Menti libere e aperte in ambito militare: riflettere significa ancora disobbedire?

18/03/18

Ho sempre creduto che le riviste militari non fossero altro che delle noiosissime raccolte di articoli tediosi e monotoni. Le rare volte che mi sono trovato a sfogliarne una, dopo aver gettato una breve occhiata all'indice degli articoli, l’ho liquidata con disinteresse. Un giorno però mi sono messo in testa di imparare il francese, e volendo leggere qualcosa di militare per apprendere qualche vocabolo specifico, mi sono comprato una rivista francese, una a caso, la prima che ho trovato su internet dopo aver digitato revue militaire française. Si chiamava DSI (Défense e Sécurité Internationale). Ero scettico all'inizio, ma mi sono messo comunque a leggerla. Oggi posso affermare con tranquillità che il giorno in cui ho aperto quella rivista rappresenta uno dei momenti più importanti della mia breve vita militare. Rimasi affascinato da quella pubblicazione: nell'editoriale, il direttore del periodico invitava a riflettere sull'efficacia dell'operazione Sentinelle, (la nostra Strade Sicure), evidenziandone aspetti positivi e negativi; subito dopo, un altro articolo dello stesso autore illustrava la situazione attuale della guerra in Yemen, analizzandone le fazioni in campo e proponendo alcune considerazioni su ciò che sarebbe potuto succedere nei prossimi mesi di guerra; qualche pagina più avanti, ecco un articolo interessantissimo di un colonnello della marina francese, il quale, prendendo ad esempio l'intervento americano in Afghanistan, sottolineava quanto difficile fosse per gli eserciti moderni di oggi porre fine ad un conflitto una volta iniziato1.

Inutile dire che la sera stessa mi abbonai a quella pubblicazione, come anche ad un'altra rivista francese ed un paio di italiane. Oggi non c'è giorno in cui io non dedichi almeno una mezz'ora alla lettura di questi giornali.

Dal giorno in cui ho letto la mia prima rivista militare, il mio interesse per i temi relativi alla difesa e delle forze armate non ha fatto che aumentare. Gradualmente, ho cominciato a capire quanto importanti fossero questi strumenti per le istituzioni militari. Questi periodici costituiscono infatti un mezzo utilissimo per promuovere la circolazione di idee ed il dibattito all'interno delle Forze Armate. Ciò contribuisce in maniera decisiva allo sviluppo di un pensiero critico e favorisce il cambiamento e l'innovazione. Tutto ciò è fondamentale affinché lo strumento militare resti al passo con i tempi e si adatti costantemente al mutevole scenario in cui deve operare. Inoltre, queste riviste rappresentano un efficace ausilio per lo studio e l'analisi della storia militare, da sempre fonte di motivazione e di stimolo per noi militari.

VIVACITÀ CULTURALE E CURIOSITÀ INTELLETTUALE

Una minaccia mortale per le forze armate è da sempre insita nella loro stessa struttura. Essendo organizzazioni gerarchiche fondate sulla disciplina, esiste il rischio che i vertici militari contrastino fino a soffocare il proliferare di idee e di opinioni nei ranghi più bassi. Il conformismo, la mentalità del “si è sempre fatto così”, sono nemici mortali delle istituzioni militari. Il regime fascista, che a partire dalla metà degli anni '20 aveva cominciato a sopprimere la libertà di dibattito, ce ne ha dato la prova: stabilendo che “tutti gli scritti degli ufficiali in maniera tecnica o politica dovessero essere sottoposti alla censura preventiva dei comandanti di corpo d'armata”2, esso limitò drasticamente lo scambio di idee nelle forze armate, con i risultati che tutti conosciamo. L'Italia si presentò all'alba del secondo conflitto mondiale con un esercito vecchio e superato.

Non da meno furono i cugini francesi: l'esercito della Francia post-napoleonica assimilò il modello prussiano, caratterizzato a quell'epoca da un fermo rigore nei confronti dello scambio di idee all'interno delle forze armate. Di conseguenza, affermazioni come “Réfléchir c'est désobéir” (riflettere significa disobbedire) divennero ricorrenti negli stati maggiori. Molti storici ritengono che questa tendenza a combattere ogni tentativo di dibattito e di riflessione interna da parte dei vertici militari francesi, fu uno degli elementi decisivi che portarono alla tragica sconfitta contro le truppe prussiane guidate da Helmuth von Moltke nel 18703.

Del tutto opposta era invece la situazione nell'esercito tedesco dei primi anni '20 del XX secolo: il capo di stato maggiore, Hans (Johannes Friedrich Leopold) von Seeckt, incoraggiava con entusiasmo lo scambio di idee ed il confronto ed ascoltava sempre con attenzione le opinioni degli ufficiali al suo comando. La sua azione influenzò in maniera assolutamente positiva l'efficacissima preparazione della Wermacht alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Il dibattito culturale ed il vivace scambio di idee ed opinioni all'interno delle forze armate è quindi essenziale perché stimola senso critico, contribuisce a sviluppare una forte capacità creativa e impedisce il prevalere del conformismo intellettuale. Non a caso una caratteristica che accomuna tutti i grandi capi militari del passato è quella di essere stati grandi lettori e grandi riformatori: la lettura invita alla riflessione, promuove la capacità di pensare e favorisce lo sviluppo di nuove idee.

Tale discorso vale soprattutto per i giovani comandanti. Partecipando attivamente al dibattito essi possono sviluppare un pensiero critico che li permetta di valutare oggettivamente le situazioni, liberi da pregiudizi o da impressioni personali; di interrogarsi sulla validità delle affermazioni che li vengono proposte, senza accettarle a priori; di saper mettere in dubbio un argomento e saper proporre una soluzione applicando un ragionamento coerente.

INNOVAZIONE E CAMBIAMENTO

La struttura gerarchica tipica dell'istituzione militare la rende vittima di un paradosso: se da una parte essa è un'istituzione che necessita di un continuo rinnovamento, necessario per stare al passo con un ambiente in continua evoluzione, è anche vero che essa è da sempre un'istituzione conservatrice, refrattaria al cambiamento. La struttura gerarchica delle forze armate, tuttavia, non può essere derogata: essa è vitale affinché un esercito possa funzionare. Occorre però evitare che il conservatorismo insito nelle forze armate si trasformi in una totale chiusura e in una cieca avversità verso tutto ciò che porta al cambiamento e all’innovazione. Ancora una volta la storia ci dà ragione, essendo svariati i casi che dimostrano quanto gravi siano state le conseguenze ogni volta che la tendenza all'immobilismo abbia avuto la meglio sul cambiamento.

Un esempio su tutti è quello della disfatta francese del 1940: essa fu dovuta sì a degli errori commessi dai vertici militari durante la campagna, ma soprattutto all'inefficace adattamento della strategia militare dell'esercito. Esso era stato infatti preparato per combattere un'altra prima guerra mondiale, e quando messo alla prova dalle moderne formazioni corazzate tedesche esso venne travolto in meno di due mesi.

Anche l'Esercito Italiano, guidato allora da Badoglio, un uomo di ingegno ma di mentalità eccessivamente conservatrice ed ancora troppo legato al paradigma della guerra di trincea, si presentò all'alba della seconda guerra mondiale con tattiche e dottrine anacronistiche per quei tempi4.

E che dire invece degli inglesi? All'alba del XX secolo, la marina inglese si trovava in pessime condizioni, gestita com'era da ammiragli testardi, troppo legati alle tradizioni e concentrati più sullo stato di pulizia del ponte che sull'efficienza del tiro. Ci volle un uomo di genio come Jacky Fisher, non a torto considerato il più grande ammiraglio inglese dopo Nelson, per trasformare la marina inglese in uno strumento da guerra infallibile. Durante i suoi cinquant'anni di carriera, da cadetto a capo della Marina, Fisher si batté per il cambiamento, combattendo strenuamente la mentalità conformista e conservatrice degli ammiragli inglesi, riuscendo infine a raggiungere il vertice della marina e ad imporre le riforme necessarie. L'eccellente stato di preparazione con cui la marina inglese si presentò allo scoppio della Grande Guerra fu merito principalmente di Jacky Fisher5.

Per vincere il suo spirito conservatore, l'Esercito deve promuovere uno dibattito culturale al suo interno, stimolare la capacità creativa dei suoi membri, incoraggiare la ricerca scientifica e promuovere il pensiero critico. Se i comandanti non sentono questa esigenza, i più giovani devono essere gregari attivi e invocare al cambiamento. Il processo di innovazione non può essere infatti solo top-down, anzi, deve partire dal basso. I giovani leader devono sentire l'esigenza del cambiamento e farsi parte attiva nel processo di rinnovamento delle forze armate. Il progresso è, da sempre, l’attributo dei giovani. Senza dubbio la generazione più anziana che ricopre le cariche più elevate ha un'esperienza che un giovane ufficiale non possiede. L'esperienza però, ha vantaggi e svantaggi. Se da un lato ci permette di avere una visione più elaborata e giusta dell'organizzazione militare e quindi di poter discernere tra ciò che è realizzabile e ciò che non lo è, dall'altra essa rischia di costituire una sorta di nebbia che ci impedisce di vedere strade alternative a quelle da noi prefigurate. Per contro la capacità dei giovani di pensare fuori dagli schemi e di essere creativi rischia di finire per proporre idee impraticabili, in quanto generate da persone che non hanno l'esperienza necessaria per giudicare cosa è effettivamente traducibile in realtà e cosa è invece pura fantasia. La soluzione sta quindi in un compromesso. La classe più anziana non deve chiudersi in sé stessa, anzi deve promuovere la creatività e lo spirito di cambiamento nella generazione più giovane ed essere pronta a valutarne le proposte. L'esperienza deve in sostanza servire ad implementare il genio delle nuove leve6.

LA STORIA MILITARE

Un'ultima considerazione riguarda la storia militare. Gli articoli che trattano di storia militare vengono il più delle volte scartati con indifferenza dal generico lettore, quasi fossero un mero tampone, un mucchio di frasi buttate lì da qualche vecchio storico per riempire le pagine finali della rivista. Ebbene a mio avviso non c'è niente di più sbagliato. La storia è Magistra vitae, lo è per davvero, soprattutto per noi militari. Da Napoleone a Clausewitz a Eisenhower a Montgomery, tutti i capi militari che ci hanno preceduto hanno esaltato l'importanza e i vantaggi che offre lo studio della storia, in particolare per chi esercita la professione militare. Napoleone, il cui genio militare è il frutto anche delle numerose letture e riflessioni favorite dalla vita di caserma che condusse fino al 17957, affermava: “Per essere dei grandi leader è necessario diventare studiosi del successo e il miglior modo che conosco è quello di conoscere la storia e la biografia degli uomini che hanno avuto successo. Così la loro esperienza diventa la mia esperienza”8. Anche il più celebre fra gli storici militari, Clausewitz, conferma quanto detto, affermando: “la storia è senza dubbio la base dell’arte della guerra”9. Da cosa derivano queste enormi benefici che la storia militare porta a chi ne coltiva lo studio? Dalla natura stessa della guerra: essa non dipende dai metodi con la quale si combatte, poiché è legata alla natura dell'uomo, la quale non cambia. Cambia il contesto, cambiano le parti, cambiano le armi, ma è sempre l'uomo che combatte. In un certo senso, ogni guerra combattuta oggi somiglia, in qualche modo, a quelle del passato. Non a caso la Guerra del Peloponneso di Tucidide, nonostante sia stata scritta oltre duemila anni fa, è ancora studiata presso molti istituti militari10.

Lo studio della storia è altresì fondamentale per promuovere l'innovazione ed il cambiamento. Un'efficace analisi delle “lezioni apprese” consente di correggere gli errori commessi in passato e di evitare di ripeterli. Attenzione però. Tale strumento deve essere utilizzato con cautela. Eisenhower disse “Né un uomo coraggioso né un uomo saggio si siederebbero sui binari della storia aspettando che il treno del futuro li investa”11. Ciò che egli voleva dire con questa affermazione è che se da una parte lo studio della storia può rivelarsi efficace nel correggere gli errori che hanno portato ad una gravosa sconfitta, nel caso di un successo esso può rivelarsi un'arma a doppio taglio, rinforzando in noi teorie e concetti al punto tale da oscurarci la vista ed impedire un cambiamento. L’esempio delle recenti guerre condotte dagli Stati Uniti deve farci riflettere: i vertici militari statunitensi, convinti dell'efficacia della loro dottrina e dei loro dogmi, i quali li avevano assicurato il successo durante la guerra del Golfo, si rivelarono incapaci di combattere guerre di contro insurrezione in Afghanistan ed in Iraq.

Va infine sottolineato un altro beneficio che possiamo ottenere dallo studio della nostra storia militare. La lettura delle vicende militari di coloro che ci hanno preceduto costituisce fonte a cui attingere per rafforzare e rianimare in noi i valori tipici dell'essere militari: l'onore, la disciplina, il senso del dovere, il coraggio, la lealtà. La lettura delle gesta eroiche dei nostri predecessori ci deve aiutare a comprendere il peso che noi militari portiamo sulle spalle: quello di essere all'altezza di coloro che sono caduti per difendere la nostra Patria. Un esercito privo di questi valori è destinato a soccombere.

Ritengo sia essenziale stimolare tutti i militari, in particolare quelli più giovani, a contribuire attivamente allo sviluppo di un dibattito interno alla forza armata. Collaborando tramite la realizzazione di articoli incoraggiamo altri a farlo e contribuiamo a mantenere viva la circolazione di idee. Fungendo da piattaforma di dibattito per i leader del futuro, le riviste militari possono contribuire in maniera decisiva allo sviluppo delle nostre Forze Armate.

Matteo Mazziotti di Celso

 

1 Guerre contre l'état islamique, les derniers coups de boutoirs?, in DSI, N.130.

2 Rochat, Le guerre italiane, 1935-1943, Einaudi, Torino, 2008, pp. 171-172.

3 Vedi Girardet R., La société militaire de 1815 à nos jours, Perrin, Paris 1998, e Serman W., Les officiers français dans la nation, 1848-1914, Aubier Montaigne, Paris, 1982.

4 Rochat, Le guerre italiane, 1935-1943, Einaudi, Torino, 2008, e Gooch J., L’esercito italiano nella seconda guerra mondiale, LEG Edizioni, Gorizia, 2016.

5 Robert K. Massie, Dreadnought. Britain, Germany and the coming of the great war, PIMLICO, London, 1993.

6 Nina Kollars, Genius and mastery in military innovation, in Survival, Vol. 59 n.2.

7 Tulard J., Napoléon chef de guerre, Tallandier, Paris, 2015.

8 Napoleone Buonaparte, Aforismi politici, morali e massime sulla Guerra, Editori Newton & Compton, Roma, 2002.

9 Von Clauewitz C., Della Guerra, Mondadori, Roma, 1997.

11 Eisenhower D.,”Time Magazine”, Oct. 6, 1952.

(foto: U.S. Army)