Panico nel mondo militare

(di Nicolò Manca)
23/09/19

È tradizione consentire ai cittadini, soprattutto ai bambini, di salire sui mezzi militari in occasione di manifestazioni dedicate alle forze armate, e questo avviene anche quando chi indossa una divisa vuole semplicemente testimoniare la vicinanza dell'organizzazione di cui fa parte alla società civile. Non è raro che in queste occasioni si esaudisca il desiderio dei più piccoli di “fare un giretto” sulla Gazzella dei carabinieri, sul cingolato dei bersaglieri o, come avvenuto in tempi più recenti, sulla moto d'acqua della polizia. Queste casuali esperienze talvolta innescano nei giovani vocazioni che determinano scelte di vita.

La notizia dei tre poliziotti indagati perché colpevoli di aver fatto salire su una moto d'acqua il figlio dell'ex- ministro degli interni, non poteva quindi non gettare nel panico il mondo militare in quanto... ora volano fior di incriminazioni!

Chi scrive si augura che i decenni trascorsi comportino la prescrizione dei numerosi reati di cui si è macchiato nel corso della carriera; di questi mi limiterò a confessare il più grave, commesso durante il mio periodo di comando al 2° Bersaglieri “Governolo”. Accadde infatti che consentii a un ragazzo di dieci anni di “fare un giretto” su un M60 (carro armato di 48 tonnellate), e quando lui mi confidò di essere rimasto impressionato nel vedere i miei bersaglieri impegnati durante un saggio ginnico nella “caccia carri”, decisi di ... combinarla ancora più grossa!

Premetto che la dimostrazione dei bersaglieri consisteva nell'attendere a piè fermo un M60 in avvicinamento, gettarsi a terra all'ultimo momento stendendosi tra i due cingoli, quindi lasciarsi superare dal carro per poi attaccarlo alle spalle lanciando una bottiglia molotov sulle griglie del motore.

Erano tempi in cui compito delle unità corazzate schierate nella pianura veneto-friulana era quello di ritardare il più possibile, ricorrendo anche a queste tecniche bersaglieresche, la temuta irruzione nella “soglia di Gorizia” delle divisioni del Patto di Varsavia ammassate in Ungheria: il nostro sacrificio avrebbe dato tempo alla Nato di intervenire con la forza d'urto degli Stati Uniti.

Ma tornando al bambino di dieci anni, gli lanciai una provocazione: “Non lasciarti impressionare da quello che hai visto. Se vuoi lo puoi fare anche te...anzi, facciamolo insieme”. E così una mattina portai il ragazzo nei parcheggi dove sonnecchiavano una cinquantina di M60, chiamai un pilota, un carrista militare di leva, e gli chiesi di ripetere quel che faceva con i bersaglieri, e cioè di passare col carro (ma non con i cingoli!) su noi due distesi sul macadam dei parcheggi.

Il carrista esitò: “E lei si fida?”.

Ribattei: “Tu ed io dovremmo fidarci l'uno dell'altro in combattimento e vuoi che non mi fidi di te per questa cosetta da nulla? Piuttosto stai attento perché se sbagli sarai solo tu a passare dei guai” (che in pratica è quanto sta accadendo ai tre poliziotti!). Quindi il ragazzo ed io ci distendemmo fianco a fianco sul cemento e il carro (larghezza tra i cingoli 185 centimetri e altezza del fondo scafo 42 centimetri) ci superò lentamente, col suo motore da 750 cavalli che ci urlava nelle orecchie.

Il pilota proseguì nella sua marcia rettilinea molto più del necessario e, una volta arrestato il mezzo, tornò indietro a passo lento, palliduccio, e bisbigliò “Tutto bene?”

“Benissimo”, rispose mio figlio, perché, dimenticavo di dirlo, il ragazzino era mio figlio, che aveva accettato di fare quell'esperienza nonostante la tetraparesi spastica che l'accompagna dalla nascita, quando in un piccolo ospedale friulano qualcuno sbagliò la dose di ossitocina somministrata a mia moglie: una “distrazione” che avrebbe reso impossibile a mio figlio di seguire eventualmente le orme paterne e fare il bersagliere. (Erano tempi in cui negli ospedali i parti si facevano avvenire, con l'aiuto appunto dell'ossitocina, sempre di giorno e non di notte; inoltre allora un tenente non aveva molto tempo per seguire da vicino sia la gravidanza che il parto della moglie, perché doveva “stare al pezzo” h 24, cosa che si faceva con passione e che comunque non costava nulla allo Stato in quanto non esistevano né gli straordinari né i riposi compensativi.)

Oggi mi resta la consolazione di pensare che l'esperienza dell'M60 abbia giovato a mio figlio... ed anche a me. Un po meno al pilota! Comunque oggi non lo rifarei, e non per paura di essere incriminato, ma perché la manutenzione dei mezzi dell'esercito è carente da tempo per mancanza di fondi; pertanto non mi fiderei dell'efficienza del sistema sterzante a idroguida del carro.

Una situazione cui è giocoforza rassegnarsi, almeno fintanto che il bilancio della Difesa sarà penalizzato a favore del MOAM (Ministero Occulto per l'Accoglienza Migratoria), il cui bilancio per il mantenimento, l'assistenza sanitaria-scolastica-giudiziaria nonché per i costi carcerari e i maneggi non sempre cristallini che ruotano intorno all'industria dell'accoglienza, supera nettamente, come noto, quello della Difesa.

Tornando alle mie responsabilità, anch'io dunque sarei potuto essere incriminato per (tiro a indovinare) furto d'uso, abuso d'ufficio o qualunque altro di quei “reati” che costringerà i poliziotti di cui sopra a pagarsi un avvocato. Oltretutto l'impiego di quell'M60, col suo consumo di tre litri di gasolio a km, sarà costato allo Stato ben più dei cinque minuti sulla moto d'acqua del figlio di Salvini. Motivo in più, per me, per negare fermamente di aver fatto addirittura pilotare quel carro a mio figlio, naturalmente col carrista ed io accovacciati sullo scafo vicino alla botola del pilota, per circa 100 metri... forse 200. Ma per paura che mi si possa confiscare alcunché, come è stato fatto col generale Stano, in sede processuale negherò tutto.

A questo punto mi assale il dubbio che la denuncia dei tre poliziotti abbia ricalcato la consuetudine di amministrare la giustizia guardando nello specchietto retrovisore degli effetti politici collaterali. Infatti non è facile ricordare o immaginare un procedimento similare che abbia coinvolto figure della stessa fede politica nella quale gran parte dei magistrati non nasconde di militare.

Questo dubbio è avvallato dalla discrezione o forse distrazione con cui i media di regime ignorano le vicissitudini giudiziarie relative al finanziamento di taluni partiti, a fronte dell'insistenza e dell'attenzione con cui viene martellata la controparte. Accade così che al cittadino elettore vengano riproposte ciclicamente le indagini riguardanti imprecisati “finanziamenti russi”, mentre svaniscono come nebbia al sole finanziamenti di altre provenienze e altri beneficiari, fondi Unicef compresi. Analoga discrezione, che sarebbe più appropriato definire censura (parola peraltro sdoganata dalla stampa asservita al grido di “meglio non dirlo agli italiani”) viene riservata, come noto, all'arrivo dei migranti, ai reati da essi commessi e all'indulgente benevolenza con cui vengono gestiti.

E per chiudere in tema, cosa di meglio se non lanciare un messaggio che ricalchi quello ormai celebre postato su facebook dalla senatrice Cirinnà? “Giustizia-Politica-Censura: che vita de merda”, uno slogan che fa desiderare che in Italia venga approvata una legge che preveda la pena di morte per i reati di ipocrisia. Nell'ambiente politico, e non solo in quello, sarebbe tutta una carneficina.

Foto: U.S. Army / Esercito Italiano / web