Shoshana Zuboff: Il capitalismo della sorveglianza

Non capita spesso di leggere un libro e di rendersi conto di avere per le mani un’opera definitiva: è quello che succede con Il capitalismo della sorveglianza” (ed. LUISS 2019) di Shoshana Zuboff, sociologa e docente ad Harvard.

Il testo consegna per la prima volta al lettore una analisi approfondita, corroborata da moltissimi dati scientifici e di ricerca, sulla invadenza e la pervasività con cui le Big Company della rete (Google, Facebook, Amazon) sfruttano i nostri dati.

Il lavoro è il risultato di anni di studio nei quali l’autrice ha prima delimitato e poi descritto la natura dell’economia digitale 4.0.

La quale è stata conformata a proprio vantaggio dalle compagnie della rete nel più totale disinteresse dei governi, tradizionalmente inadeguati a gestire con gli strumenti della democrazia le problematiche legate all’innovazione digitale.

La Zuboff considera quella attuale una forma di capitalismo basata essenzialmente sulla personalizzazione dei dati di ogni utente della rete, ottenuta mediante l’estrapolazione del surplus comportamentale, ossia di quei dati e tracce che immettiamo nel web tramite smartphone, i tablet e i computer.

Dati da trasformare in profili individuali, mediante un processo di renderizzazione delle preferenze personali, delle propensioni di acquisto, delle predisposizioni di voto o di opinione, al termine del quale saranno venduti ai veri clienti della rete: gli inserzionisti, i venditori di beni e servizi e i sostenitori di idee che si vogliono diffuse e affermate.

All’economia della produzione di massa iniziata da Henry Ford all’inizio del secolo scorso, caratterizzata dalla organizzazione del lavoro nella catena di montaggio e la conseguente ripartizione dei compiti, la Zuboff oppone un capitalismo della sorveglianza, che affonda le radici nelle attività avviate da Google agli inizi del 2000 quando Amit Patel, un giovane ricercatore di Standford da poco assunto, “particolarmente interessato all’estrazione dei dati”, si rese conto che “era possibile ricostruire, partendo dalle query degli utenti (numero e pattern dei dati cercati, spelling, la formulazione e la punteggiatura della ricerca effettuata on line, il tempo di sosta e la localizzazione) un rilevatore del comportamento umano”.

Fu l’intuito di Patel e la lungimiranza di Page - (anche Yahoo si era resa conto delle possibilità offerte dai dati, ma decise di non sfruttarle) - a porre le basi per quella che Zuboff chiama la ripartizione della conoscenza, che è il vero fine del capitalismo della sorveglianza.

Una conoscenza detenuta essenzialmente dalle grandi compagnie della rete e acquisita con processi di produzione nei quali la materia prima (i dati grezzi delle nostre azioni nel web) viene trasformata, con algoritmi e potenti macchine di calcolo, in prodotti predittivi che rappresentano oggi la principale fonte di guadagno di società come Facebook e Google.

La volontà di ciascun utente della rete - cosa scegliere, cosa comprare, chi votare - potrà così diventare bersaglio di strategie appositamente studiate per modificarla e condizionarla, mediante le più moderne tecnologie esponenziali e i Big Data (Facebook processa ogni secondo più di 6 milioni di dati).

C’è allora un modo per opporsi al futuro distopico, orwelliano, che sembra profilarsi all’orizzonte?

L’autrice pensa di si, e propone l’adozione di precipui provvedimenti di legge per impedire: "la renderizzazione illegittima della esperienza umana in forma di dati comportamentali, l’uso del surplus comportamentale come materia prima gratuita, la fabbricazione di prodotti predittivi, il commercio dei provvedimenti futuri, l’uso di prodotti predittivi per operazioni di influenza e controllo, le operazioni di modifica dei comportamenti, l’accumulo di concentrazioni private e esclusive di conoscenza”.

Zuboff sostiene che solo restringendo il campo di azione dei nuovi capitalisti si riuscirà a riguadagnare spazio alle nostre libertà individuali.

Con una generalizzata presa di coscienza, che deve coinvolgere ognuno di noi sui reali pericoli celati dietro l’apparente libertà delle nostre esistenze digitali.

È questo, per la professoressa di Harvard, il solo modo per formare nella pubblica opinione la massa critica in grado di spingere i governi a mettere in campo i provvedimenti utili a disciplinare, una volta per tutte, le finalità e gli affari delle Big Company della rete.

Sperando che non sia troppo tardi.

Antonio Vecchio