Antonio Gibelli: La Grande Guerra degli italiani

Antonio Gibelli
Ed. Rizzoli, Milano 2014
pagg.399

L’autore, professore di storia contemporanea all’Università di Genova, traccia un affresco dell’Italia nel periodo della Grande Guerra “ponendo soprattutto l’accento sugli stati d’animo collettivi, sull’esperienza vissuta di combattenti e civili, uomini e donne,adulti e bambini, in una parola dell’intera popolazione italiana coinvolta in quell’esperienza in maniera totale e uscita da essa profondamente trasformata.

Quella che fu la prima, grande esperienza collettiva degli italiani, iniziò il 24 maggio 1915. Al contrario della seconda guerra mondiale, che investì tutto il territorio italiano, questo conflitto interessò soltanto una parte limitata di esso. E, oltre che “un evento biologico di proporzioni inaudite” in quanto“per circa quattro anni, in alcuni territori del continente europeo, milioni di uomini si erano sistematicamente dedicati ad ammazzare altri uomini mediante l’impiego di moderne tecnologie, milioni di corpi per lo più giovani e in buona salute erano stati trasformati in cadaveri in putrefazione”, fu “una guerra totale solo nel senso che tutte le energie economiche, sociali e intellettuali furono mobilitate per sostenerne il peso, e la vita di tutti ricevette dalla guerra in corso un’impronta molto forte.” Imposta in Italia da una minoranza, fu condotta inizialmente con la feroce disciplina repressiva del generale Cadorna. La neutralità iniziale - l’Italia infatti entrò in guerra 10 mesi dopo l’inizio del conflitto – fu ben vista sia dalle grandi masse contadine che rappresentavano la più larga fetta sociale del paese, sia dalle masse operaie. A favore dell’intervento, invece, c’era la piccola e media borghesia e, successivamente, i gruppi emergenti del capitalismo italiano, nonché gran parte degli intellettuali, da Marinetti a D’Annunzio, da Papini a Prezzolini. I Futuristi vedevano nella guerra il trionfo del rumorismo e del dinamismo. Gli irredentisti la vedevano come un compimento del Risorgimento, che sarebbe avvenuto con la liberazione dei territori che attendevano la propria redenzione: il Trentino con Trento e l’Istria con Trieste.

Circa un sesto della popolazione, equivalente a 5.900.000 di uomini, fu arruolato tra il 1915 e il 1918 nell’esercito, che passò da circa un milione di uomini nel 1915 a oltre due milioni nel 1917-1918, con il 45% costituito da contadini che pagarono anche il maggior tributo di sangue. Il corpo degli ufficiali invece passò da circa 15.000 alla vigilia della guerra a 22.000 durante il conflitto. Il vero incremento, però, lo subì il reparto degli ufficiali di complemento che passò da circa 20.000 nel 1914 a quasi 156.000 nel 1918 e che venne a costituire l’ossatura della truppa.

Tutti si trovarono a combattere per una patria in cui, però, il grado di identificazione delle masse popolari italiane, alla vigilia del conflitto, era ancora modesto. “La debolezza dell’identità nazionale trova riscontro nei fenomeni linguistici, in quelli riguardanti la scolarità e l’alfabetizzazione.

Fu una guerra soprattutto di posizione, come stanno a dimostrare le 12 battaglie dell’Isonzo, dove, malgrado gli sforzi, non si andava né avanti né indietro. Molti furono i renitenti (470.000 le denunce all’inizio della guerra) e i disertori. Altri, per non andare al fronte, ricorsero all’autolesionismo e alla simulazione di malattie che,quando si trattava di malattie mentali, erano molto difficili da smascherare.

La guerra portò un incremento dell’alfabetizzazione. “Numerosi furono i fanti che impararono a scrivere proprio dal 1915 al 1918. Insieme all’importanza di saper leggere e scrivere, i soldati scoprirono, a loro spese, la modernità delle nuove tecnologie, la potenza dell’industria, la forza coercitiva e la presenza dello Stato nella loro vita.

Oltre ai soldati vi fu il fronte interno che fu soprattutto fronte industriale e operaio, costituito principalmente dalle donne e dalle maestranze industriali, e che comportò un incremento straordinario dell’occupazione operaia riguardante anche ragazzi. Il ruolo della donna mutò notevolmente in quanto “l’enorme consumo di energie umane determinato dalla guerra, il bisogno crescente di manodopera in tutti i settori e specialmente in quelli della produzione bellica, provocarono in effetti una specie di invasione di campo femminile non solo nell’ambito della famiglia ma nelle più diverse attività. Le donne divennero tranviere, ferroviere, portalettere, impiegate di banca e dell’amministrazione pubblica, operaie nelle fabbriche di munizioni.

Il fattore umano, però, non fu tenuto in gran conto dal generale Cadorna: "Per lui la guerra doveva essere condotta tutta dall’alto. Decise le strategie a tavolino, pensava che esse dovessero essere semplicemente applicate, quali che ne fossero i costi." E così, nel corso del 1916 e della prima metà del 1917, una serie di azioni italiane si risolsero in tremendi macelli, privi di risultati decisivi, fino ad arrivare, nella notte tra il 24 e il 25 ottobre 1917, alla disfatta di Caporetto, “l’episodio più importane della guerra sul fronte italiano, vale a dire lo sfondamento repentino del fronte e il conseguente dilagare in profondità delle truppe austro – tedesche sul territorio nazionale.

Caporetto dimostrò che “la guerra era stata un’imposizione di minoranze sulla maggioranza del paese e specialmente sugli stati d’animo delle classi subalterne, ma soprattutto questa ultime avevano continuato a rimanere estranee, a subirla come una violenza, a non identificarsi affatto con le sue ragioni.” Per la prima volta si passò da guerra di posizione a guerra di movimento, con tutto quello che comportò la movimentazione rapida di un ingentissimo numero di uomini (un milione di militari e 400.000 profughi civili), con relativi carriaggi e masserizie, sulle poche strade che portavano al Tagliamento. “Secondo i dati ufficiali, le perdite complessive della rotta si contarono in circa 10.000 morti, 30.000 feriti, 40.000 sbandati, poco meno di 300.000 prigionieri.

A posteriori, la vicenda di Caporetto fu riletta, da alcuni,in chiave positiva in quanto fu vista come una “salutare sferzata che avrebbe ridestato le energie del paese e dell’esercito, rinsaldato l’unità politica, fatto finalmente della guerra un fattore di coesione e dell’appartenenza nazionale un sentimento più largo e profondo.” Un anno dopo, la guerra terminò con la vittoria dell’Intesa e, quindi, dell’Italia. Una vittoria, la nostra , non affatto scontata anzi, “la controffensiva vittoriosa fu in un certo senso una sorpresa.” E fu dovuta anche al cambio di comando: il generale Cadorna fu sostituito dal generale Diaz, che ebbe una maggiore attenzione alle esigenze delle truppe evitando un loro impiego forsennato.

Molti, nel corso della Grande Guerra, furono i morti, molti furono quelli che rimasero senza nome. “L’anonimato, che era stata la qualità dominante delle guerra dei fanti in trincea, fu anche il carattere prevalente della morte”, tanto che si giunse al milite ignoto, quale oggetto di culto postumo cumulativo. “La figura del milite ignoto aveva cercato di dare un nome collettivo a un corpo che non aveva più nome.” Sorsero poi i Parchi della Rimembranza,dove viali e giardini erano destinati ad accogliere tanti alberi quanti erano i caduti delle rispettive località. Ma ancor più capillare fu l’iniziativa di affissione di lapidi e di erezione di monumenti ai caduti su tutto il territorio italiano. Una memoria permanente quella della Grande Guerra tant’è che “il colpo di tuono del 1914 fa ancora sentire il suo lontano rimbombo.

Gianlorenzo Capano