Beatrice Raveggi – Daniela Velli: In tempo di pace - Ispirato alla storia vera di Claudio Bronzin esule istriano

Beatrice Raveggi – Daniela Velli
Ed. La nave dei sogni, Treviso 2023
pagg.112

Questo saggio è strutturato in due parti, una, dove la vita di Claudio Bronzin, esule istriano classe 1935, viene narrata in prima persona, l’altra, dove vengono sintetizzate le vicende fondamentali relative alla frontiera adriatica dal 1861, nascita del Regno d’Italia, fino ai nostri giorni.

Claudio Bronzin viveva “a Pola, nell’attuale Croazia, che prima fu Jugoslavia, prima ancora Italia”[...] Ogni cosa allora, in quelle strade agiate tutt’intorno all’arena romana, parlava italiano”. E, della sua infanzia, trascorsa lì, ricorda il primo bombardamento, nel gennaio del ’44, quando tutti erano convinti, invece, che “a Pola no i bombarda, non ci bombardano”. E da quel momento comincia per Claudio, per la sua famiglia e per tutti i loro concittadini, la vita passata a rintanarsi sottoterra, “nel labirinto di gallerie che gli austriaci avevano fatto scavare nella roccia sotto la città come una tela di ragno”. Una vita fatta di “pasti interrotti, giochi e compiti lasciati a metà sul tavolo da cucina”.

Da allora in poi, i bombardamenti su Pola da parte delle forze alleate si fecero sempre più frequenti. “L’obiettivo era stanare fascisti e nazisti che, dopo l’Armistizio, per l’Italia erano passati dalla parte del nemico”. Fu così che la famiglia Bronzin decise di abbandonare “quella vita da topi nelle gallerie umide dei rifugi antiaerei”, trasferendosi a Lisignano, un piccolo borgo slavofono poco distante da Pola, e fu grazie a questo trasferimento che Claudio conobbe il dottor Geppino Micheletti. Fu infatti lui, che lavorava presso l’ospedale di Pola, a curargli una ferita al piede, non in ospedale, però, ma a casa sua, dove Claudio conobbe i due figli del dottore, Carlo e Renzo, oltre alla moglie Jolanda. “Quando mio padre gli chiese quanto gli dovesse per la visita e le cure, lui rispondeva così: Sai cosa mi devi Bruno? Dime grasie e siamo a posto così”.

Intanto, a Pola, “nei quaranta giorni che precedettero l’arrivo degli inglesi, i partigiani di Tito avevano saccheggiato di tutto, dal cibo ai mobili, si erano persino portati via i letti degli ospedali. […] Sembrava impossibile che quell’orda di soldataglia, senza scarpe e coi pantaloni pieni di buchi, rappresentasse il vincitore. […] In quei quaranta giorni, da Trieste e in tutta la Venezia Giulia, sparirono misteriosamente diversi connazionali”. Insegnanti, postini, proprietari terrieri, funzionari di banca, nonché i partigiani che non si piegavano al disegno panslavista di Tito, furono queste, principalmente, le vittime della violenza titina. “Milovan Dilas, un montenegrino convintamente rivoluzionario e braccio destro di Tito, aveva organizzato in tutta l’Istria una propaganda antiitaliana per convincere le forze alleate che quelle terre erano slave di diritto. Non era vero, ma bisognava indurre gli italiani a partire, con ogni mezzo”.

È un caldo pomeriggio domenicale quello del 18 agosto 1946. “Tutta la città è convenuta sulla spiaggia di Vergarolla per assistere alla ventottesima Coppa Scarioni, la gara natatoria tanto attesa e anche l’ennesima manifestazione d’italianità, la più inutile: il dado era già stato tratto, Pola e le altre città istriane sarebbero state regalate alla Jugoslavia, come risarcimento di guerra”. Claudio è lì con la sua famiglia. Stoccati sulla spiaggia ci sono dei cilindri esplosivi disinnescati, usati un tempo per difendere il porto dai sottomarini e facenti parte, oramai, del contesto paesaggistico, tanto da non incutere più paura a nessuno. I bambini, tra quei cilindri, giocavano a nascondino. “Sono le 14:10, un colpo secco, metallico, morde l’aria, improvviso, affonda le unghie nel cielo sereno e lo squarcia, una frustata sonora scuote violentemente ogni angolo di quella pacifica domenica, per chilometri, assesta a tradimento il fendente nel cuore addormentato della città”.

È una strage. “Ogni polesano quel giorno ha perso qualcuno”. All’ospedale accorse subito il dottor Geppino Micheletti. “Non lasciò più il suo posto per ventisei ore filate; molte delle persone che egli medicò in quelle ore gli devono la vita” E questo, nonostante avesse saputo che era stato trovato il corpo di suo figlio Carlo, mentre di Renzo nessuna traccia, se non una scarpetta e un calzino. Venti furono, alla fine, i corpi dei bambini ritrovati, vittime di quella strage. Al funerale il dottor Micheletti portò la bara di suo figlio Carlo. “Era leggero il legno di quella bara, ma così pesante il legno di quella croce!” Non si era potuto trattare di una esplosione dovuta a un incidente fortuito, ma di un gesto deliberato. I sospetti ricaddero sull’OZNA, il servizio jugoslavo per la sicurezza del popolo. Fu così che a Pola, dopo Vergarolla, nel cuore di tutti “era maturata una sola unanime decisione: partire, impacchettare alla meglio la vita e affrontare quello sradicamento forzato per poter continuare a vivere come italiani.[…] Fedeli al punto di dover condividere con Dante, nostro amato poeta, l’esperienza dell’esilio, pur di restare italiani. Italiani due volte: per nascita e per scelta”.

Pola, in poco più di tre mesi, divenne una città fantasma. “Più di 300.000 persone scapparono da tutta l’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, dal “paradiso” Tito”. I chiodi diventarono il bene più prezioso. Ad ogni famiglia ne venivano assegnati 300 grammi, assieme a degli assi di legno. “Dalla mattina alla sera ovunque si sentivano alacri martelli che inchiodavano cassetti, sigillavano sportelli, imballavano masserizie”.

Il piroscafo Toscana, che tra inizio febbraio e fine marzo, fece la spola tra Pola, Ancona e Venezia, divenne la nave simbolo dell’esodo giuliano. “Italiani pronti a mangiare cipolle e a vivere in stanzoni divisi da coperte per anni, pur di restare liberi e mantenere la propria dignità, mentre altri si godevano le loro case istriane”. In tutta la penisola furono allestiti centonove campi profughi. Ad attenderli, sul molo di Trieste, nel Magazzino 18, c’erano le loro cose. “C’era una vita nascosta, sospesa, tra quelle masserizie, tra gli oggetti di ogni giorno accatastati in quel ricovero, al porto vecchio”. Il dott. Micheletti finì a Narni, dove continuò il suo lavoro di chirurgo nell’ospedale locale. “Nella tasca del suo camice c’era il calzino del piccolo Renzo, che lo accompagnava sempre”. La famiglia Bronzin si trovò, invece, a Firenze, diventata, per Claudio, una seconda patria. Lì, infatti, si diplomò e si sposò, rimanendo con il cuore sempre a Pola, dove ogni tanto ritorna e dove, però, “si parla un’altra lingua e in casa mia abitano persone che non conosco. La spiaggia di Vergarolla è tutta recintata da un alto muro sormontato da filo spinato. Solo il cimitero è rimasto uguale. Tra le tombe, dove i morti hanno imparato il perdono, vi si legge ancora qualche cognome italiano, mascherato malamente da un ch finale”.

Scritto da due insegnanti (Daniela Velli, in particolare, è anche presidente della sezione di Firenze dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia), questo libro, come consiglia lo storico Gianni Oliva nella prefazione, sarebbe opportuno utilizzarlo nelle classi, “farlo leggere agli studenti, valorizzarne la forza espressiva.[…] Un’opportunità preziosa per tutti i docenti che vogliono affrontare il tema delle foibe e dell’esodo giuliano - dalmata con serietà”.

Gianlorenzo Capano