Il puzzle di Mosul

(di Paolo Palumbo)
02/01/16

Se nel Parlamento italiano qualcuno ha pensato di mandare 450 soldati del nostro esercito a proteggere la diga di Mosul, credo e spero in cuor mio che conosca, almeno in parte, la complicata storia di una città martoriata da conflitti secolari, che non hanno mai trovato soluzioni e che le guerre recenti hanno trasformato prima in un santuario dell’insorgenza sunnita, poi in una roccaforte dei terroristi di al-Qaeda ed infine nella capitale simbolica dello Stato Islamico.

Mosul è il secondo centro abitato dell’Iraq: situato a nord di Baghdad, lungo il fiume Tigri nella provincia storica di Ninive, all’estremo nord di una vasta area conosciuta come il “Triangolo sunnita”. La maggioranza della popolazione è appunto Sunnita (70%) e coabita, quasi mai pacificamente, con diverse minoranze quali i Kurdi (25%), uno sparuto gruppo di Sciiti, Turcomanni, Yazidi e Cristiani. Durante il “regno” di Saddam Hussein, Mosul era uno dei caposaldi militari del partito Ba’athista: secondo una stima fatta da analisti americani, la città irachena avrebbe “donato” al dittatore non meno di 300.000 militari o addetti ai servizi di Intelligence.

Nel 2003, il piano d’invasione predisposto dal Pentagono per l’operazione Iraqi Freedom prevedeva che la 4a Divisione di fanteria penetrasse in Iraq da nord, attraverso la Turchia, così da stroncare alle spalle ogni resistenza della Guardia Repubblicana di Saddam; tuttavia la mancata autorizzazione del governo di Ankara costrinse il Central Command (CENTCOM) a una soluzione alternativa, ma più articolata. La crisi internazionale e le minacce d’invasione paventate dagli Stati Uniti avevano, infatti, riacutizzato lo scontro tra sunniti e minoranza kurda la quale sperava che un intervento militare americano rappresentasse finalmente la grande occasione per la costituzione di un proprio Stato indipendente. Washington aveva bisogno del sostegno dei Peshmerga, tuttavia Bush non poteva assolutamente appoggiare le istanze indipendentiste kurde, giacché avrebbe creato una crisi ben più grave con l’alleato Turco.

Lo Stato Maggiore americano optò per l’invio di duemila paracadutisti della 173rd Airborne Brigade Combat Team (ABCT) insieme ad un nutrito contingente di Forze Speciali alle quali spettava un ruolo più politico che militare. L’assistenza del JSOC (Joint Special Operation Command) serviva, inoltre, a soppesare i rapporti di forza tra i contendenti e a circoscrivere, in qualche modo, la spinta indipendentista del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) di Masoud Barzani e l’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) di Jalal Talibani. Il piano di assistenza militare prevedeva anche un ingente invio di armi e mezzi, oltreché di addestratori, per consentire ai kurdi di vincere lo scontro principalmente sul campo di battaglia.

I problemi maggiori sorsero però quando, l’11 aprile 2003, il V Corpo d’Armata iracheno si arrese agli americani: i kurdi, privi di controllo, irruppero a Mosul con l’animo pieno di vendetta. In quella circostanza le Forze Speciali americane si ritrovarono a dover gestire un conflitto senza regole, laddove diverse fazioni si contendevano il controllo della città: i kurdi uccidevano gli arabi i quali, a loro volta, si dividevano tra pro o anti Saddam. La situazione era dannatamente complicata e proprio gli americani si resero conto che non era stato preparato alcun piano per la gestione dei territori conquistati, né a breve né a lungo termine. L’arrivo dei peshmerga aveva, inoltre, fomentato l’odio della popolazione araba la quale fu oggetto di rappresaglie e violenze incontrollate.

I marines e il colonnello Charlie Cleveland, comandante del 10th Special Forces Group furono investiti dalle proteste della popolazione che reclamava acqua ed elettricità: nessuno sapeva cosa rispondere e l’unica decisione fu quella di nominare, come governatore provvisorio, Mishan al-Jabouri considerato una sorta di capo mafia locale. Inutile dire che l’ascesa di al-Jabouri causò più danni che benefici e solo l’intervento militare riuscì a frenare, provvisoriamente, la popolazione in rivolta. Saccheggi, rapine, manifestazioni e sabotaggi erano solo l’inizio della scalata al potere di due nuovi gruppi islamisti chiamati Ansar al-Sunnah e Ansar al-Islam.

AQI a Mosul

Ansar al-Islam nacque ufficialmente nel 2001 da una costola dell’Islamic Movement of Kurdistan, temibile e spietato avversario della minoranza kurda del paese. In poco tempo, il leader e fondatore Mullah Krekar, diffuse la sharia in tutta la provincia di Ninive, seminando il terrore tra chi non voleva adeguarsi alle leggi islamiche. Durante la guerra in Afghanistan, Ansar al-Islam offrì protezione a molti terroristi in fuga, molti dei quali erano arabi: tra i più noti vi era nientemeno che Abu Musab al-Zarqawi, il salafita giordano che spinse l’organizzazione ad una più stretta collaborazione con al-Qaeda.

Le cose cominciarono a mettersi male quando nel 2003 gli americani attaccarono l’Iraq, rinforzando le file dei peshmerga: molti leader e militanti di Ansar al-Islam furono uccisi o imprigionati, mentre i sopravvissuti confluirono in un nuovo gruppo salafita jihadista chiamato Ansar al-Sunnah. Rispetto la linea politica seguita da Ansar al-Islam, il leader di Ansar al-Sunnah, Abu Abdullah al-Shafi (catturato nel 2010) impresse una forte impronta radicale al movimento spingendolo, sempre più, fra le braccia di bin-Laden. La base dei terroristi si trovava poco distante da Mosul e proprio l’antica città irachena divenne uno dei punti principali sul quale concentrare le azioni contro gli americani e i kurdi.

Per l’amministrazione Bush, il dopo Saddam prese le sembianze di un rovo irto di spine, dove ogni mossa o decisione si trasformava in un vero disastro: lo stato iracheno era prossimo al collasso e ad approfittarne erano proprio gli islamisti che intensificarono la loro azione destabilizzatrice. La Casa Bianca subiva forti pressioni dall’opinione pubblica, ma anche dallo stesso establishment militare il quale procedeva empiricamente alla ricerca di una soluzione idonea che unisse la forza militare ad un raffinato lavoro di Intelligence.

La soluzione arrivò da uno degli uomini migliori del Pentagono, il maggiore generale David Paetreus il quale, proprio a Mosul, verificò la validità della nuova dottrina di Counterinsurgency. Durante la permanenza in città, la 101st Airborne Division “Screaming Eagle”, grazie ai fondi profusamente spesi dal CERP (Commander’s Emergency Response Program), ridimensionò drasticamente gli episodi violenti a danno della coalizione. Secondo un rapporto di Eric Hamilton, pubblicato dall’Institute for the Study of War, sette mesi dopo l’invasione dell’Iraq la divisione paracadutisti investì 57 milioni di dollari per sottoscrivere circa 5000 progetti riguardanti la ricostruzione di case, l’edificazione di luoghi pubblici, scuole e centinaia di presidi medici per curare la popolazione. Fu l’ultimo periodo di pace “relativa” a Mosul poiché dalla partenza della 101a divisione ricominciarono i problemi.

Nel novembre del 2004, AQI e Ansar al-Sunnah scatenarono un’offensiva per riprendersi la città: diverse stazioni di polizia furono assalite senza che gli agenti opponessero resistenza e solo l’arrivo della 1/25th Stryker Brigade Combat Team e dell’esercito iracheno ricacciarono indietro i terroristi.

La battaglia di Mosul è un giorno importante per l’esercito iracheno il quale, a parte alcuni episodi, diede dimostrazione di valore e intraprendenza. Ovviamente la presenza delle truppe americane ed in particolare delle Special Forces diede stimolo alla loro azione; in questo frangente molti ricordano la storia del sergente maggiore Anthony “Andy” Yost, meglio conosciuto come “Big Tony”. Il soldato americano del 2° battaglione (ODA 381) del 3rd Special Forces Group diventò un mito fra gli iracheni: Andy ed altri colleghi si unirono ad un gruppo dell’esercito regolare per ripulire diverse posizioni controllare dagli insorti, in particolare ad Al Sukar a nordest di Mosul. Purtroppo il coraggio di Andy lo espose a pericoli incontrollabili e il 19 novembre cadde vittima di una trappola esplosiva: la sua figura divenne simbolo di unione tra gli americani e l’esercito iracheno.

La vittoria del novembre 2004 non riuscì comunque a decapitare al-Qaeda, che riusciva ancora a controllare buona parte della popolazione: a fronte di una spesa di risorse finanziarie e umane di rilievo, la strategia di pacificazione di Bush non stava portando da nessuna parte.

Erano gli scampoli di un periodo che Thomas R. Mockaitis e gli analisti definiscono “gli anni perduti” nei quali le truppe americane si resero conto che la guerra, sebbene fosse terminata, non coincideva con una soluzione definitiva per l’Iraq.

Le operazioni del 2007 e 2008

Nella primavera/estate del 2007, la Coalizione concentrò la sua offensiva a Baghdad e dintorni causando un progressivo arretramento di AQI e una diminuzione degli attacchi terroristi, anche nella provincia di Mosul. Secondo Hamilton questa decrescita fu imputabile a tre diversi fattori: un potenziamento generale della II e III Divisione dell’esercito iracheno e una maggiore accuratezza delle operazioni condotte dalle forze di sicurezza locali; secondariamente AQI distrasse uomini e mezzi dal settore nord per concentrarli nella capitale con il conseguente – terzo fattore – indebolimento della capacità di attacco nella regione di Ninive.

Nel gennaio 2008 il governo iracheno istituì il Niniwa Operations Command (NOC) affidandogli il coordinamento di tutte le forze armate irachene operanti a Mosul, inclusa la polizia e gli agenti di confine; a capo del nuovo organismo fu scelto il maggiore generale Riyadh Jalal Tawfiq. I progressi contro il terrorismo erano però molto lenti e, nonostante il lavoro di intelligence del NOC, AQI e Ansar al-Sunnah accrebbero, ancora una volta, gli attacchi dinamitardi con IED e VBIED, causando innumerevoli vittime. Il primo risultato di un certo rilievo ci fu il 18 febbraio 2008, quando le truppe irachene catturarono Abd-al-Rahamn Ibrahim Jasim Tha’ir, l’emiro che sovrintendeva tutte le azioni militari di AQI su Mosul. Fu il primo di una serie di brillanti risultati conseguiti dal NOC, che riuscì ad infiltrare diversi agenti nelle trame dei terroristi, ottenendo preziose informazioni sui nascondigli di al-Qaeda. Il 27 febbraio un altro leader di AQI fu imprigionato, Abu Yasir al-Saudi meglio conosciuto come Jar Allah responsabile del settore sud-est di Mosul e, circa un mese dopo, venne assassinato Ahmad Husayn Ghanim, detto Abu Mansur l’emiro che dirigeva le operazioni ad est di Mosul. Sempre lo stesso anno lo Joint Special Operation Command intensificò l’attività della sua Task Force North composta da due plotoni di Ranger e un non precisato numero di Delta Force: grazie ad una stretta sorveglianza e ad indagini molto accurate, le Forze Speciali rintracciarono il nascondiglio di uno dei terroristi più ricercati di AQI, l’emiro di Mosul Abu Khalaf, ponendo termine alla sua vita.

C’erano dunque delle falle tra la rete di protezione dei terroristi?

È bene rammentare che tra AQI e Ansar al-Sunnah vigeva una stretta collaborazione con la condivisione di ideali comuni, tuttavia i capi dell’organizzazione irachena non vedevano di buon occhio l’infiltrazione straniera tra i militanti di al-Qaeda, favorendo una più marcata identità nazionalista. Il localismo di Ansar al-Sunnah riemerse quando, nel 2006, i capi declinarono l’alleanza con il nascente Islamic State of Iraq formato da estremisti sunniti, pur mantenendo sempre rapporti cordiali, in particolare con Abu Omar al-Baghdadi, guida dell’ISI dal 2006 al 2010 e successore di al-Zarqawi.

Il fitto scambio di informazioni tra le diverse identità islamiste, assicurava ai terroristi una libertà di movimento illimitata e la consapevolezza di poter agire in qualsiasi momento e con l’appoggio unanime di tutte le organizzazioni.

Il controllo e la costante presenza armata sul territorio era la chiave di successo per sconfiggere i terroristi di AQI, almeno questo era il pensiero del maggiore generale Mark Hertling fautore di una combinazione tra azioni sul campo e intelligence (una commistione che la dottrina americana definisce kinetic e non-kinetic operations). Il progetto americano per Mosul era fissare una serie di Combat Outpost (COP) nei dintorni della città in grado di garantire una sorveglianza ininterrotta sulle vie di comunicazioni principali, usate parimenti dalla coalizione, ma anche dai terroristi. Come riferisce il rapporto di Hamilton, ciascuna COP doveva presidiare un settore attraverso pattugliamenti e checkpoints di polizia e soldati percorrendo, idealmente, le medesime linee di comunicazioni utilizzate da al-Qaeda. L’esperimento fallì a causa delle rivalità tra l’esercito iracheno (polizia e fanteria) e unità peshmerga, una tensione riscontrabile specialmente a Mosul che vanificò ogni tentativo di programmare una strategia comune contro AQI.

Mosul, l’ISIS e la diga

Negli anni successivi lo scenario iracheno non subì cambiamenti, tuttavia il potere di al-Qaeda in Iraq e in altri stati mediorientali subì una decisa inversione. Secondo alcuni, nel 2010, le capacità offensive dei terroristi di Osama bin-Laden si erano affievolite sull’onda della Primavera Araba la quale, almeno in apparenza, non aveva subito contaminazioni da parte degli islamisti. Contrariamente alle previsioni di buona parte delle democrazie occidentali, America compresa, la Primavera Araba si tramutò presto in un potente fertilizzante per i militanti di al-Qaeda.

La Siria e la guerra contro il dispotismo di Assad divenne l’epicentro di una nuova compagine estremista, che affondava le sue radici proprio in al-Qaeda in Iraq. L’ISIS o Islamic State in Iraq and Siria, era certamente una costola del gruppo di al-Zawahiri, ma parimenti distante dall’altro gruppo quaedista di Jabhat Al Nusrah (Fronte del Soccorso al Popolo di Siria), sia da un punto di vista progettuale, sia nel modus operandi.

L’incendio siriano e la ribellione contro Assad funse da collante tra gli insorti di Aleppo e la comunità sunnita irachena: un rapporto del 9 ottobre 2013 dell’Institute for the Study of War descrive un’al-Qaeda tutt’altro che indebolita, bensì risollevata soprattutto nelle città di Diyala, Salah ad-Din e Mosul. Il brancolare nel buio della comunità internazionale e la mediocrità delle autorità irachene lasciarono che il nascente Stato Islamico trasformasse la provincia di Ninive in una sua roccaforte. Nel 2014 accadde l’inevitabile, quando la città di Mosul venne conquistata – senza troppe difficoltà – dai guerriglieri neri dell’ISIS. La stampa internazionale e gli americani puntarono subito il dito contro l’incapacità delle truppe irachene, colpevoli di aver abbassato le armi senza sparare neanche un colpo.

Un rapporto veritiero di quanto successe a Mosul è stato pubblicato dall’agenzia Reuters la quale ha esaminato, nel dettaglio, le sfortunate imprese del generale iracheno Mahdi Gharawi, responsabile militare della città. Già mesi prima, il generale subodorava un imminente attacco in massa dello Stato Islamico: nel mese di maggio i soldati iracheni avevano, infatti, catturato sette terroristi i quali svelarono che il prossimo obiettivo del califfo al-Baghdadi sarebbe stata Mosul e la sua importante diga.

Il 6 giugno un convoglio di pick-up carichi di guerriglieri dell’ISIS mosse verso la città e la sola vista delle bandiere nere dello Stato Islamico gettò nel panico i difensori. Dopo alcune ore di combattimenti, i soldati dell’esercito iracheno si arresero: molti furono giustiziati sul posto, altri catturati e solo in seguito barbaramente uccisi secondo il macabro rito in uso presso l’ISIS. In pochi confidavano sulle qualità militari degli iracheni, tuttavia una così scarsa resistenza sollevò qualche interrogativo. Il Primo Ministro Maliki scaricò, opportunamente, l’intero disastro sulle spalle del generale Gharawi, ritenuto l’unico responsabile della débâcle irachena che quel giorno sacrificò un’intera divisione: ma era veramente solo l’esercito il responsabile di quella sconfitta?

Secondo l’indagine condotta dagli analisti della Reuters, la caduta di Mosul è imputabile ad una concomitanza di fattori, non ultimo l’odio che il generale sciita Gharawi suscitò nella maggioranza sunnita presente in città. In questo modo l’ISIS riuscì a creare una sorta di cellula dormiente, pronta a sollevarsi e a spingere verso il disastro l’intera 3a divisione irachena. Dal canto suo il povero Gharawi non poteva fare molto per respingere i 2.000 guerriglieri dell’ISIS: sulla carta contava non meno di 2.500 unità, mentre in realtà disponeva di appena 500 soldati, male armati e scarsamente motivati. Il rapporto della Reuters giunge, infine, ad accusare anche gli alti vertici del governo iracheno reo, in modo lampante, dell’abbandono al proprio destino dei suoi soldati.

La caduta di Mosul aprì la strada ai guerriglieri verso l’importante diga, situata ad appena 50 km dalla città. La riserva idrica dell’Iraq e l’intera economia del paese dipende da questo bacino la cui distruzione avrebbe causato la morte di migliaia di vite umane e il tracollo di un’intera nazione. Non appena le bandiere nere dello Stato Islamico sventolarono sui parapetti della diga, gli Stati Uniti – forse tardivamente - riversarono tutti i loro sforzi per appoggiare i peshmerga e riconquistare il sito. In pochi giorni l’aviazione americana compì non meno di 68 attacchi aerei di cui 35 soltanto sulle postazioni islamiste nei dintorni della diga; intanto da terra le truppe kurde e l’esercito iracheno ricacciarono indietro le truppe del califfato, ormai sfiancate dalle bombe americane. Il presidente Obama considerò la ripresa della diga di Mosul come una delle vittorie più importanti per la coalizione, poiché dimostrava l’efficacia della collaborazione tra kurdi, iracheni e americani.

Sebbene la diga sia nuovamente in mani sicure, la situazione generale del paese e la scarsità di risorse ne mette seriamente in pericolo l’esistenza. L’ISIS avrebbe dunque soltanto accelerato un processo di deterioramento delle strutture che – secondo fonti dell’esercito americano – potrebbero collassare da un momento all’altro. Il bacino idrico contiene 11 milioni di metri cubi d’acqua ed è la principale fonte di rifornimento per Mosul e di tutta la provincia di Ninive; l’ordine di costruzione risale al 1980, emanato da Saddam Hussein ed i lavori furono ultimati nel 1984 da un consorzio italo tedesco, la Hochtier Aktiengesellshaft. Il vero dilemma, però, risiede nell’effettiva capacità di manutenzione della diga, poiché la struttura poggia su un deposito di gesso naturale che, al contatto con l’acqua, si sta progressivamente disfacendo: per questo motivo vengono applicate delle vere e proprie iniezioni di cemento, utili a rinforzare – quotidianamente – le fondamenta della diga stessa. Se crollasse, la popolazione di Mosul verrebbe cancellata dall’ondata d’acqua e le conseguenze si avvertirebbero fino a Baghdad, distante ben 400 chilometri!

Nei mesi appena trascorsi la ditta Trevi di Cesena ha vinto un appalto miliardario per la messa in sicurezza della diga e il nostro presidente del consiglio, Matteo Renzi, ha dichiarato in anteprima nella trasmissione condotta da Bruno Vespa che l’Italia si sarebbe impegnata a proteggere i lavoratori inviando un contingente di 450 soldati. Tra le unità prescelte per la missione ci sono i paracadutisti della Folgore o forse i bersaglieri del Governolo i quali, però, sembra non abbiano ancora ricevuto istruzioni circa i loro compiti e le regole d’ingaggio.

Le recenti dichiarazioni del ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ribadiscono il concetto che i soldati italiani non andranno in Iraq per combattere, ma alla luce di quanto narrato sopra e vista l’importanza di Mosul per l’ISIS e AQI, vi sembra possibile che i nostri paracadutisti non debbano sparare nemmeno un colpo?

Siamo alle solite esternazioni di un governo la cui politica, in materia militare, riflette abbastanza fedelmente la tenuta adottata da Renzi quando va a trovare i nostri militari: jeans e giacchetta vegetata. Forse qualcuno dovrebbe spiegargli che l’invio di 450 dei nostri migliori ragazzi, in una delle zone più calde del fronte iracheno, non può essere trattato con la stessa disinvoltura con cui abbina i suoi indumenti. Forse sarebbe meglio che il governo indossasse, una volta per tutte, il vestito più adatto per affermare quali siano le vere capacità dei nostri soldati, evitando pericolose contraddizioni.

Il nostro premier, una volta tornato a Roma, ripone la sua vegetata nel più recondito dei suoi scaffali… Qualcun’altro, più lontano, continua a indossarla, senza nasconderne la fierezza.

(foto: web / US DoD / presidenza del consiglio dei ministri)