Elisabetta Sala
Ed. Ares, Milano 2024
pagg. 309
“Figli di ieri” è un romanzo di formazione perché racchiude l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza di Tino, il protagonista, ed è anche un romanzo storico perché è ambientato tra metà degli anni Sessanta e metà degli anni Settanta, un mondo totalmente diverso dal nostro, con i ragazzi di allora che erano totalmente diversi da quelli di oggi. Erano gli anni della contestazione e, anche se l’autrice ha in gran parte ambientato il suo libro a Milano, città dove lei vive e insegna in un liceo, potrebbe essere anche ambientato in qualunque altra città protagonista delle proteste più o meno violente di quegli anni. Gli ingredienti ci sono tutti.
Siamo nel 1965 e Costantino è un bambino di 10 anni che frequenta le scuole elementari a Monno, un paesino della Val Camonica, dove lui, con la sua famiglia, trascorreva le sue giornate felicemente e sognava di fare il supereroe. D’altronde portava lo stesso nome di Costantino il Grande, un vero eroe. “E gli parve, quel nome, un presagio per le grandi imprese che anche lui, Gazzoli Costantino da Monno di Val Camonica, era destinato a compiere nella vita”.
Un giorno, però, quel mondo, dove “tutto pareva felice, giovane, sano” facendogli credere che “il paradiso non doveva essere molto diverso”, Tino, con la sua famiglia, dovette abbandonarlo per trasferirsi a Milano. I suoi genitori, infatti, erano rimasti senza lavoro che avrebbero trovato lì, nel capoluogo lombardo. Milano, però, “era fumo e rumore. Era una voragine che inghiottiva i colori dei monti, l’odore del fieno fresco, il latte preso dalla stalla e persino l’Adamello in tutto il suo splendore, quando si colorava di rosa per il sole calante, insieme alle quattro case di sassi tra cui lui era nato e vissuto”.
Un saluto agli amici di sempre, Giulio, Berto, Pier Paolo; la promessa di rivedersi dopo 10 anni, nel 1977, nel loro covo sotto il grande faggio; la speranza di Tino che “la città poteva essere un buon punto di partenza per un’impresa gloriosa”; la sistemazione in un palazzo di Milano con la scoperta “che un palazzo era un po’ come un paese, in cui tutti sapevano le faccende di tutti. […] Anche la vita dei ragazzi era simile” e poi, lo spaesamento del primo giorno di scuola. “C’era da intimidirsi al solo guardare quel grande edificio. Grigio, tanto per cambiare”. I risolini soffocati dei nuovi compagni di classe lo accolsero al suo “buongiorno”.
Arrivò il primo Natale in città. “Avrebbe dato tutte le vetrine addobbate del mondo in cambio di una battaglia a palle di neve sotto il campanile di Monno”. Arrivarono gli esami di terza media e la scelta della scuola superiore. Tino optò per il liceo classico.“Voleva studiare quel passato per cui sentiva dentro una strana, struggente nostalgia. Quel passato che lui aveva appena fatto in tempo a intravedere prima che asfalto e cemento lo cancellassero per sempre”. I suoi nuovi compagni di classe del liceo Beccaria erano quasi tutti figli di medici, avvocati e insegnanti. I suoi genitori erano contenti di aver scelto per Tino una scuola “seria”: così, forse, sarebbe stato al riparo da scioperi e agitazioni che avevano cominciato a prendere piede un po’ dappertutto.
Cominciò a sentire, a scuola, gli studenti che “parlavano di lotta all’ingiustizia, di uguaglianza, di diritti dei poveri e dei deboli, di lotta di classe”. Uno di loro, Piero, quindici anni, che indossava un eskimo verde militare ed era dotato di un eloquio brillante, rappresentava, all’interno della scuola, una sorta di leader della protesta. “Un po’ come re Mida, Piero aveva il raro dono di tramutare in oro tutto quel che diceva”. Avvenne, allora, per Tino, la scoperta della politica e l’ingresso nell’età adulta, mentre a Milano cominciava il periodo degli attentati. E così, Tino, si trovò a partecipare ai collettivi e alle manifestazioni, insieme ai “compagni”. “Dire “compagni” è meglio, perché vuol dire che si condivide un ideale di vita. “Amici” è un termine borghese, debole”.
L’estate, però, Tino ritornava a Monno, per rincontrare gli amici di sempre. Era “un grattar via la patina dorata che l’aveva ricoperto per nove mesi e ritrovare sé stesso”, come se non fosse mai partito. “Milano era la terra complessa, il luogo delle opportunità, della sperimentazione, forse anche degli sbagli: era la chioma di una pianta sbattuta qua e là dal vento. Monno era le radici di quella pianta, infisse nel suolo una volta per sempre”. Milano era anche i picchetti di fronte la scuola, le ragazze emancipate. Non tutte però. Ce n’era una, Sara, che sembrava rifiutare totalmente quel vento di novità che spirava nella città. “Mentre tutto era un vortice intorno a loro, tra nuove idee, battaglie, amicizie, slogan, e mentre da preadolescenti si facevano giovani adulti, solo Sara rimaneva uguale a sé stessa, sempre più diversa da tutte le altre”. Fu forse per questo che Toni ne rimase colpito. Per lui Sara rappresentò un mistero che, un po’ alla volta, cercò di svelare. Questa ragazza, infatti, “che pareva dapprima tanto facile inserire in uno schema, aveva sempre qualcosa che sfuggiva”.
Il 1972 portò, a scuola, la novità dell’arrivo del professor Anselmi che “entrò in classe come un tornado”. “Alto e atletico, sulla trentina, Anselmi portava una corta barba incolta e tondi occhiali da intellettuale”. Propose subito, ai suoi studenti, un cineforum con annesso dibattito, un classico di quegli anni. E poi, successivamente, inaugurò, per gli studenti, un circolo culturale, dove lui “apriva la riunione dando un tema. […] Consigliava loro un articolo, un libro, una poesia, che loro correvano poi a cercare, abbeverandosi come greggi al torrente in un giorno di arsura. Ogni tanto, però, gli si accendeva dentro un fuoco che lo portava a tenere brevi discorsi. Tutti lo ascoltavano col fiato sospeso e a stento si trattenevano dall’applaudire”. Il professore, eccellente affabulatore che, dalla sua comoda cattedra, divulgava a adolescenti in cerca della propria via, idee rivoluzionarie, di lotta, anche violenta: anche questo era un classico di quegli anni, dove gli intellettuali pontificavano nelle aule universitarie e dei licei, mentre i ragazzi si massacravano, per le strade, a colpi di chiavi inglese, e non solo. Un pestaggio vero e proprio, a base di spranghe taglienti e chiavi inglesi, infatti, fu quello che subì un amico di Tino. “Il pacifismo era una chimera, una chiacchiera di cui ci si riempiva la bocca per placare la ferocia. […] Si era in guerra e non erano ammessi errori, né tentennamenti. Tanto meno era ammessa l’autonomia di pensiero”.
Un’epoca, quella descritta da Elisabetta Sala in questo suo romanzo, dove i ragazzi si incontravano di persona, e non sui social, e, a volte, si scontravano. Quei ragazzi correvano dei rischi, che facevano parte della crescita, facendo i salti mortali, come il ragazzo nella copertina del libro, e, qualche volta, rimanevano indenni, cadendo in piedi …qualche volta no.
Gianlorenzo Capano