La parola ai lettori: memorie della Grande Guerra e non solo, nel giorno dell’anniversario della Vittoria

(di David Rossi)
04/11/18

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

Ma nel cuore

nessuna croce manca

È il mio cuore

il paese più straziato

Giuseppe Ungaretti, San Martino del Carso (Porto Sepolto, 1916)

   

Nel giorno dell’anniversario e della rimembranza della Vittoria del 4 novembre 1918, lasciamo rispettosamente la parola ai testimoni - ormai muti eppure così potenti - del passato, cercando se possibile di non togliere senso ai racconti mentre ne adattiamo la lunghezza al breve spazio di questa rubrica1 e al piccolo schermo del vostro smartphone. Chi scrive ha cercato, per quanto possibile, di porre le storie in ordine cronologico dall’inizio della Grande Guerra fino a quelle del 1918 e oltre2.

In ricordo del barba Flup e del nonno Talin

Era la tarda estate del 1983 e da alcuni mesi ero venuto al mondo, capitò che un pomeriggio mi trovavo assieme a mia mamma dai nonni paterni nella cui casa viveva anche la bisnonna; guardandomi in viso disse (in piemontese, dato che non parlava quasi l’italiano - era classe 1893) a mia mamma: “A l’ha el barbarot me ‘l barba Flup (trad: “ha il mento - nello specifico la fossetta nella zona frontale - come lo zio Filippo”)”.Ma chi era il barba Flup? L’unica cosa che si sapeva era il nome, Rizzone Filippo, era partito per la Prima Guerra Mondiale e non ci fece più ritorno, il tutto avvolto in una sorta di mistero e di pudore. Un bel giorno, siamo nei primi anni 2000, capitò che venne trovata dal sottoscritto una scatola di latta riposta in un armadio tenuto in una stanza utilizzata come “refugium peccatorum”; all’interno era riposto ben piegato un ritaglio di giornale con riportava la foto ed un breve testo in cui veniva riportata la notizia del decesso. Gli anni passarono e si arrivò al 2015 quando iniziarono le commemorazioni della Grande Guerra e per puro caso scoprii che tramite il sito del ministero della Difesa c’era la possibilità di cercare i nomi dei caduti tramite un motore di ricerca messo a disposizione dalla Commissione per le Onoranze dei Caduti. Iniziai la ricerca e quasi all’istante trovai le informazioni, almeno quelle principali, del barba Flup: era nato a Montechiaro d’Asti nel 1891, con il grado di Soldato semplice venne incorporato nel 3° reggimento alpini e partecipò alla conquista del Monte Nero avvenuta nella notte del 16 giugno 1915; in seguito alle ferite riportate in combattimento spirò sullo stesso Monte Nero il 3 luglio….la sua guerra durò poco più di 40 giorni!

La bisnonna che riportò alla memoria il barba Flup aveva sposato a guerra finita un reduce, anche lui soldato semplice degli alpini, Varesio Matteo (classe 1894) da tutti conosciuto come Talin. Di lui nonostante fosse tornato dalla guerra si sapeva molto poco: mio papà ricorda solamente alcuni racconti, per giunta molto rari e molto lacunosi, tipico di chi ha visto e vissuto le guerre, relativi alla sua partecipazione ai fatti d’arme per la conquista della Croda Rossa. L’unica cosa che ricordava sovente e con piacere, specie quando incontrava un amico, con il quale era partito, aveva combattuto ed era tornato a casa assieme, era che andavano a sciare….probabilmente appartenevano a qualche plotone/compagnia di sciatori, cosa che fa sorridere se si pensa a quali sono i luoghi ed il ceto sociale d’origine. Il nonno Talin venne insignito dell’Ordine di Vittorio Veneto nei primi anni 70 e concluse serenamente la sua vita terrena nel 1975.

Un eroe siciliano sepolto a Redipuglia

Come richiesto vorrei segnalare la storia del fratello di mia nonna paterna. "Ignazio Bonvissuto soldato del 1° Reggimento Genio nato a Palermo il 18 settembre 1883 e morto sul Carso a seguito di ferite riportate in combattimento, venne richiamato alle armi il 22 maggio 1915. Lasciò la moglie e il suo lavoro di Intagliatore di pietre e dopo un breve periodo di addestramento fu destinato al fronte dove giunse il 3 marzo del 1916. Ha preso parte alla 5^ Battaglia dell'Isonzo e dopo appena tre mesi il 2 giugno 1916 venne ucciso in combattimento da una granata austriaca. Il suo nome risulta iscritto nell'Albo d'Oro dei caduti per la Patria ed è sepolto al Sacrario militare di Redipuglia (GO)".

La mitragliatrice e il rosario

Questa è la storia che mio padre Vincenzo Aliberti ha voluto raccontarvi. Mio nonno si chiamava Giallorenzo Pietro, era nato a S. Pietro al Tanagro (SA) il 29 giugno 1895 e fu chiamato alle armi nel febbraio del 1915 con stazionamento a Firenze. Partì per il fronte in forza all'85°reggimento fanteria brigata Venezia (conservo il suo congedo originale). Ha combattuto lungo una per buona parte del fronte isontino e come lui mi raccontava per più di un anno era stato assegnato a una sezione mitragliatrici e lui stesso mitragliere aveva in dotazione una S. Etienne francese spiegandomi che vomitava fino a 700 colpi al minuto. Sapeva leggere e scrivere e questo lo impegnava non poco con gli altri camerati analfabeti. Fu ferito due volte a una spalla e a una caviglia che si gonfiò a tal punto che dopo due giorni senza adeguata assistenza dovettero tagliargli lo scarpone. D'estate con pochissima acqua a volte erano costretti a bere la propria urina avendo un'unica accortezza...farla raffreddare!!! Non ha mangiato più riso per tutta la vita e mi raccontava del terrore degli assalti alla baionetta durante i quali si urinavano addosso...e non solo!!! Negli ultimi anni di vita lo trovavo spesso con la corona del rosario in mano, li seduto nell'orticello di casa o al focolare, recitava per ogni grano della corona la breve preghiera dei defunti...gli chiesi perché e per chi...mi disse che erano per ogni ragazzo, ed erano tanti, che con quella maledetta mitragliatrice aveva "buttato" a terra...non li ha mai rimossi dalla sua coscienza...diceva "erano cristiani come me!!!"

Memorie del passato.

Ho visto adesso l'articolo e ho memoria di mio nonno materno Collina Sisto che ha combattuto sui vari fronti italiani durante la Grande Guerra. Se potesse interessare ho trascritto e pubblicato circa un'ora e mezza di narrazione in cui riferisce di fatti e luoghi che lo hanno visto partecipante attivo agli eventi, sia suoi personali che di tutto il contingente a cui apparteneva.

Cuore di padre

Vorrei ricordare quello che pensò al fronte il mio bisnonno Elia Morassutto, caporal maggiore del 18' reggimento fanteria, deceduto sul Carso il 27 ottobre 1917. Quando nel maggio del 1917, seppe di essere diventato papà per la seconda volta di una bambina che non riuscì mai a vedere - mia nonna Ernesta - scrisse alla famiglia "sono contento che sia una bambina così non sarà costretta a fare la guerra". Una piccola storia di una grande guerra.
Non abbiamo mai saputo dove sia stato sepolto nonno Elia e solo recentemente abbiamo avuto una sua foto.

Dalla Sicilia alla ex Jugoslavia passando per Caporetto

Pietro Vicari nacque a Modica il 7 aprile 1883, figlio di Antonio e di Giovanna Giurdanella da cui ebbe tre figli, di cui solo due superarono la prima infanzia. Nell'ottobre 1915, pochi mesi dopo l’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra, Pietro venne chiamato alle armi e, lasciata la famiglia e il lavoro di contadino, il 31 dello stesso mese giunse in territorio dichiarato in stato di guerra (esattamente a Chiopris in provincia di Udine) dove venne assegnato al 147° reggimento fanteria della Brigata Caltanissetta. Con tale reggimento affrontò la terribile guerra di trincea sul Carso, tra il Monte San Michele e San Martino del Carso (novembre – dicembre 1915); sulle Alpi Carniche nei pressi di Timau (febbraio – ottobre 1916); nuovamente sull'inferno carsico, nel settore tra Nova Vas e Hudi Log – Boscomalo (novembre 1916 – gennaio 1917); ed infine sul Monte Mrzli, lungo il corso dell’Isonzo tra Caporetto e Tolmino (gennaio – ottobre 1917). Il 24 ottobre 1917, poche ore dopo l’inizio della battaglia di Caporetto, mentre era in forza alla compagnia comando del 147° fanteria, il soldato Vicari venne catturato sul Mrzli dall’esercito austro-tedesco che proprio in quel settore sfondò il fronte italiano dando inizio alla rotta tristemente famosa. Condotto prigioniero in Germania, probabilmente transitò dal grande campo di prigionia di Lechfeld dove venne assegnato ad una compagnia di lavoro e inviato in Serbia (nazione allora occupata dai tedeschi) a lavorare nei pressi della cittadina di Semendria (oggi Smederevo), situata sul fiume Danubio poco a est di Belgrado. Duro lavoro, turni massacranti, fame e stenti ne provocarono un progressivo e inesorabile deperimento fisico e il 25 febbraio 1918, dopo 4 mesi di prigionia, Pietro Vicari si spense nel lazzaretto di Semendria all'età di 35 anni. Probabilmente venne sepolto nella sezione dedicata ai prigionieri del cimitero militare tedesco di Semendria (non più esistente) e oggi, a 100 anni di distanza, la sua tomba è ancora sconosciuta agli uomini, ma conosciuta a Dio.

Una famiglia in mezzo alla Storia italiana e ai…campi di battaglia

ROGGERO PIETRO, di Pietrabruna (IM) classe 1894, distretto militare di Sanremo, 1° reggimento Alpini. Caduto in combattimento l'11 settembre 1915 sul M. Kukla (Rombon). A mia nonna e ad altri due cugini fu dato poi il nome di questo zio.

Il fratello di Pietro, AURELIO, era il papà di questa nonna, fu ucciso nel marzo 1945 da partigiani in circostanze mai chiarite.

SILVIO GIORDANO, classe 1919, sempre di Pietrabruna, zio paterno di mia mamma, alpino, disperso in Russia. Fu visto per l'ultima volta da suo fratello Rodolfo, pure alpino, in Albania.

Mia madre si chiama Aurelia Silvia. Suo papà, mio nonno Decimo, per una febbre non partì con l'ultimo contingente destinato alla Russia.

ANGELO SALVATICO, di Calizzano (SV), durante la guerra '40-'45 carabiniere. Fu sul fronte francese. Ebbe un incidente in moto. In caserma a Caraglio (CN), scampò all'incendio della stessa, e ne fu segnato psichicamente.

Storie di vita dal fronte interno durante la Seconda Guerra Mondiale

Dal lettore Pession, che pubblichiamo spesso. Il mio omonimo nonno Sergio non ha vissuto la guerra da “eroe” partigiano piuttosto che da soldato, ma come ragioniere e commerciale all’Ebanisteria Casalini di Faenza. Nonostante alcuni momenti di tensione e senza ipocrisia, posso a buon titolo affermare che se la passava davvero bene, nonostante tutto. Questa ditta produceva mobili e case in legno, svolgendo la propria parte nello sforzo bellico. Un momento cruciale, la Casalini l’ha passato nel 1943 con la caduta del Fascismo a cavallo fra rastrellamenti da un lato e fughe fra i monti dall’altra. Uno dei responsabili della ditta, un signore altoatesino, forse di Merano, tutt’altro che ben visto dalle proletarie forze di lavoro, fu vittima di una disavventura del periodo. Inseguito dagli operai, animati da propositi tutt’altro che pacifici, pensò bene di rifugiarsi in casa di mio nonno, all’epoca sposato e con un bimbo (mio zio) di appena quattro anni. Mio nonno, più avvezzo ai rapporti umani, rispetto il detestabile “padrone” altoatesino, al contrario era ben visto dagli operai in quanto, in tempo di guerra, scambi di favore, un cesto di uova e della cioccolata per i bambini, valevano tanto quanto un nome scritto su un pass, piuttosto che la vita stessa. Amico di molti operai e delle loro famiglie, mio nonno, affrontò il gruppo bellicoso in maniche di camicia temporeggiando e dando il tempo al fuggiasco di prendere la via dei gatti su per i tetti. Non fu un gesto eroico, ma molto quotidiano che purtroppo non valse la gratitudine del “padrone”, il quale, passati i periodi delicati, non riconoscerà mai a mio nonno la liquidazione che di legge spettava a lui come dipendente. La vicenda mi ha insegnato che se qualcuno è inseguito con tanto ardore, una ragione ci dovrà pur essere. Sempre a proposito di riconoscenza i miei nonni, al tempo dei primi bombardamenti su Faenza, pensarono fosse più saggio rinunciare agli stentati agi dell’appartamento in città, per trasferirsi in una casa di legno ben lontana da obbiettivi e salvare il salvabile portando i mobili più pregiati da dei frati francescani con la promessa di riaverli indietro al sopraggiungere di tempi migliori e, Dio volendo, ancora sani e salvi. Tutte, o quasi, scelte cruciali; del resto io sono qui a scrivere, mentre la loro casa fu rasa completamente al suolo dalle bombe degli Alleati. Ed i mobili? Al sicuro dai francescani. Purtroppo, nonostante seppur schegge abbiano anche solo sfiorato le brune vesti di questi signori, a fine dei giochi, quando mio nonno tornò da loro per riavere indietro i beni, ricevette solo una benedizione ed il dolore di chi aveva perso tutto nei bombardamenti. Conoscendo, seppur non personalmente, la fama di abile commerciante di mio nonno e le attività quasi mai disinteressate dei frati, avrei ragione di credere che l’accordo fosse tutt’altro che unilaterale, ma alla fine, come dissero i frati all’epoca, “era già un miracolo essere vivi e per questo si doveva render grazie a … bla bla bla”. Non mi resta che sperare che questi beni siano andati a persone davvero bisognose, piuttosto che nello studio di qualche religioso sovrappeso. Ma per fortuna mio nonno lavorava ancora per un’ebanisteria che di lì a poco gli avrebbe dovuto riconoscere una lauta liquidazione … Vorrei anche raccontare del “rapimento” di mio zio da parte degli Alleati giunti a liberarci. Virgolette doverose poiché il bambino, a malapena in età scolare, mentre madre e padre si disperavano nel cercarlo invano, se la passava allegro sulle ginocchia di un soldato canadese o polacco (non mi è dato saperlo). Col vento nei capelli, e forse tanta polvere e moscerini fra i denti, il mio giovanissimo zio Tino e due soldati, portavano con quanto meno folle disinvoltura, messaggi fra Faenza e Cesena a bordo di una jeep, trascorrendo così quello che, sia per lui, che per i genitori, verrà ricordato come un indimenticabile pomeriggio all’aria aperta. Del resto era ordine del comando alleato quello di socializzare e mostrarsi amichevoli con cittadinanza e bambini, e di fronte a tanto zelo, non posso che togliermi il cappello.

Infine, un ricordo di un fronte su cui hanno combattuto milioni di uomini e donne…

Le “centurinare” di Terni. Dal ricordo di Emanuela Pierucci.

Era una donna come molte altre al Jutificio Centurini di Terni.

Anzi un'operaia come tante altre.

Sì, perché lei faceva parte delle oltre 1300 unità (la maggior parte donne), troppe volte dimenticate, che, durante il conflitto del '15- '18, hanno contribuito alla storia del nostro popolo.

Aveva camminato due ore stretta nel suo misero giaccone di lana marrone con il vento che le sferzava il volto.

Quel giorno avrebbe lavorato dodici ore, con una sola ora di pausa, avrebbe percepito una paga di 80 centesimi.

Aveva percorso il viale alberato prima di entrare nella fabbrica.

La brina aveva tessuto trame inestricabili, magiche ragnatele bianche.

Un volto da bambina in un corpo di donna.

Aveva vent'anni, capelli castani incorniciavano un viso dalla carnagione olivastra, su cui campeggiava un sorriso ampio e sincero, anche quando c'era poco da sorridere.

Una manciata di lentiggini le conferiva una bellezza d'altri tempi.

Osservò gli stivaletti dalla forgia grossolana per paura di averli troppo danneggiati durante il cammino: aveva piovuto e il percorso era più sconnesso del solito.

I calzettoni di lana scuri, scendendo, mostravano timidamente le gambe esili e livide per il freddo.

All'età di vent'anni era madre, moglie e figlia, pronta a fronteggiare dei terribili nemici: la fame, la povertà, la paura. Si guardò intorno alla ricerca di volti familiari, noti.

L'esercizio pacifico delle operaie stava entrando all’Iutificio: umili massaie, ex contadine, donne di casa. Entrò nella fabbrica avendo già nelle orecchie il borbottio dei 5000 fusi e dei 300 telai dell’iutificio.

Sarebbe, di lì a poco, iniziata un'altra giornata di lavoro per produrre sacchi destinati alle difese delle trincee al fronte e tessuti di juta. Le pessime condizioni igieniche e di sicurezza erano il pane quotidiano delle "centurinare".

Così venivano chiamate a Terni le operaie del Centurini, coraggiosamente pronte ad avviare macchine assordanti e pericolose. Alzò lo sguardo verso un'apertura posta in alto, sopra la sua macchina.Non vi filtrava ancora la timida luce dell'alba.

I sogni, per qualche istante, presero il sopravvento nella sua mente, scacciati dai primi rumori delle macchine azionate dalle operaie. Accanto a lei una ragazzina di 13 anni si accingeva al telaio.

Lei azionò quella macchina che proveniva da lontano, che funzionava con l'acqua del Canale Nerino.

E il suo pensiero andò alle altre operaie, all’altro fronte silenzioso della vicina Regia Fabbrica d’Armi: magazziniere, conduttrici di macchine utensili, elettriciste. All’uscita avrebbe ritrovato il buio, ma le cose reali nel buio non sembrano più reali dei sogni. E lei continuava a sognare.La memoria, si sa, spesso fa male, ma è inevitabile per ricostruire pezzi del nostro presente.

Solo i nomi…

Un pensiero, infine, va anche a Enrico Grandi (quasi dieci anni a servizio della Patria tra le due guerre mondiali), Renato Bencini (colonnello morto sul fronte dell’Isonzo), Flaminio Piccoli (politico e partigiano durante l’ultimo conflitto mondiale, che ho avuto l’onore di conoscere) e Tranquillo Morini (antenato dello scrivente).

In conclusione, la riflessione ci porta a soffermarci, un attimo, sui bei racconti sulla Grande Guerra della lettrice Alessandra Panvini Rosati.

È un dovere, per noi che ammiriamo queste cime spinti da puro spirito estetico ed alpinistico, pensare almeno per un momento a tutti coloro che, 100 anni fa, proprio qui combatterono e spesso non fecero ritorno a valle.

Divise diverse ma stesso coraggio, stesse paure, stessa sorte.

Nel vento, mi par di ascoltare le loro voci…”

   

1 Al massimo 200-250 parole per reduce.

2 Crediamo di aver dato la parola a tutti, proprio tutti i lettori che ci hanno scritto. Se per caso una e-mail non fosse arrivata o fosse andata perduta, ce ne scusiamo.