4 novembre: festa nazionale e la geopolitica degli italiani

(di Andrea Forte)
04/11/21

Gli italiani, intesi come collettività nazionale, non hanno un’autocoscienza geopolitico-strategica e la festa nazionale del 4 novembre, la “Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate”, offre un’ottima opportunità per descrivere questa inconsapevolezza. Da un punto di vista geopolitico, qui in esame, si può in certo senso dire di una comunità nazionale: “Dimmi cosa e come festeggi e ti dirò chi sei.”

Rilevare ciò che una collettività sceglie di festeggiare e come sceglie di festeggiarlo mette in luce quale percezione di se stessa abbia e come questo sentire possa o meno essere funzionale alla difesa del suo interesse strategico. Di cosa vive il senso che un popolo ha di sé stesso in quanto collettività organizzata? Cosa anima la sua fibra? Cosa scorre nelle sue vene antropologiche più vive? Quale prezzo questo popolo è disposto a pagare per ottenere quella che ritiene la sua missione nel mondo, il senso del suo esserci? Questo è il punto geopolitico che si vuole guardare attraverso la finestra del 4 novembre.

Il 4 novembre del 1918 gli italiani ascoltano un proclama da Armando Diaz, comandante supremo dell’esercito italiano, è il Bollettino della vittoria, in cui viene annunciato che il loro Paese, l’Italia, ha vinto la guerra contro l’Impero austro-ungarico. Il colpo per l’Austria-Ungheria è definitivo, la sconfitta diventa collasso e scioglimento in vari stati. Noi italiani non siamo gli unici ad aver causato questa implosione, ma sicuramente vi abbiamo contribuito, un contributo che ha dissanguato il Paese da ogni punto di vista (basti solo pensare ai circa 650.000 caduti).

Che cosa si ricorda con questa festa, istituita nel 1919? Si parta dal nome stesso della festa, Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. Il nome in sé non ha nulla di sbagliato (la geopolitica non dà giudizi, ma fa ragionamenti) eppure è al tempo stesso molto indicativo del sentire degli italiani. Il 4 novembre 1918 infatti gli italiani hanno vinto. Vittoria.

A prima vista, criticare il non ricordare un evento con il suo nome più aderente può sembrare un sofisma linguistico, una pignoleria accademica, eppure è rivelativo. Chiamare un evento con il proprio nome esprime la capacità di farsi carico del significato più stretto di ciò che quell’evento significa. Una vittoria è una vittoria, ma lo è anche in geopolitica se, come collettività, la medesima vuole ed è capace di portarne il peso. Peso, geopoliticamente, perché una vittoria, in quanto esito di uno scontro, comporta uno sforzo e un uso della forza contro qualcuno, con relativa accettazione del prezzo da pagare per ottenerla. Per avere questo tipo di disponibilità culturale, la guerra necessaria a quella vittoria il popolo italiano avrebbe dovuto, più che accettarla passivamente (almeno all’inizio è così per la massa non urlante, ma maggioritaria), volerla e volerla in quanto riconosciuta come espressione di sé, ma è più una certa parte della classe dirigente al potere e un certo modo di intendersi classe dirigente anche di chi si oppone, che porta gli italiani in guerra.

Certo, dopo Caporetto, sul Piave e a Vittorio Veneto, gli italiani risorgono, salvano il Paese, ma lo fanno perché in quel momento sentono che la guerra è diversa, non è più per la potenza (non volevamo infatti solo Trento e Trieste, ma anche sud Tirolo austriaco, Dalmazia e Istria - in parte slave - e poi un pezzo di Albania, Turchia etc..), ma per la salvezza della patria, non per Trento allora, ma per Venezia, non per Trieste, ma per Milano, per Padova e Bologna... Dunque una “nuova” guerra per la sopravvivenza dell’Italia stessa.

Se quindi si cerca il sentire degli italiani rispetto a quella guerra, allora si scopre che di quella guerra non sono stati convinti fino in fondo: ne hanno pagato il prezzo per difendere l’esistenza dell’Italia, più per darle potenza. La fibra intima del popolo italiano considera oggi non necessario il costo della potenza e dunque di quella guerra. Essa ci compie geograficamente/strategicamente e lavora egregiamente per l’omogeneizzazione nazionale, eppure oggi più che la vittoria si scopre che gli italiani festeggiano la fine della guerra in quanto fine: fine delle sofferenze, dei morti, della fame, della vita in trincea. Semplicemente fine.

Il primo agosto del 1917 il pontefice Benedetto XV, nella Lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti definisce quella guerra un’inutile strage, definizione che corrisponde alla percezione che oggi gli italiani, ma anche molti altri popoli europei, hanno di quella tragedia.

“Inutile” è una posizione morale, ma diventa geopolitica se, descrivendo come gli italiani sentono quella guerra, ne rivela il senso di sé e la direzione strategica. È una guerra in cui non si celebrano grandi condottieri, ma il milite ignoto, salma di un caduto sconosciuto, come simbolo (sempre da un punto di vista geopolitico) dell’assurdità di quella strage, che fu appunto, nella percezione dei costi, inutile.

Qui il punto non è riconoscere che, durante quella guerra, di Napoleone o Cesare tra i generali del nostro Paese non se ne vede neanche l’ombra, ma di vedere come al posto degli eroi, nella mitologia della grande guerra c’è il popolo, come un nuovo eroe anonimo di massa, un nuovo mito sì, ma simbolo di passività, cioè simbolo di un popolo apparentemente innocente, analfabeta e pecora, certo meritevole per la vittoria, ma non reo dalla colpa di averla voluta e vittima per averne pagato il prezzo, ottenendo così di non volersene assumere la responsabilità come collettività nazionale. Se moralmente ciò sia un bene o un male non conta, geopoliticamente conta solo che ciò che è successo fu una vittoria, ma sentita come vittoria per salvare l’Italia, non per l’Italia grande potenza.

La pedagogia nazionale serve a raccontare a se stessi e al mondo chi si è e chi si è stati. Questo vuol dire innanzitutto scegliere che nome dare alle proprie esperienza collettive.

Ogni nome esprime una percezione di sé, dunque è passibile di analisi geopolitica. Si deve allora dire che il nome attuale della festa corrisponde ad una memoria che non è portatrice del peso di ciò che quella guerra fu, cioè strumento di potenza, con cui si è ottenuto qualcosa che si voleva per un qualche motivo, giusta o sbagliata che fosse la guerra specifica, ma esprime piuttosto l’idea di una guerra dei nonni, un folklore che vive di ricordi familiari, più che di miti collettivi.

Se si voleva rendere quella vittoria mito fondativo, con una direzione geopolitica diversa, quella guerra la si poteva chiamare “festa della vittoria” o insegnarla come “quarta guerra d’indipendenza”. Perché questi nomi esprimono una coscienza geopolitica diversa? Perché ci dicono come un popolo trasforma la propria memoria, per renderla elemento della propria capacità di difendere l’interesse nazionale, grazie all’accettazione sincera del proprio passato. Vincere o perdere in sé non conta, ma conta la percezione delle proprie vittorie e delle proprie sconfitte.

C’è chi si dimostra gigante anche nel perdere e si racconta agli altri come tale, e qualora la sua propaganda risulti efficace geopoliticamente, anche il competitor geopolitico tenderà a crederci. Ad esempio la Russia festeggia ogni anno, il 9 maggio, la vittoria contro il nazismo nella seconda guerra mondiale. Come si chiama la festa? Giorno della vittoria, e poiché per loro è la guerra fondamentale della loro sopravvivenza, non la chiamano seconda guerra mondiale, ma Grande guerra patriottica, cioè la raccontano come loro la percepiscono, guerra per la vita o la morte di ciò che sono ed erano.

Pedagogia nazionale, racconto mitico, senso di se stessi. In una festa si dice tutto questo. Chi si è, che missione ci si attribuisce, cosa si vuole raggiungere, che prezzo si è pagato e se si sia ancora disposto a pagarlo.

La geopolitica si sofferma ad osservare come una guerra, inutile o meno che sia, giusta o meno che sia, parla del popolo che l’ha combattuta, mostrandoci che percezione tale popolo abbia di sé. Ci dice cosa è disposto a pagare per rimanere al mondo come popolo. Un popolo che riconosce una guerra come sbagliata, ma che contemporaneamente celebra i propri sforzi nel raggiungere la vittoria, ricordando le motivazioni, giuste o ingiuste, di quei sacrifici, riconosce la storia della propria identità, e solo così sceglie se continuare a essere quel popolo o cambiare, se accettarsi o fare un salto verso qualcos’altro.

Chi non ha il coraggio di guardare se stesso e il proprio passato, non lo fa neppure con il proprio presente. La geopolitica deve sottolineare come questo abbia enormemente a che fare con la potenza, come capacità di difendere l’interesse nazionale.

Gli italiani con il 4 novembre dicono geopoliticamente al mondo che si sono fatti massacrare inutilmente e che scelgono di celebrare il prezzo in quanto prezzo, nella sua assurdità, in sostituzione della posta in gioco conseguita con quel prezzo.

La memoria di un evento, scegliere di celebrarlo e come celebrarlo sono fattori di potenza, o meglio di potenzialità che possono, se elaborati e vissuti dalla collettività in un certo modo, trascendere la potenzialità in forza e la forza in potenza, e se vissuti in un altro, divenire fattori di debolezza e dunque impotenza.

In definitiva si può affermare che se una collettività, rispetto ad una guerra, ne ricorda il prezzo, vuol dire che geopoliticamente persegue la morale e il benessere, se invece celebra l’obiettivo voluto, raggiunto o meno, persegue la potenza. Gli italiani perseguono la morale, il benessere e l’impotenza, ovvero ipso facto la morale dell’impotenza.

Foto: ministero della Difesa / web / Cremlino / Quirinale