Sciaboloni e balli tribali

(di Marco Bertolini)
09/08/20

Da incorreggibile militarista quale sono, ho sempre assistito con grande commozione al Carosello storico dei Carabinieri. Mi ha sempre commosso quasi fino alle lacrime la postura vintage, dal vago sapore archeologico anzi, dei suoi cavalieri, con i loro baffoni neri, i loro pennacchi e le loro mani sicure che senza complimenti sanno far capire al cavallo chi è il padrone. Mani come dovevano essere state quelle di mio nonno, estratto alla leva nel 1902 e per due anni nel reggimento “Nizza cavalleria” (1°). Si trattava di un contadino, avvezzo per atavica consuetudine del suo paese a governare gli animali, spalare letame, mondare lettiere, sellare cavalcature e mettere il basto a bestie da soma. Era certamente abituato anche a manovrare gli attrezzi della sua plurisecolare routine familiare, così simili in fin dei conti a quelli che gli vennero dati in dotazione all’incorporazione. Non gli dovette risultare troppo difficile, penso, passare quindi dalla zappa e dalla falce allo sciabolone: sempre di attrezzi che richiedevano bicipiti e fatica per essere maneggiati; roba da gente dal forte sentore di sudore e di stallatico, con l’alito pesante di chi mangia poco, beve vino e santifica il dì di festa col Toscanello.

Anche se con un’uniforme diversa ma per nulla meno elegante e suggestiva, col suo elmo crestato e la croce di Savoia sulla fronte, era nella sostanza simile a questi elegantissimi carabinieri di oggi, con le loro lucerne con pennacchio e quell’aria solenne che sempre assume l’uomo a cavallo. Una dozzina d’anni più tardi, richiamato alle armi per la Grande Guerra, perì lasciando quattro figli orfani ed uno, mio padre, in arrivo. Ma questa è un’altra storia.

Invece la storia di cui vorrei trattare è il fatto che il passato, quando viene riproposto nel presente, richiede amore ed attenzione da parte di chi non si accontenti di creare un defilè delle uniformi di un tempo, in un panno meno ruvido ovviamente, e desideri invece riproporre gli stessi valori di allora. Diversamente, il precipizio nel ridicolo sarebbe inevitabile, come se si organizzasse una coorte di soldati di sesso femminile con i baffi posticci e in lorica segmentata per rievocare in qualche cerimonia, con un occhio ai dettami delle nuove sensibilità, le battaglie della conquista romana della Gallia. Ma il rischio non sussiste, stante la rimozione della nostra storia antecedente alla seconda metà del 20° secolo.

Lasciando questa lunga premessa equestre, giusto per far capire il mio sommesso pensiero su come si debbano coltivare e rispettare le tradizioni, ancorché solo da un punto di vista formale, la stessa cosa si verifica in altre situazioni, come quando un simbolo tipico degli ufficiali delle Forze Armate, la sciarpa azzurra, viene fatto indossare anche ad altre categorie, snaturandone il significato, risalente addirittura al “Conte Verde”, Amedeo VI durante una crociata del 14° secolo.

La nostra storia militare nazionale ha lasciato, infatti, molti simboli dietro di sé che ornano le uniformi militari dell’oggi. Non si tratta di semplici orpelli per dare soddisfazione al naturale “patacchismo” dei soldati di tutti i paesi, ma di strumenti “operativi” veri e propri per richiamarne la natura di combattenti, spesso messa alla prova da impieghi avvilenti come l’operazione Strade Sicure o il controllo del “distanziamento sociale” nelle spiagge, giusto per intenderci. Lo stesso vale, a maggior ragione, per la sciabola che, seppur ridotta ad un simulacro senza taglio e innocuo, orna il fianco di ufficiali e marescialli nelle cerimonie militari moderne.

Per questo, il recente video di una giovane ufficiale della Marina che, con sciarpa e sciabola, balla e fa ballare all’unità sotto il suo comando il tormentone estivo del momento non può lasciare indifferenti. La colpa è della sua probabilmente non voluta viralità sui social (da non confondere con l’ormai aborrita virilità) che ha trasformato un innocente “cazzeggio” tra soldati in una manifestazione di cattivo gusto, per di più proposta ad un pubblico a-militare indiscriminato, se non anti-militare, come il nostro intellettualume nazionale. Un peccato veniale, insomma, che però come sempre quando si parla di militarità attira l’attenzione di tanti, pronti a parlare di Forze Armate solo per attaccarle, ridicolizzarle, se non criminalizzarle.

Personalmente, ammetto che non mi è piaciuta affatto la scena (v.video), per quello che ho premesso parlando di baffoni e di cavalli, ma a ben pensarci sono stato anch’io tenente e capitano e di sciocchezze ne ho fatte a nastro. Anche dopo.

Si potrebbe chiudere qui la questione, per quel pochissimo che mi riguarda, se tra gli esperti che si sono sentiti in dovere di tirare la giacchetta al capo di Stato Maggiore della Marina, alle prese di norma con questioni ben più importanti, non ci si fosse messo anche Roberto Saviano, evidentemente compiaciuto dal fatto che i marinai avrebbero così dimostrato di essere ragazzi e ragazze con la gioia di vivere, impegnati a scrollarsi di dosso “il sapore sinistro autoritario generato da urla secche e armi, da stivali che battono”. Per questo, chiede che si smentiscano “le voci punitive dando una nota di encomio” all’ufficiale e magari si accetti la sua arguta proposta di introdurre, “nei prossimi giuramenti dopo la parata dei plotoni, anche un momento di danza come questo avvenuto a Taranto”. Forse, chissà, anche questo ritmato come nel caso in questione da un canto nella “lingua che si parla in Zimbabwe e che molti degli uomini e delle donne della Marina militare hanno ascoltato direttamente pronunciata dalle persone che hanno salvato in mare”.

Ed ecco fatto! La marzialità della Marina, che la connoterebbe quindi come la Forza Armata “umana” a differenza delle altre, si dovrebbe così oggi basare non sull’affondamento della Santo Stefano ad opera di Luigi Rizzo o sulle imprese dei “maiali” ad Alessandria, Suda e Gibilterra, non sugli eroismi dei sommergibilisti atlantici, ma sui valori di chi la vorrebbe al servizio di un traghettamento di stranieri in Italia che non renda più necessaria la nostra fastidiosa riproduzione. E con le novità legislative in cantiere in tema di gender nelle scuole e di lotta alla piaga dell’omofobia (?) è proprio quello che ci voleva.

Detto questo, se la cosa può tranquillizzare il noto scrittore, esperto di Camorre e di Gomorre buone tutt’al più per mettere la mordacchia al nostro orgoglio nazionale, la gioia di vivere e la voglia di giocare i soldati l’avevano per default (in inglese forse rende meglio) anche prima della danza tarantina; pure al tempo degli sciaboloni e del letame da spalare, insomma. Infatti, poche situazioni come la costretta promiscuità, la privazione della libertà e i rischi di un mestiere che è “missione”, oggi anche per la Truppa, insegnano a sorridere di se stessi e degli altri, anche dei superiori, senza bisogno di introdurre balli tribali a valle delle cerimonie militari.

Anche su quelle che saranno le iniziative della Marina sulla questione, stia pure tranquillo che chi la comanda non ha bisogno dei suoi suggerimenti su come regolare il tono disciplinare della Forza Armata, anche se la prossima sindacalizzazione dei militari pare finalizzata proprio a dare voce ad “esperti” esterni come lui e ad aprire brecce a una gestione assembleare della vita alle armi che con quello che ci sta succedendo attorno fa a cazzotti.

Foto: ministero della difesa / Jollyroger / Twitter