Perché non andare in guerra, ora

(di Massimiliano D'Elia)
23/11/15

Il più grande errore fatto nella guerra in Iraq e in Libia è stato l’assenza di un strategia di governo nel periodo “post-conflict”. Prima di intraprendere una guerra il nemico è analizzato sotto il profilo delle capacità militari, dei finanziamenti a cui attinge, dell’eventuale esistenza di paesi terzi che fiancheggiano nell’anonimato la causa oggetto della crisi, della dislocazione sul territorio delle forze militari e paramilitari, del tipo di armamenti posseduto e di una miriade di altre informazioni utili al processo di guerra. Oggi non basta più, occorre pensare a cosa fare dopo il conflitto. La nostra errata valutazione strategica del recente passato è stata probabilmente la concausa della proliferazione di organizzazioni terroriste integraliste. Politiche sbagliate e la fallita integrazione di cittadini immigrati dalle zone di guerra hanno favorito il risentimento e l’odio sociale, cavalcati dall’ISIS e sfociati nei recenti attentati di Parigi.

Dopo Parigi, ci siamo svegliati e ci si è resi maggiormente conto che siamo impreparati a questa minaccia che condiziona la vita di ognuno di noi. Stiamo cercando di costituire una coalizione globale, per annientare l’ISIS. Si cerca di dare una risposta immediata alla ferocia portata dentro le nostre case.

Lo scontro sul campo sembrerebbe la soluzione più logica, ma non risolutiva a mio parere. Cercherei e colpirei coloro i quali favoriscono l’acquisto del petrolio, della droga e delle armi e inizierei a favorire realmente politiche di integrazione per di tutti gli islamici moderati che vivono e lavorano nei nostri Stati. Ieri ci sono state varie manifestazioni degli islamici moderati, in mezza Europa e non mi pare ci sia stato un bagno di folla. Neanche loro si fidano più di noi perché noi non siamo mai stati dalla loro parte e non eravamo con loro a manifestare sotto lo slogan “NOT IN MY NAME”. Colpire realmente l’integralismo vuol dire creare una nuova dimensione sociale dove si attua la reale integrazione tra popoli, razze e religioni. Gli Stati Uniti d’America sono un esempio corrente di integrazione. Loro hanno risolto, gran parte dei naturali problemi, riversando le aspettative e le speranze di tutti in un simbolo di unione, la “bandiera”. Anche in Europa dovremmo attuare nuove politiche di integrazione sociale e indirizzare i cittadini verso nuovi simboli, simboli riconosciuti da tutti, come la bandiera dell’Unione Europea. Di contro, possiamo sconfiggere ed annientare l’ISIS sul terreno, ma dovremo sempre fronteggiare il risentimento e l’odio verso di noi che non abbiamo saputo rimediare ad un fenomeno che noi stessi abbiamo generato ed invogliato. In queste condizioni troveranno terreno fertile i “Foreign fighters”. La loro “eterogeneità”, come visto, costituisce una formidabile ed unica arma perché non esiste ma allo stesso tempo è dappertutto e genera l’incertezza della minaccia tra limiti di spazio e tempo indefiniti, genera il terrore che mina la sicurezza e la pace e limita la nostra quotidianità. Hanno già vinto!

Come sembra, scendere in guerra sarà inevitabile e quando questo avverrà dovremo essere consapevoli che molte vite si perderanno e potrebbero essere superiori alle migliori previsioni. La difesa e la sicurezza del proprio paese si paga spesso con un alto prezzo, con il sangue. L’unico compito dei nostri politici è quello di pensare, al di là delle scaramucce partitiche, ad una strategia comune e seriamente condivisa: i nostri ragazzi e le nostre ragazze con le stellette saranno gli unici che andranno in prima linea in aria, per terra e per mare per garantire e preservare la nostra difesa e sicurezza. La decisione dovrà essere corale e condivisa, dovrà essere la scelta più giusta e ponderata per il livello di ambizione del nostro Paese e soprattutto per le nostre coscienze.

(foto: U.S. Marine Corps)