John P. Cann
Ed. Il Maglio
pagg. 352
Il Portogallo, primo impero coloniale al mondo e ultimo ad abbandonare le sue colonie, fu impegnato, dal 1961 al 1974, in una difficile e lunga campagna contro-insurrezionale in Africa, per debellare guerriglieri e terroristi che attentavano alla integrità dello stato, indissolubilmente costituito dal territorio nazionale (Metrópole) e dai territori d’oltremare (Ultramar). Un conflitto armato durato 13 anni e condotto nei lontani Territori d’Oltremare, in teatri operativi vasti e diversi: Angola (1961 -1974), Guinea-Bissau (1963-1974) e Mozambico (1964-1974).
Proprio alla storia di questo conflitto, John P. Cann, docente alla Marine Corps University di Quantico in Virginia ed ex ufficiale pilota della U.S. Navy, ha dedicato il bel volume, finora inedito in Italia, dal titolo Il Portogallo nelle guerre d’oltremare. Dottrina operativa e operazioni in Africa 1961-1974 (che ripropone sostanzialmente la sua tesi di dottorato di ricerca in War Studies, conseguito nel 1966 presso il King’s College di Londra), avvalendosi, per la prima volta, di materiale archivistico e documentario, e, principalmente, di ampie interviste rese dai protagonisti di quegli eventi.
Il lavoro ricostruisce con minuziosità i fatti militari che caratterizzarono l’approccio portoghese alla contro-insurrezione, analizzando una esperienza militare tatticamente vincente ma poco conosciuta, perché oscurata dalla contemporanea Guerra del Vietnam, in cui era coinvolta direttamente una super potenza mondiale come gli Stati Uniti.
Isolato diplomaticamente, dotato di scarse risorse economiche, con un esercito piccolo e impreparato, il Portogallo riuscì nella “straordinaria impresa” di sconfiggere sul piano militare i movimenti di liberazione nazionale, che contavano sul sostegno politico, economico e militare del blocco comunista: Unione Sovietica, Cina e Cuba; nonché di “santuari” nell’Africa sub-sahariana.
L’esercito portoghese in pochi anni fu in grado non solo di compiere uno “sforzo logistico impressionante”, ma anche di elaborare nei primi anni del conflitto una propria originale dottrina contro-insurrezionale, partendo dalle lezioni tratte dalle esperienze degli inglesi e dei francesi, che avevano combattuto quasi negli stessi anni conflitti simili in Malesia e in Algeria.
Cann ricorda infatti che alla fine degli anni ’50 gruppi selezionati di giovani ufficiali delle forze armate portoghesi avevano frequentato i corsi sulla guerra psicologica presso il Maresfield Park Camp Intelligence Centre dell’esercito britannico nel Sussex in Gran Bretagna e quelli sulla guerra rivoluzionaria presso il Centro d’Istruzione di Pacificazione e Contro Guerriglia dell’esercito francese ad Arzew, presso Orano, in Algeria. Inoltre, alcuni ufficiali portoghesi erano stati presenti sul campo al seguito delle forze francesi in Algeria.
Come primo risultato di queste frequentazioni, si possono considerare, a livello di riflessioni strategiche, le cinque conferenze sul tema della guerra sovversiva tenute dal colonnello Hermes de Arajύo Oliveira all’Accademia Militare di Lisbona nel 1959, poi pubblicate nel 1960 col titolo Guerra Revolucionária, a cura del Ministero dell’Esercito.
Questo interesse dei militari portoghesi per la guerra contro-insurrezionale evolverà nell’elaborazione di una dottrina d’impiego che sarà codificata nei cinque volumi del manuale O Exército na Guerra Subversiva. (L’Esercito nella Guerra Sovversiva), redatto dal tenente colonnello Artur Henrique Nunes da Silva - già frequentatore del corso sulla Guerra Sovversiva presso la Scuola Superiore di Guerra di Parigi dal 1958 al 1960 - e dai suoi collaboratori, pubblicato nel 1963, a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito. Un testo fondamentale che, negli anni ’60, mise in grado i portoghesi di disporre di una consolidata dottrina per pianificare una campagna militare di contro-insurrezione, a differenza dei francesi e dei britannici che, negli anni ’50, si erano trovati impreparati ad affrontare questo nuovo tipo di conflitto.
Cann, in modo puntuale, dimostra che ci fu un originale “metodo portoghese” alla contro-insurrezione, fondato sulla strategia nazionale di combinare da un lato il contenimento del costo della guerra e, dall’altro, di distribuire l’onere sulle colonie in base alle esigenze tattiche del teatro operativo. Lo Stato maggiore portoghese, infatti, era ben consapevole di dover condurre una campagna di bassa intensità e di lunga durata con limitate risorse finanziarie.
La dottrina contro-insurrezionale portoghese privilegiava un approccio incentrato sulla popolazione (“population-centric approach”) piuttosto che l’approccio incentrato sul nemico (“enemy-centric approach”), per dirla con l’analista militare australiano David Kilcullen, secondo i dettami del manuale sulla guerra sovversiva che affermava:“la soluzione dei conflitti insurrezionali non può mai essere ottenuta solo con la forza armata”.
La contro-insurrezione richiedeva un approccio olistico. Conseguentemente, la repressione militare fu accompagnata da un vasto programma di riforme politiche, economiche, sociali e amministrative, nell’ottica di una politica di integrazione dei nativi africani volta a conquistarne “i cuori e le menti”. Furono dunque costruiti ospedali, scuole, acquedotti, infrastrutture stradali. Si estese alla popolazione locale l’accesso all’istruzione.
La popolazione indigena fu anche preservata dai contatti con i guerriglieri, sia per proteggerla sia per evitare che desse sostegno alla guerriglia. A questo scopo, seguendo l’esempio di quanto realizzato in Malesia dai britannici e dai francesi in Algeria, i portoghesi realizzarono un ampio programma di reinsediamento della popolazione in villaggi strategici appositamente costruiti e posti sotto il controllo dell’esercito, aldeamentos, che offrivano ai residenti un miglioramento delle condizioni di vita, posti di lavoro e sicurezza.
Se quest’approccio volto a ottenere la fiducia e la lealtà della popolazione risentiva dell’influenza dell’esperienza britannica e francese, molto più originale invece era l’approccio portoghese sul piano della tattica militare.
Lo stato maggiore portoghese attuò infatti una radicale trasformazione di un esercito addestrato per una guerra convenzionale in un esercito pronto ad affrontare una guerra non convenzionale. E questa fu un’impostazione “unicamente portoghese”. Una trasformazione in contrasto con la struttura delle forze armate americane in Vietnam, delle britanniche in Malesia e di quelle francesi, inizialmente, in Algeria. Tutte queste forze infatti cominciarono a combattere le insurrezioni come forze convenzionali.
Quest’approccio comportò non solo un adattamento nei metodi operativi, ma anche la ristrutturazione delle forze, che furono articolate in piccole unità di fanteria leggera. Furono create inoltre forze d’èlite per operazioni speciali, comandos (commando) e fuzileros especiais (fucilieri) della Marina. Si potenziarono le tropas para-quedistas (paracadutisti), che vennero assegnate all’Aeronautica, come forza di reazione rapida da impiegare velocemente dovunque se ne presentasse la necessità. Furono costituite unità di cacciatori speciali, caçadores especiais. Un ruolo particolare tra le forze per operazioni speciali fu svolto dalle Flechas (Frecce), formate dai Boscimani e gestite dalla PIDE (Polícia Internacional e de Defesa do Estado), che dettero prova di una straordinaria capacità di combattimento in ambienti estremi.
Per il trasporto e l’impiego delle forze speciali fu utilizzato l’elicottero, che consentiva l’avvicinamento all’obiettivo a volo radente al suolo che, schermando il rumore, consentiva di cogliere di sorpresa il nemico. Una tattica efficace, già largamente sperimentata dai francesi in Algeria.
Un altro elemento che caratterizzò l’approccio portoghese alla contro-insurrezione fu la considerevole “africanizzazione” delle sue forze armate, cioè la politica di reclutamento delle truppe indigene. Un reclutamento che ampliava il bacino delle risorse umane da arruolare e riduceva i costi di addestramento, e di trasporto dalla madrepatria alle colonie. Gli africani che servirono nelle forze armate raggiunsero la percentuale del 40% della forza totale. Così, sebbene l’uso di forze indigene nelle guerre contro-insurrezionali non fosse una specificità portoghese, in nessun conflitto precedente erano state impiegate in percentuali tanto alte. Né dai francesi prima in Indocina e poi in Algeria, né dagli americani in Vietnam.
Inoltre, fu dato un grande impulso alla propaganda e alle operazioni psicologiche (PSYOPs). Fu anche implementata una rete di intelligence, che era costretta sostanzialmente a fare ricorso alla raccolta di informazioni per mezzo dei contatti personali (HUMINT), tenuto conto che le condizioni di sottosviluppo tecnologico del contesto in cui operava rendevano inapplicabile la SIGINT. All’inizio del conflitto gli insorti non disponevano nemmeno di semplici apparati radio rice-trasmittenti!
La strategia operativa messa in campo dai portoghesi nei 13 anni del conflitto nell’Ultramar fu senza dubbio vincente. Nel 1974, l’Angola era praticamente pacificata, la Guinea era in uno stato di stallo e in Monzambico il conflitto, di modesta entità, era efficacemente sotto controllo.
Le forze armate portoghesi fino a quella data non avevano subito nessuna sconfitta sul piano militare. La sconfitta fu politica.
Un colpo di stato incruento, la cosiddetta “Rivoluzione dei Garofani” (Revolução dos Cravos) del 25 aprile 1974, attuato dagli ufficiali inferiori (Movimento dos Capitães) delle Forze Armate portoghesi conquistati dall’ideologia marxista, abbatté il regime autoritario dello “Estado Novo” salazariano e pose fine, di lì a pochi mesi, al conflitto coloniale.
Un libro davvero interessante e ben documentato, quello di Cann, che ci restituisce la storia di un conflitto altrimenti sconosciuto, conclusosi circa mezzo secolo fa, ma la cui conoscenza ci permette di comprendere meglio le complesse dinamiche dei conflitti armati, cosiddetti asimmetrici, che oggi ancora insanguinano tante aree del mondo, dall’Afghanistan alla Siria, dalla Libia alla Somalia.
Nicola Festa