Sanremo: una occasione persa nella guerra alle mafie?

(di Avv. Marco Valerio Verni)
14/02/22

Sì, avete letto bene: a Sanremo, si è persa un’occasione, nella guerra alle mafie? Si uscirà fuori dal coro (è il caso proprio di dirlo), ma quel che ha detto Saviano, ospite durante la terza serata del Festival della musica italiana ed autore di un monologo sul tema, è, tutto sommato, “scontato”, nel senso che, sebbene nessuno possa negare l’importanza di ricordare, in particolar modo, Falcone e Borsellino a quasi trent’anni dalla loro uccisione, è altrettanto vero che, per onorare fino in fondo la loro memoria, si sarebbe potuto e, forse, dovuto, fare e dire anche altro.

Intanto, al posto del suddetto o, magari, accanto ad esso, si sarebbe potuto chiamare un Capitano Ultimo (celebre quanto da lui stesso riportato, d’altronde, circa il momento dell’arresto di Totò Riina, allorquando quest’ultimo gli ebbe a chiedere “Chi siete? Chi vi manda?” e lui a rispondere “Ci mandano Falcone e Borsellino”) o i parenti delle vittime di mafia (penso ad una Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo in uno dei periodi più caldi nella guerra a Cosa Nostra), o magari gli stessi familiari degli agenti delle tante scorte rimasti uccisi negli agguati, nel corso degli anni.

Forse, le loro testimonianze sarebbero state altrettanto, o chissà, più, importanti, perché avrebbero descritto il punto di vista di chi, a vario titolo, ha contribuito, con il sacrificio e, spesso, con il sangue, alla guerra contro le mafie, rimanendo sovente nell’ombra e, al dunque, esso sì, condannato ad un ergastolo di gran dolore: forse, agli italiani, sarebbe piaciuto ascoltare i sacrifici di una moglie, di un fidanzato, di un figlio o una figlia, di un genitore, di uno dei tanti agenti delle scorte uccisi, i sacrifici fatti, nel silenzio, quando il loro caro era in vita, ed il dolore, appunto, e la resilienza di quando poi è morto. Una prospettiva diversa, forse, che avrebbe avvicinato ancor di più il popolo alla causa, che oggi viene invece vissuta come un qualcosa di “lontano” o come una battaglia “di altri”. D’altronde, se non se ne parla, è normale che il problema si allontani dall’attenzione collettiva.

O, magari, a voler essere in un certo senso provocatori, si sarebbe potuto invitare un collaboratore di giustizia, per spiegare l’importanza del voler cambiare vita e di combattere chi, fino a quel momento, ti ha reso schiavo. O, ancora, un testimone di giustizia, per spiegare l’importanza (si scusi la ripetizione) della denuncia, con le relative conseguenze. Importante ricordare Rita Atria, giovane e coraggiosa, appunto, testimone di giustizia, certo, ma questo lo si sarebbe potuto unire al racconto diretto di chi vive, o ha vissuto, determinate situazioni, e non per interposta persona: sarebbe stato - chissà - più “sentito” dal popolo italiano.

In secondo luogo, si poteva forse fare almeno un cenno alle mafie etniche che, oramai, sono un aspetto intrinseco al problema più generale. Tutte le organizzazioni criminali di tipo mafioso, oggigiorno, hanno un carattere transnazionale ed operano in connubio, a volte anche molto stretto, tra di loro, nutrendo vicendevolmente i propri loschi affari.

Schivare questo aspetto, vuol dire non affrontare la questione con la dovuta maniera, nel nome, forse, del politicamente corretto o del “politicamente di moda”: ignorare, ad esempio, che una delle mafie più potenti al mondo, oggi, sia quella nigeriana, non fa certo bene al discutere generale. Ed omettere che essa, in Italia, sia tra le più radicate e pericolose, vuol dire non inquadrare correttamente tutto il fenomeno che, appunto, oggi non si può più considerare per compartimenti stagni, ma in maniera globalizzata.

Questo, certo, avrebbe voluto anche sottolineare il fatto che una delle vie attraverso cui la suddetta criminalità giunge in Italia sia quella dell’immigrazione irregolare ed incontrollata, come spesso sottolineato dalla Direzione Investigativa Antimafia e dagli apparati di intelligence: argomento che, appunto, sembra tabù affrontarlo, complice una certa politica, per alcuni versi, ed il timore di essere tacciati di razzismo o di incitamento all’odio, per altri. Ignorando clamorosamente che, le prime vittime di queste altre mafie sono le stesse nigeriane, nel caso di quella nigeriana, le albanesi, le romene e le cinesi nel caso di quella albanese, romena e cinese.

E, ancora: si poteva lanciare da quel palco, l’invito ad un Parlamento che, pochi giorni prima, non aveva certo brillato nell’occasione dell’elezione del presidente della Repubblica, a sbrigarsi ad intervenire, e nel miglior modo possibile, sulla tematica dell’ergastolo ostativo, sulla quale, come ricorderanno i conoscitori della materia, tornerà a pronunciarsi, a maggio prossimo, la Corte Costituzionale.

Quest’ultima, lo scorso anno, era stata infatti investita della questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, degli artt. 4-bis comma 1 e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 d. I. n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991, "nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale", e, come detto, ebbe a rinviare la sua decisione al maggio di quest’anno, proprio per dar modo al Legislatore di intervenire sul punto, cercando di meglio contemperare alcuni principi che, effettivamente, con la disciplina in esame rischiano, in punto di diritto, di entrare in tensione.

Maggio è alle porte e, forse, sarebbe stato utile lanciare questo appello, per essere più concreti: perché lo smantellamento di questo istituto potrebbe significare il venir meno delle collaborazioni (valorizzato dagli stessi Falcone e Borsellino, oltre che da altri), che si sono dimostrate, invece, utilissime nel contrasto alle mafie (comprese - si pensi un po’ - quelle etniche).

Si dirà: ma Sanremo è il festival della musica, non un’aula universitaria o altro luogo dove poter dire e/o fare tutto questo. Certamente è così, appunto. Ma è anche vero che, se, nonostante il contesto, si decide di parlare lì di un tema così importante, allora forse lo si sarebbe potuto fare, a quel punto, anche nel modo detto. Il tempo ed il modo, volendo, li si sarebbe trovati.