Nuovo Governo e Forze Armate: una riflessione sulle principali esigenze dell’Esercito

(di Mario Ruggiero)
26/06/18

Con l’insediamento del Governo “Conte”, inizia l’attività del 65° Esecutivo della Repubblica Italiana, contestualmente allo sviluppo dei lavori della XVIII Legislatura. Alla luce del difficile quadro geo-strategico internazionale, il desiderio che la nuova compagine governativa esamini con la dovuta attenzione le esigenze delle Forze Armate è sicuramente comune a moltissimi cittadini, in armi e non.

La Difesa trova ampi richiami già in ambito carta costituzionale, dove viene evidenziata la funzione primaria che essa deve assolvere per assicurare la sovranità nazionale, condizione imprescindibile perché la vita democratica del Paese possa svilupparsi.

Purtroppo, anche nella recente campagna elettorale abbiamo sentito parlare di militari che trascorrono il loro tempo in caserma “giocando a carte”, poiché non impegnati in attività “operative”.

Ci troviamo di fronte all’ennesima incomprensione della funzione Difesa. L’attività primaria delle Forze Armate, in tempo di pace, fatte salve le cosiddette operazioni correnti, non può che essere quella di addestrarsi per poter fronteggiare, in caso di necessità, lo scenario peggiore e cioè un conflitto.

Non esiste incarico funzionale e/o di specializzazione dell’Esercito che non richieda un ciclo di addestramento periodico di almeno un anno. Tale ciclo addestrativo può arrivare a richiedere anche due o più anni e portare a gravi conseguenze in caso di mancato sviluppo nella sua interezza.

Chiunque ha avuto l’opportunità di partecipare ad attività operative di Forza Armata, conosce la complessità addestrativa richiesta, ad esempio, ad un operatore di forze speciali, piuttosto che CBRN, EOD/IEDD o addetto al supporto di sistemi di comando e controllo.

Anche nelle funzioni apparentemente più semplici e riservate a personale con minore specializzazione (e sovente più giovane), il mancato sviluppo periodico di cicli di addestramento è particolarmente pericoloso. Si crede di saper operare correttamente (savoir faire), ma in realtà si tende a sovrastimare le proprie capacità complessive, comprese quelle di reazione in situazioni impreviste.

Si creano, cioè, in ultima istanza, le condizioni per subire tragiche perdite e non poter gestire in maniera corretta i cosiddetti “danni collaterali”.

Tutto ciò per dire che è di vitale importanza per le Forze armate che il Vertice della Difesa e della compagine governativa riesca a trasmettere tali concetti sia al livello Politico allargato sia ad una platea più ampia costituita dall’intera comunità nazionale.

Ovviamente, per poter sviluppare una corretta politica addestrativa, occorre la volontà di svilupparla e implementarla, i mezzi tecnici per potersi addestrare in condizioni realistiche, e le risorse sia economiche sia in termini di spazi dedicati all’addestramento.

Sorvolo sulla volontà, poiché la problematica è sicuramente all’attenzione degli stati maggiori e non vi sono ragioni ostative allo sviluppo in materia.

Sui mezzi tecnici, molto è stato fatto – almeno per quanto riguarda l’Esercito – negli ultimi dieci anni. La simulazione e la creazione di scenari in “virtual reality” ha subito un impulso enorme. Nel corso degli anni sono aumentati anche i poligoni in galleria e, oggi, è possibile creare condizioni climatiche, ambientali e operative che sul territorio nazionale non esistono. Molto, dicevo, è stato fatto, ma molto resta da fare. Occorre portare molte di queste capacità a livello di Grande Unità elementare (corrispondente con la Brigata) e reggimento al fine di poter inserire tali attività nell’attività di routine e non confinarla in seno ad eventi di rilievo nella vita delle unità operative.

La stessa enfasi deve essere posta anche nel reperimento delle risorse necessarie a sostenere le attività addestrative. Con ciò intendo non solo quelle economiche ma anche quelle inerenti agli spazi fisici. Se è vero che con la simulazione si possono ridurre le attività live, è altrettanto vero che queste non possono essere annullate. In tale contesto, mantenere la disponibilità di grandi poligoni sul territorio nazionale deve essere considerato un must. Le istanze delle comunità locali devono essere ascoltate e supportate, nei limiti che gli interessi superiori dello Stato impongono. Pensare di spostare tutte le attività “a fuoco” in poligoni esteri è semplicemente irrealistico (non solo per i costi) e rischia di imporre delle serie limitazioni operative alle Forze armate e all’Esercito in particolare.

Perchè sottolineare così tanto l’addestramento? La risposta la troviamo nell’analisi delle esperienze passate e recenti, nazionali e non. Il tutto può essere sintetizzato dalle parole di Vegezio: “In ogni battaglia non tanto il gran numero e il coraggio inesperto sono soliti procurare la vittoria, quanto l’affinamento tecnico e l’esercizio. Constatiamo infatti che per mezzo di nessun’altra cosa il popolo romano ha conquistato il mondo se non con l’esercizio delle armi, con la disciplina del campo e con l’esperienza militare”.

Più di sedici secoli sono trascorsi da quando Vegezio riassumeva queste riflessioni in seno al suo trattato sull’Arte delle Guerra. Il mondo, così come lo concepiamo è cambiato radicalmente, ma i principi che regolano lo strumento militare sono rimasti invariati.

Ad una corretta pratica “dell’esercizio delle armi”, volta ad impiegare al meglio lo strumento esistente ed esprimere l’eccellenza tattica nel settore delle forze terrestri, si deve abbinare l’individuazione e l’implementazione delle nuove capacità ovvero l’evoluzione di quelle esistenti.

In attesa che arrivi un nuovo mezzo tecnologico, però, occorre evitare ogni comportamento che preveda il mancato addestramento, e l’impiego in ambito operativo delle capacità in attesa di un ciclo di ammodrnamento. Ciò comporterebbe, nel medio lungo termine, la perdita della capacità stessa. Lo sviluppo tecnologico, poi, è continuo. Appena introdotto in servizio un nuovo mezzo, si constaterà che lo sviluppo tecnologico ha compiuto ulteriori passi in avanti che non potranno essere implementati se non in sede di aggiornamento di mezza vita (non solo per ragioni finanziarie). Quindi entrare nel ciclo perverso di attendere il mezzo di punta, da un punto di vista tecnologico, per addestrarsi e poter operare, ci porta alla sostanziale non impiegabilità delle Forze Armate, almeno nei contesti a media e alta intensità. Appare opportuno ricordare che il nostro coinvolgimento in operazioni belliche non dipende solo dalla nostra volontà. È quanto mai necessario, perciò, essere sempre pronti ad affrontare lo scenario peggiore con le capacità disponibili, pur lavorando per il loro ammodernamento e rinnovamento.

Lo studio dei “possibili futuri” e delle capacità da impiegare in tali contesti appare quindi fondamentale e deve essere accompagnato dall’evoluzione tecnologica di dette capacità e non solo delle singole piattaforme.

La nostra storia militare è costellata di situazioni in cui avevamo a disposizione delle piattaforme allo stato dell’arte, ancorché in misura ridotta e supportate da scarse capacità produttive. Siamo stati costretti a combattere in stato di evidente inferiorità per l’assenza di un sistema Paese che consentisse di sfruttare la supremazia o almeno la parità tecnologica. Ci siamo trovati, cioè, in ambiente disimmetrico per deficienze sistemiche. Tutto ciò aggravato – storicamente parlando – da uno sviluppo non bilanciato della componente militare nazionale, con gravi squilibri capacitivi.

Nel recente passato, le Forze Armate e l’Esercito, in particolare, hanno profuso un impegno elevatissimo per superare questo gap che è culturale e, in parte, anche industriale. Le richieste di sviluppare delle capacità nella loro interezza sono state avviate in maniera coerente, anche se rischiano di divenire inefficaci a causa della fortissima sottocapitalizzazione a cui è stato soggetto il rinnovamento delle forze terrestri.

Impiegare più di 10 anni per finanziare lo sviluppo e la costituzione di una Brigata di Forze Medie, significa iniettare una grande dose di inefficienza nel progetto stesso che diventa fortemente deficitario se si considera, in aggiunta quanto sopra, che nell’implementazione del progetto stesso mancano componenti significative deputate al Comando e Controllo di forze digitalizzate, al supporto di fuoco, al supporto alla mobilità e buona parte del supporto logistico di brigata. Tutto ciò a causa di presunte scarsità di risorse che ancora una volta ci costringono ad ammodernare l’Esercito in tempi biblici, sicuramente non coerenti con il ciclo di vita dei sistemi tecnologicamente avanzati, e comunque senza giungere ad ottenere le capacità di cui necessitiamo.

Si potrà obiettare che le risorse non erano sufficienti per garantire uno sviluppo organico nell’ambito della stessa spira tecnologica, prima cioè che la tecnologia ipotizzata diventi in larga parte superata. Ciò è vero in parte, poiché è compito del Dicastero della Difesa far sì che lo sviluppo dello strumento militare avvenga in maniera organica, bilanciata e coerente con gli scenari correnti e futuri, intervenendo – se necessario – sul numero di capacità da ammodernare, ma mai eliminando parti componenti la capacità stessa.

Nella finestra temporale indicata sono stati approvati provvedimenti di finanziamento dello strumento militare che hanno dato priorità al rinnovamento di singole componenti, lasciando altre – l’esercito in particolare – al palo. In sintesi, la F.A. che ha effettuato più operazioni e subito più perdite in termini di vite umane si è vista largamente sottocapitalizzata in tutte le sue componenti, leggere, medie e pesanti, nonostante lo sforzo innovativo intrapreso.

Un altro settore significativo, e esplicativo della problematica, è rappresentato dal programma volto ad attualizzare la dotazione di base del soldato. Il programma è stato suddiviso su un numero così elevato di anni che ha perso la sua vocazione iniziale e cioè quella di dotare ogni singolo soldato di un armamento e di sistemi di comunicazione e visione moderni. Ciò al fine di poter assicurare una superiorità minima almeno nei contesti asimmetrici dove il nemico conosce alla perfezione lo spazio fisico e noi possiamo contrastarlo efficacemente solo “vedendo” meglio e coordinando meglio le forze sul campo. “Spalmare” il programma su un periodo molto lungo, come è stato fatto, significa imporre la rotazione dei sistemi in operazione e privare, quindi, il soldato della possibilità di addestrarsi quotidianamente con i sistemi che dovrà impiegare in operazioni. Vegezio non sarebbe contento di come abbiamo interpretato i principi dell’arte della guerra.

L’evoluzione tecnologica della Forza Armata è, quindi, vitale, ma non deve essere fine a se stessa. Le nuove capacità, con le relative nuove piattaforme, devono poter essere implementate in un numero di anni ridotto per ogni spira tecnologica. Dovendo fronteggiare “da sempre” le ristrettezze finanziarie, l’Esercito Italiano ha previsto di rinnovare le singole capacità per singole spire tecnologiche. Quindi, ogni pacchetto di forze (leggere, medie o pesanti) è suddiviso per spire della dimensione approssimativa di una brigata più supporti generali. Orbene, ogni singola spira necessita di essere prodotta e introdotta in servizio in un numero di anni che non sia superiore ai 4-5, altrimenti si inficia la bontà dell’intero progetto. Occorre, quindi, una differente concentrazione delle risorse (non importa su quale dicastero siano incardinate) e uno sforzo anche dell’industria nazionale che deve operare coerentemente con tale progetto, abbandonando il concetto della produzione di una piattaforma alla volta, su stile automotive. È chiaro che nel settore automobilistico lo sviluppo di una piattaforma e delle sue varianti deve seguire delle logiche legate alla catena di montaggio. Nel settore forze terrestri, invece, occorre realizzare capacità che richiedono la disponibilità contemporanea di più tipologie della stessa piattaforma.

L’acquisizione di nuove capacità non può avvenire, chiaramente, in assenza di una robusta capacità manutentiva e di adeguamento infrastrutturale. In questo senso ogni progetto deve necessariamente essere completato con gli aspetti di sostenibilità nel tempo e sul campo, prendendo in conto anche i successivi costi di dismissione dei sistemi e delle piattaforme. Si tratta di problematiche estremamente sensibili poiché nel primo settore, logistico, le capacità manutentive debbono tener conto del bilanciamento occorrente tra quanto eseguibile in ambito industriale e quanto deve necessariamente rimanere in F.A., poiché legato alla cosiddetta aderenza che deve essere eseguibile anche in ambienti austeri e nonostante l’azione di contrasto delle forze avverse. Una “esternalizzazione” spinta si tradurrà, prima o poi, in una “debacle” logistica, quando le F.A. saranno chiamate a intervenire negli scenari most demanding.

Anche le infrastrutture giocano un ruolo importante in ambito costituzione di nuove capacità. Una caserma di una unità digitalizzata necessita una riprogettazione totale, al pari di un aeroporto che deve accogliere un velivolo di quinta generazione, comprese le problematiche di cyber defence insite nelle nuove tecnologie.

Ulteriore settore nel quale, ritengo, dovrà essere dato un nuovo impulso è quello del personale che viene sempre indicato come fulcro del sistema Difesa. L’evoluzione degli scenari operativi e del livello tecnologico di base impone di rivedere il sistema di reclutamento e formazione di tutte le categorie, militari e non.

Basti pensare al settore delle operazioni cibernetiche, citato in molti interventi/interviste. Reclutare, formare e addestrare operatori cibernetici del livello tattico e operativo con l’iter adottato sinora per l’insieme delle Forze Armate significa votare all’insuccesso la costituzione della capacità. Non si tratta di un mero problema normativo che, forse, è l’aspetto meno importante, in questo momento. Si tratta di un cambio di mentalità che deve puntare a costituire delle filiere di reclutamento coerenti con le professionalità che si intende sviluppare in ambito militare. Conseguentemente a ciò dovranno essere definite delle capacità di base, in termini culturali, fisici, motivazionali che siano strettamente aderenti all’obiettivo capacitivo che si intende raggiungere.

Pensare di procedere ad un reclutamento, una formazione di base e un impiego iniziale comune (vds. VFP1) per poi procedere a delle selezioni interne successive non rappresenta più, probabilmente, la metodologia migliore da perseguire. Una profonda evoluzione in questo senso potrebbe dare anche una risposta alla problematica del progressivo invecchiamento delle Forze Armate. La rispettiva filiera indicherebbe chiaramente sin dal momento dell’incorporamento quali sono le possibilità di progressione e quali sono le probabilità di poter rimanere nell’Esercito alla fine di un periodo di ferma media, con una chiara indicazione degli incentivi al ricollocamento che il Pese si impegna a mettere in campo. Si eviterebbe, così, l’insorgere di false speranze in termini di transito in servizio permanente dell’intero bacino iniziale di incorporamento.

Quelle appena esposte, in conclusione, sono solo alcune delle tematiche che, ritengo, di estrema importanza per l’Esercito.

Il tutto troverà una reale “fattibilità” e “sostenibilità” solo se lo Strumento Militare nazionale sarà sviluppato in maniera coerente, che tenga conto delle peculiarità delle singole Forze Armate ma in quanto componenti di un unico complesso interforze con capacità compiute anche a livello Operativo e Strategico-Militare. Occorre evitare che il finanziamento di una singola componente prenda il sopravvento sulla coerenza dello strumento complessivo per ragioni esterne agli scopi istituzionali della Difesa. Pur comprendendo che situazioni analoghe a quelle tratteggiate si possono manifestare, il Dicastero dovrà trovare la forza di reindirizzare le risorse esistenti verso il bilanciamento delle capacità. Altrimenti, si torna – concettualmente parlando – al periodo in cui esisteva un Ministero per ogni F.A.. Ciò sarebbe antistorico e darebbe luogo ad uno scenario unico non solo in ambito NATO/UE ma anche con riferimento agli altri principali Paesi.

Il ciclo di Pianificazione della Difesa risulta di estrema complessità in tutte le principali Nazioni del Mondo, anche perché presuppone di individuare e sostenere le capacità che serviranno tra 15-20 anni. Ciò a fronte di esigenze immediate, in vari settori della vita nazionale, che sembrano improcastinabili e/o di maggior interesse per il comune cittadino.

Purtroppo, però, solo chi si prepara adeguatamente per fronteggiare gli scenari futuri avrà qualche possibilità di successo. Occorre illustrare adeguatamente alla Nazione le scelte strategiche si effettuano, avendo il coraggio di difenderle, nell’interesse superiore del Paese.

Qui desiderat pacem, praeparet bellum.

(foto: Difesa / web / Air Force)