Spese per la Difesa: non solo “di più” soprattutto si cerchi di spendere “meglio”!

(di Antonio Li Gobbi)
20/03/22

Lo scorso 16 marzo, la Camera quasi all’unanimità ha approvato un ordine del giorno che impegnava il governo a elevare, entro il 2024, le spese per la difesa sino al 2% del PIL (ovvero a passare da circa 25 miliardi odierni a circa 38 miliardi, comunque da commisurare all’andamento del PIL).

Simili notizie mi lasciano perplesso e dubbioso. Certo, si tratta di una positiva volontà espressa dal Parlamento per stimolare il Governo a occuparsi del problema del livello qualitativo dello strumento militare nazionale. Mi auguro, nella mia ignoranza, che sia anche un invito ad occuparsi di più della politica di sicurezza nazionale, in un’ottica che prenda in conto le instabilità sia sul continente europeo sia nelle regioni che circondano il Mediterraneo. Ovviamente, ben venga la sensibilità dimostrata dai parlamentari nella loro quasi assoluta totalità in merito a questo argomento decisamente complesso. Peraltro, è proprio la votazione quasi unanime che lascia pensare che il voto sia stato più emotivo che meditato.

Intanto, ricordiamoci che l’impegno a portare la spesa per la difesa al 2% del PIL entro il 2024 era già stato assunto dal presidente del consiglio pro-tempore, Matteo Renzi, nell’ambito del Summit dei capi di Stato e di Governo NATO del 2014 a Cardiff. Tale impegno collettivo da parte dei paesi europei era stato fortemente voluto (termine soft, direi “quasi imposto”) dall’amministrazione Obama.

Pertanto, se l’Italia è solita rispettare gli impegni assunti in ambito internazionale, mi aspetterei che (indipendentemente dal conflitto russo-ucraino e indipendentemente dal recente “incoraggiamento” parlamentare) ci sia già una pianificazione per soddisfare questo impegno sottoscritto ben otto anni fa e regolarmente riconfermato in ambito atlantico. Soprattutto, che ci sia già una idea dettagliata anche di “come” impegnare nel modo più proficuo possibile tali risorse aggiuntive, quantitativamente ingenti e particolarmente preziose in un periodo di grave crisi economica nazionale.

Ritengo utile ricordare che l’aspetto forse più pregnante del citato impegno assunto nel 2014 in ambito NATO è che almeno il 20% della spesa per la difesa (ovvero almeno il 4 per mille del PIL) entro il 2024 dovrà essere dedicato a defence spending on major new equipment, including related research & development” ovvero all’innovazione nel settore della difesa (riferimento Wales Summit Declaration, art. 14), punto che non mi pare essere stato ripreso dall’ordine del giorno parlamentare.

Quindi, ben venga l’incoraggiamento corale del Parlamento, ma occorre anche avere chiari obiettivi e priorità.

Da militare ho sempre avuto qualche sospetto quando sentivo parlare di “aumentare” le spese per la difesa, ma non sentivo parlare contemporaneamente di “migliorare e razionalizzare” tali spese. Personalmente, ritengo che il problema oltre che nella “quantità” della spesa risieda nella “qualità” di tale spesa.

Troppe volte in Italia la spese per la difesa sono divenute un utile contenitore cui attingere per far fronte a esigenze che poco o nulla avevano con l’elevazione delle capacità operative dello strumento militare.

Già nel 1930 Mussolini sollecitava al Ministro della Guerra Pietro Gazzera “un programma di lavori …dico lavori, non armamenti o dotazioni, …in modo da occupare una quantità notevole di mano d’opera” (rif. Massimo De Leonardis “Guerra Fredda e interessi nazionali”). Le condizioni decisamente inadeguate con cui i nostri soldati hanno affrontato il secondo conflitto mondiale sono il frutto anche di una tale mentalità!

Venendo agli ultimi decenni, non si può negare, ad esempio, che la percentuale consistente di personale di truppa immessa in servizio permanente (ovvero con contratto a tempo indeterminato), percentuale superiore a quelle di altri strumenti militari similari per dimensioni e funzioni, sia stata il frutto di considerazioni di natura occupazionale piuttosto che di natura operativa (tenendo conto anche del progressivo inarrestabile invecchiamento di percentuali preoccupanti dei nostri graduati di truppa). Considerazioni certamente sacrosante in un’ottica generale nazionale, che però anch’esse (come quelle di Mussolini nel 1930) sacrificavano l’aspetto operatività dei reparti ad altri ritenuti di più immediato interesse (“tanto la guerra non si farà più”).

Analogamente, troppo spesso la politica di acquisizione di sistemi d‘arma, mezzi ed equipaggiamenti è stata dettata più dall’esigenza di far lavorare alcuni settori dell’industria nazionale in sofferenza (giungendo anche talvolta all’acquisizione sistemi o mezzi progettati inizialmente per l’esportazione che però non avevano trovato sufficiente gradimento da parte del mercato estero).

Occorre anche tener presente che in Italia gravano sulla Difesa parte consistente delle spese per l’Arma dei Carabinieri, che assolve quasi esclusivamente funzioni di polizia (a parte essenzialmente alcuni contingenti di MSU impegnati in operazioni esterne).

Inoltre, per ben trent’anni, ovvero sin dal 1992 (operazione “vespri Siciliani”), forze non indifferenti dell’esercito sono impegnate in funzioni di supporto alle forze di polizia (attualmente operazione “Strade Sicure”).

Quindi il punto non è solo “quanto” si spende per il comparto difesa bensì “per che cosa si spende”.

Ovviamente, occorre anche evitare quelle poco dignitose “guerre tra poveri” cui abbiamo assistito in passato con capi di stato maggiore che, facendosi supportare da questa o quella componente dell’industria della difesa nazionale, tentavano di sottrarsi reciprocamente gli scarsi fondi, operando in ottica prettamente di forza armata anziché interforze.

Occorre decisamente superare tale approccio, perché oggi una politica di investimenti tendente a elevare la capacità dello strumento militare nazionale deve essere necessariamente impostata su una visione genuinamente interforze, che lasci da parte i pur comprensibili egoismi di forza armata. Egoismi che non ci possiamo più permettere, a meno che ci si voglia ritrovare con una specie di Frankenstein con i singoli pezzi tra loro non compatibili ma in compenso con piantata sopra in evidenza la bandierina della forza armata “sponsor”.

Certamente siamo avvantaggiati avendo in questo momento la fortuna di avere come segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli Armamenti un ufficiale decisamente di grandissima esperienza operativa, interforze ed internazionale e di eccezionale capacità (il generale Luciano Portolano). Peraltro, l’approccio interforze deve essere strutturale e non contingente o basato su chi occupi una certa posizione in un determinato momento storico.

Analogamente, per quanto sia indispensabile per il governo supportare nei modi dovuti l’industria della difesa nazionale, occorre abbandonare l’idea che i fondi vengano destinati “nominalmente” all’ammodernamento della difesa, con il vincolo sottinteso che transitino poi interamente all’industria nazionale, indipendentemente dall’idoneità dei prodotti da questa offerti per soddisfare le esigenze della difesa nazionale.

In merito a velivoli, naviglio e sistemi d’arma terrestri è inutile ribadire che si dovrebbe ricercare finché possibile la cooperazione internazionale con altri grandi players europei, anche per mirare ad una elevata interoperabilità in ambito europeo.

Peraltro, occorre sempre ricordare che lo strumento militare non è soltanto un insieme inanimato di aerei, navi, carri armati e artiglieria. Il fulcro è sempre l’elemento umano (in primis, certamente, nelle forze terrestri ma anche nelle componenti aero-navali).

L’evoluzione tecnologica dei sistemi d’arma non diminuisce l’importanza del fattore umano, anzi pone ancora di più l’accento sulla componente umana. Componente che deve essere altamente qualificata, motivata, ed essere mantenuta permanentemente addestrata.

Ciò comporta:

  1. Che si debba poter effettuare una selezione rigorosa del personale che si arruola (ciò richiede un elevato numero di aspiranti, e pertanto anche che le condizioni offerte, incluse quelle stipendiali, siano competitive nel quadro del mercato del lavoro nazionale);

  2. Che il personale venga formato tecnicamente su sistemi d’arma tecnologicamente complessi e che venga poi costantemente mantenuto ad adeguato livello addestrativo. Non si può sottacere che il problema della disponibilità di aree addestrative in Italia è diventato estremamente critico, ciò sia per comprensibili ed inevitabili problemi connessi con l’elevata urbanizzazione del nostro paese, sia per anacronistiche prevenzioni ideologiche nei confronti dei militari e delle loro necessità addestrative;

  3. Che il personale, se non vi sono emergenze reali, non venga distaccato permanentemente per funzioni mortificanti della loro professionalità e che poco hanno a ché fare con i loro compiti in caso di impiego in area di conflitto.

Quindi, ben venga l’incremento di spesa per la difesa (che stante la drammatica situazione economica della nazione è un impegno che non può essere assunto a cuor leggero), ma prima ancora di decidere di spendere di più, impegniamoci da subito a spendere meglio di quanto fatto nei decenni passati nell’ottica di elevazione delle capacità operative dello strumento militare.

Foto: U.S. Army / NATO / Bundesarchiv / Esercito Italiano / Royal Air Force