i militanti di al-Qaeda certamente si ricostituiranno, e che non ci sono dubbi circa gli intenti offensivi che intendono portare su suolo nazionale americano. La valutazione della DIA si è sostanziata quindi nel parere che non c'è stato nessun cambiamento nel rapporto talebani-al-Qaeda.

La notifica unilaterale americana del ritiro delle forze, non è stata altro che la Cronaca di una morte annunciata; da ritiro a rotta il passo è stato brevissimo, ha segnato la fine della credibilità atlantica, e con l’ingresso sulla scena della cellula Isis del Khorasan, da un lato sembra essere stata inaugurata una nuova stagione del terrore prodromica ad una nuova guerra civile, e dall’altro si è marcato l’inizio di una possibile ed inedita collaborazione tra taliban ed americani, che comunque mantengono il blocco dei fondi afghani. In questa ottica per l'emirato talebano sarebbe opportuno consolidare il controllo territoriale al di fuori di Kabul e delle altre città, includendo gli altri gruppi politici. Il ritorno dell’Emirato potrebbe non essere accolto favorevolmente da parte dei leader locali che hanno costruito il consenso all’interno delle proprie comunità sull’opposizione all’avanzata talebana, aspetto che non può far escludere una possibile ripresa delle violenze nei confronti delle minoranze etniche e religiose.

L’apparente cambiamento di comportamento politico talebano segna la variazione del paradigma per cui non è più possibile sparare sulle istituzioni di cui si è preso possesso, motivo per cui sembra essersi approfondita la faglia tra pashtun e jihadisti. In un momento in cui i taliban hanno bisogno di tutti per risollevare il paese, gli USA, annichiliti da una forma autodistruttiva di politicamente corretto, nell’auspicio che la nuova classe dirigente afghana crei difficoltà e problemi ai competitor cinesi, russi e pakistani, che hanno mantenuto le loro ambasciate, nonostante il tempo trascorso, ancora non hanno capito di aver frainteso un contesto in cui tribù e clan non ragionano individualisticamente, e nel cui tessuto connettivo si sono inseriti i taliban in modo da garantire il successo della blitzkrieg ferragostana. Secondo un copione collaudato e fungibile a tutte le latitudini, mentre i taliban riconquistavano tutte le province ad eccezione (momentanea) del Panshir, l’intellighenzia afghana, munita dei necessari supporti finanziari, levava frettolosamente le tende per abbandonare il popolo alla propria sorte, miseramente affondata insieme alla speranza in un canale di scolo antistante l’aeroporto.

Al vertice taliban c’è Haibatullah Akhundzada, assurto a tale ruolo dopo che nel 2016 gli USA hanno eliminato il mullah Mansour Akhtar; il potere esecutivo è stato affidato ad Abdul Ghani Baradar, liberato da una prigione pakistana su richiesta americana e responsabile della firma degli accordi di Doha, nonché recente ospite ufficiale del ministro degli Esteri cinese Wang Yi a Tianjin, in Cina; da non dimenticare Sirajuddin Haqqani, figlio del comandante mujaheddin Jalaluddin, esponente del network che gestisce gli interessi di famiglia al confine tra Pakistan e Afghanistan, e che ha attaccato gli interessi indiani: una restaurazione in piena regola che ha peraltro riportato in auge l’industria di oppio ed eroina raffinata in Pakistan. Per la leadership talebana è però necessario ricomporre i dissidi che hanno determinato attriti tra la fazione Haqqani, sensibile al fascino qaedista, e quella del Mullah Yaqoob, figlio dello storico fondatore dei talebani, Mullah Omar, ed attuale comandante militare del gruppo. Insomma, uomini in turbante ma con le sneaker e con una sharia solo apparentemente più morbida, in cerca di una legittimazione internazionale mossa da improbabili dialoghi serrati ma da pochi fatti; uomini edotti circa lo sfruttamento dei mezzi mediatici e circa il loro impatto psicologico: insomma, taliban al governo ma, come asserito da fonti russe, ancorati ad un passato che non potrà non far avvertire il suo peso.

Ci vorrà tempo per riuscire a stabilire quante vittime ha mietuto la più lunga guerra della storia yankee; la Brown University ha stimato che, tra vittime dirette e indirette, siano state uccise 240mila persone, mentre più di 4 milioni di soggetti hanno abbandonato il Paese per raggiungere, in primis, Iran e Pakistan, al cui confine ci sono ancora molti qaidisti che arruolano reclute provenienti da Bangladesh, Myanmar, Cina e India, memori della Brigata 055, interamente composta da qaedisti ed integrata nell'esercito talebano tra il 1995 e il 2001; in questo contesto va tenuto conto dei ritorni mediatici mediorientali, per cui se è vero che i primi rallegramenti sono pervenuti dalla palestinese Hamas, dai somali di al Shabaab e dalla costola mediatica qaedista, è altrettanto vero che Aljazeera ha riportato una significativa mancanza di entusiasmo da parte dell’uomo della strada per il successo dei taliban, visti più come signori della guerra che come interpreti di un movimento rivoluzionario popolare.

Non c’è dubbio che il regime talebano, avvicinandosi ai modelli teocratici consolidati di Iran ed Arabia Saudita, di per sé non costituirebbe una minaccia, ma di certo una presenza qaedista, costringendo il regime ad una forma di subalternità ideologica, contribuirebbe a mutare scenari già da ora condizionati da Pakistan, che con la dipartita americana si propone come canale diplomatico ufficiale seppur alle prese con radicalismi violenti, Cina, che propone investimenti particolarmente ambiti, Russia e soprattutto Iran che, portato alla politica del doppio forno, malgrado la debole stabilità garantita dagli USA fosse funzionale ai suoi interessi e mantenendo comunque operativa la brigata sciita afghana Fatemiyoun protagonista in Siria, ha preferito il disordine talebano, ancorché foriero di un incremento di rinnovati flussi di stupefacenti a basso costo verso un mercato con uno dei tassi di tossicodipendenza più alti al mondo: la residua propulsione rivoluzionaria iraniana non è religiosa, ma si concretizza nell'opposizione agli USA, bloccati nel guado delle trattative JCPOA, e ad Israele.

Sempre a proposito di stupefacenti c’è da segnalare l’entrata in scena dell’efedra sinica, l’oman, abbondante nell’Afghanistan centrosettentrionale, che permette di estrarre l’efedrina precursore necessario alla produzione di metamfetamina, la sheesha della serie tv Breaking Bad. La domanda di anfetamine in Iraq ha conosciuto un picco durante l’apogeo dell’Isis, tanto che gli jihadisti erano sempre dotati di pillole di fenetillina6, prodotta o importata dalla Siria.

Nelle aree sotto il controllo sciita, in nome del divieto coranico di bere alcoolici, i negozi di liquori vengono costretti alla chiusura, secondo una sorta di proibizionismo che tuttavia colpisce la Turchia sunnita, che detiene il monopolio delle esportazioni di liquori in territorio iracheno.

Anche per la Russia la presenza militare USA è stata comunque positiva; pur accusando Washington di aver tollerato un aumento di produzione e traffico di stupefacenti, per il Cremlino è stato possibile sia riconoscere che gli americani hanno impedito agli estremisti di divenire una minaccia in Asia centrale, sia di propagandare, soprattutto verso l’Ucraina, il declino della leadership statunitense e soprattutto la sua inaffidabilità.

Come sempre, c’è chi dice no, o almeno ci prova; la resistenza ai taliban improvvisata da Ahmad Massud sembra poco credibile. Attualmente sotto assedio, figlio di Ahmad Shah Massud, il leone del Panjshir, ha precedentemente dichiarato di non escludere di ricercare un accordo con il nuovo governo, visto che anche Hamid Karzai e Abdullah Abdullah stanno trattando con i taliban.

In sintesi, difficilmente gli insorti costituiranno un elemento portante della geopolitica afghana, in considerazione del fatto che nessuna potenza, globale o regionale, sembra interessata a sostenerne la causa. In ogni caso, i messaggi partiti dal fronte afghano sono tutti da considerare con estrema attenzione: i paesi Mediorientali moderati devono attendersi una riduzione degli investimenti statunitensi nella regione, con la contestuale assunzione di maggiori ed inediti oneri; in questo contesto, gli accordi di Abramo sottoscritti lo scorso anno tra Israele e diversi Paesi arabi, nel migliorare le relazioni, possono generare un potenziale cooperativo e di intelligence di cui avvalersi fin da ora, specialmente in considerazione del fatto che, nel breve termine, vari attori internazionali cercheranno di sfruttare l’appannamento di immagine e credibilità americane.

1 I pashtun sono un gruppo etnico-linguistico indoeuropeo che abita in prevalenza l'Afghanistan orientale e meridionale e il Pakistan occidentale, nella regione del Pashtunistan; parlano la lingua pashtu e seguono un codice religioso di onore e cultura indigeno e pre-islamico, il Pashtunwali, integrato nella religione islamica.

2 il primo ha dietro Qatar e Turchia; il secondo sauditi, EAU ed Egitto

3Il neoconservatorismo è un movimento politico internazionale di origine statunitense, di orientamento liberal-conservatore, interventista, occidentalista e americanista. Riguardo alle tematiche sociali, i neoconservatori (detti anche neocon, sia dagli ammiratori che dai critici) non si oppongono ai principi del "big government" degli USA e propongono solo limitate restrizioni alla spesa sociale. Dal punto di vista strettamente americano, in politica estera il movimento sostiene, dopo la fallimentare esperienza vietnamita, l'utilizzo della forza militare (se necessario in maniera unilaterale) per sostituire governi dittatoriali con democrazie. Questa visione è contraria all'internazionalismo, al realismo e all'isolazionismo.

4 In luglio a Tianjin, Wang Yi, ministro degli Esteri, ha chiesto ai taliban di interrompere i contatti con il Movimento Islamico del Turkestan Orientale, il gruppo terrorista formatosi nel Xinjiang, addestrato da al-Qaeda e dai taliban, e considerato responsabile degli attentati avvenuti nella Repubblica Popolare tra il 2013 e il 2014.

5 Abdul Rashid Dostum è un generale, politico e signore della guerra afghano di origine uzbeka, 4º primo vicepresidente della Repubblica Islamica dell'Afghanistan dal 2014 al 2020.

6 Captagon

Foto: al arabiya