Mostrare i muscoli

(di Nicolò Manca)
25/05/21

La storia insegna che quando una nazione mostra i muscoli, a meno di clamorosi bluff la prima ad essere sconfitta è l’eventualità di una guerra. Nell’escalation delle crisi internazionali infatti uno o più contendenti possono arrivare a manovrare unità di terra, schierare unità missilistiche e persino ad estendere il pattugliamento aereo-navale al di fuori dello spazio e delle acque territoriali nazionali; ma di norma ci si ferma qui.

Prima che l’avvento dell’ordigno nucleare consolidasse questo modus operandi, le operazioni militari intraprese nel passato senza il preavviso di segnali premonitori quasi sempre hanno comportato per gli aggressori un costo salato. Così è stato in Europa per le potenti divisioni corazzate della Germania di Hitler ed altrettanto per la recente offensiva sviluppata con 4000 missili da Hamas contro Israele. In entrambi i casi l’attaccante non ha conseguito gli scopi prefissati.

È scontato tuttavia che, se è necessario mostrare i muscoli, voltarsi dall’altra parte non paga né in termini politici né economici, se non addirittura in quelli di perdita di libertà e di vite umane. Va da sé però che un paese militarmente non credibile ed economicamente traballante non può comunque mostrare muscoli che non ha; una situazione, questa, che lo condanna ad avere un peso politico internazionale irrilevante.

In occasione delle crisi internazionali non è esaltante per l’italiano medio fare un confronto, escludendo naturalmente le grandi potenze, tra il peso politico dell’Italia e quello di altri paesi europei e non solo, quali la Turchia, l’Egitto e svariati stati islamici.

Esemplificando: un conto è l’invito a sospendere i combattimenti rivolto a Israele e ad Hamas da Palazzo Chigi o dalla Farnesina e altra valenza hanno quelli provenienti dal Cairo o da Ankara. Nel primo caso si tratta di un’esortazione di matrice buonista, mentre nel secondo si è di fronte ad un monito severo al limite della minaccia di intervento.

È innegabile che la tendenza della politica italiana in fatto di impiego delle forze armate è da anni inquadrata in un’ottica di concorso alla protezione civile e ad altri organi dello stato per compiti sdoganati con la denominazione dual-use, equivalente peraltro al meno esaltante italico tutto-fare.

Questa politica ovviamente non è funzionale ad alcuna versione del “mostrare i muscoli”. Settemila soldati impiegati stabilmente per controllare le strade, altri per operare con siringhe e tamponi, altri per fare guardianie ai Centri di Permanenza per i Rimpatri e ai campi rom, altri per maneggiare pale e picconi, altri ancora per collaborare nella gestione rifiuti: sono tutti impegni benemeriti ma che non hanno alcuna contiguità con un eventuale mostrare i muscoli.

Ormai è scontato che le nostre forze armate debbano dare permanentemente una mano ai 306.000 operatori delle forze dell’ordine, ai 300.000 effettivi alla Protezione civile, al sistema sanitario nazionale forte di 450.000 medici, 20.000 effettivi alla Croce Rossa e un gran numero di volontari tra cui gli oltre 300.000 soci della benemerita Associazione Nazionale Alpini.

In un limbo militar/civile semi-sindacalizzato opera il soldato di oggi, con lo sguardo volto al rinnovo di un contratto di lavoro congelato da tempo. Il soldato continua a sperare di leggere sulla stampa che i vertici politico-militari hanno finalmente sbloccato questo stallo e che anche per lui verranno varati provvedimenti economici improntati a criteri se non uguali almeno similari a quelli adottati per i contributi elargiti dalla Difesa all’Associazione Nazionale Partigiani (passati dai 15.600 euro del 2013 ai 66.200 del 2021) ed alla Associazione Italiana Combattenti Antifascisti in Spagna (passati dai 15.500 euro del 2013 ai 31.200 euro del 2021). Va da sé che un adeguamento delle retribuzioni militari comporterebbe dei costi, ma si tratterebbe comunque di cifre ben lontane dalle impennate esponenziali delle spese connesse con l’immigrazione clandestina ed emergenze similari.

A ciò si deve aggiunge la considerazione che la voce difesa spesso rappresenta, in considerazione delle esportazioni delle nostre industrie navali ed aeronautiche, un attivo della nostra bilancia dei pagamenti.

Ma al di là di queste considerazioni economiche non va dimenticato che molti di quanti hanno scelto di indossare la divisa sono stati mossi dallo spirito del messaggio contenuto nel Bhagavad Gita, il poema sacro indù, nel quale il principe Arjuna fa riferimento ai suoi guerrieri con queste parole: “Costoro, nel giorno in cui le colonne del cielo cadevano, nel giorno in cui franavano le fondamenta della terra, seguirono la loro vocazione di mercenari e percepirono la paga e morirono”.

La storia insegna che a far franare le fondamenta di una nazione o di un continente basta un collasso economico o una calamità naturale di dimensioni globali, un accidente imprevedibile più grave di una pandemia e pertanto in grado di riesumare e rendere attuale l’antico “mors tua vita mea”. In questa eventualità assume importanza vitale disporre di muscoli da mostrare. Ma tutti confidiamo che questa eventualità non si verifichi, anche se Israele e molti paesi islamici sono di diverso avviso. Ma a ben guardare questa è una preoccupazione che assilla anche i generali francesi firmatari delle due note lettere aperte indirizzate a Macron, documenti nei quali, al grido di “Allons enfants de la patrie”, si fa riferimento alla traballante sovranità della Francia. Ma si sa che sin dal 1789 i francesi dimostrano di essere fatti di una pasta particolare, sia che impugnino pale e picconi come armi anziché come strumenti di lavoro sia che indossino una mimetica o un gilet giallo.

Al di qua delle Alpi la parola d’ordine oggi è una e una sola: “Vaccinare! E vaccineremo!”. Anche casa per casa, migranti compresi. Anzi, si vaccinerà l’umanità intera, come dichiarato il 21 maggio a conclusione del Global Health Summit romano.

Per tutto il resto, a Dio piacendo e l’UE permettendo, si vedrà.

Foto: Farnesina