Germano Maifreda: Io dirò la verità - Il processo a Giordano Bruno

Germano Maifreda
Ed. Laterza, Bari 2018
pagg.313

L’autore, professore ordinario di storia economica presso il Dipartimento di Studi storici dell’Università di Milano, in questo suo saggio approfondisce il processo a Giordano Bruno, alla luce di nuovi documenti inediti.

Nato nel 1548, il Nolano - come Bruno si autodefinì - trasferitosi a Napoli prese l’abito di novizio domenicano nel giugno del ’65, cambiando il suo nome di battesimo, Filippo, in Giordano, “in onore di Giordano Crispo, già priore del locale convento di San Domenico Maggiore e maestro di teologia e di metafisica.”

Ordinato prete nel 1573, mentre si trovava a Roma fu avvisato, da Napoli, che nella sua cella erano stati trovati dei libri proibiti, fatto che avrebbe comportato “il deferimento al Sant’Officio e, dunque, l’apertura di un vero e proprio processo inquisitoriale per eresia.” Dopo che a questo episodio si aggiunse un’accusa di omicidio, egli decise di lasciare definitivamente lo Stato della Chiesa e iniziò a viaggiare per l’Europa.

A Ginevra fu incarcerato per aver stampato un libro diffamatorio di un ministro della chiesa ginevrina. Ritrattò, fu liberato e riprese a viaggiare raggiungendo Lione, Tolosa, Parigi, Londra, Praga, Francoforte per poi, nell’estate del 1591, rientrare in Italia, nella Repubblica di Venezia, che “vantava una lunga tradizione di resistenza alle ingerenze delle autorità ecclesiastiche. Ciò, accanto al prestigio e all’indipendenza dell’università di Padova potè apparire a Bruno ragione sufficiente per sentirsi protetto.” Fu forse per questo che il filosofo, a Venezia, abbassò la guardia e inziò “a sfogare, in quei mesi intercorsi tra l’autunno del ’91 e la primavera del ’92, le amarezze e le frustrazioni che lo avevano accompagnato nei lunghi anni di esilio.”

Il 23 maggio 1592 il nobile veneziano,Giovanni Mocenigo, che lo ospitava, presentò denuncia contro di lui. “Non sapremo mai cosa accadde in quel palazzo del sestiere di San Marco nelle prime settimane di maggio del 1592.(…) Per certo il malanimo dell’aristocratico fu motivato da screzi personali, forse – ipotesi non implausibile, sebbene mai considerata dagli studiosi – di ordine sentimentale.” La sera stessa, Bruno, prelevato dalla casa del nobiluomo, fu condotto nelle carceri inquisitoriali. “Io dirò la verità: più volte m’è stato minacciato di farmi venire a questo Santo Officio, et sempre l’ho tenuto per burla, perché io sono pronto a dar conto di me.” Con queste parole Bruno si presentò davanti ai giudici, tre giorni dopo l’arresto. Ascoltato più volte, “al termine delle sue deposizioni veneziane, dimostrò di non avere intenzione di difendere la propria filosofia al prezzo della morte.”

Il 4 luglio 1592 fu arrestato, e condotto nelle carceri dell’Inquisizione a Venezia, Fra Celestino da Verona. Grazie alle sue terribili accuse Giordano Bruno potè essere condannato a morte. Infatti, “quando gli inquisitori veneziani assicurarono Giordano Bruno alle carceri, si trovarono di fronte a due grossi problemi: l’insufficienza delle prove a carico del reo e la dubbia utilizzabilità della testimonianza di Giovanni Mocenigo.” Si reputa, pertanto, che Fra Celestino, anch’egli inquisito e condannato a morte, fosse un delatore del Sant’Officio e forse, in cambio del sevizio reso, nonostante la condanna a morte, non sia mai stato mandato al rogo grazie ad una sostituzione di persona dell’ultimo momento.

Dopo dieci mesi di carcere a Venezia, Bruno, alla fine di febbraio 1593, fu estradato per entrare, il 27 febbraio, nelle carceri del Sant’Officio a Roma. Qui, il 18 gennaio 1599, gli fu consegnato l’elenco delle otto proposizioni considerate eretiche, elaborato dal gesuita Roberto Bellarmino – incaricato di riesaminare l’intero incartamento del processo – che egli avrebbe dovuto abiurare, pena la condanna a morte. “Il 25 gennaio 1599, dopo aver letto le otto proposizioni, Bruno si dichiarò disposto a revocarle, ma presentò una memoria scritta in sua difesa.” Successivamente, egli, nel tentativo di guadagnare tempo, fece pervenire altre memorie scritte alla corte che, però, intuito il piano del Nolano di allungare i tempi del processo a colpi di memorie, gli impose, come data ultima per far pervenire l’abiura, il 10 settembre.

“Bisognava far comprendere al supponente filosofo che l’epoca delle dispute era definitivamente tramontata, che il Rinascimento era finito. Che in Italia si era entrati nell’età dei tribunali della coscienza.” Da quel giorno in poi ci fu un cambiamento radicale nell’atteggiamento del filosofo che, chiudendosi in un mutismo ostinato, interruppe ogni comunicazione con la corte. Il 20 gennaio Papa Clemente VIII ordinò che si chiudesse la causa con sentenza di condanna capitale.

“Forse con maggiore timore pronunciate contro di me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla” è la frase che Bruno avrebbe rivolto agli inquisitori dopo aver ascoltato la lettura della condanna al rogo, con sentenza eseguita a Roma, il 17 febbraio 1600, a Campo de’ Fiori.

Gianlorenzo Capano