Il nuovo corso statunitense e il futuro delle relazioni internazionali

(di Renato Scarfi)
01/04/25

Dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno dominato le relazioni internazionali, guidando le democrazie liberali e ricoprendo il ruolo di contrappeso dei regimi autoritari. Tuttavia, gli ultimi due mesi hanno fatto sorgere molte perplessità (eufemismo) circa la capacità di Washington di continuare a ricoprire il suo tradizionale ruolo globale, anche in relazione alle crescenti minacce al diritto e alla stabilità internazionale e all’indipendenza degli Stati rappresentate, per esempio, da paesi come Cina e Russia.

L’approccio evidenziato dall’Amministrazione Trump 2.0 nei confronti dei tradizionali alleati, straordinariamente somigliante alla narrazione russa (in particolare nel linguaggio) hanno infatti dato al termine “Occidente” nuovi contorni, se non una nuova accezione. Fino al 19 gennaio, infatti, il concetto di “Occidente” era abbastanza chiaro e si identificava geograficamente con l’area dell’Alleanza Atlantica e l’aggiunta dell’Australiai, un’area che riuniva paesi le cui società erano fondate sui valori classici della cultura euro-americana.

Nel corso della seconda metà del XX secolo all’Occidente si contrapponeva principalmente l’Unione Sovietica, un’importante struttura statuale che, tra le altre cose, occupava gran parte dell’Europa centrale e orientale, oltre che una parte significativa del continente asiatico. Il sistema aveva un suo equilibrio e una sua capacità di controllare crisi e tensioni. Tuttavia, l’impianto che faceva capo a Mosca non era stabile, in quanto caratterizzato da un regime politico basato sulla sopraffazione, sulla tirannia, sull’asservimento politico, morale, economico degli individui e dei popoli. E, infatti, è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni e della sua incapacità di relazionarsi in maniera cooperativa con gli alleati, che erano considerati sudditi.

L’Occidente era costruito, invece, su un partenariato basato sulla condivisione dei valori sociali, sulla consultazione, sulla cooperazione, su un solidale rispetto reciproco e sull’azione collettiva, e ciò per decenni ha garantito democrazia e prosperitàii.

In tale contesto, le relazioni internazionali erano raffigurabili come una ragnatela di connessioni complessivamente gestito dalle grandi alleanze, in cui avevano una particina i paesi non allineati, ovvero quei paesi (come Egitto, Arabia Saudita, India, Libia e Jugoslavia, per citarne alcuni) che formalmente non avevano aderito a nessuno dei due blocchi.

La caduta della cortina di ferro, e la conseguente disgregazione dell’URSS, ha portato speranze di pace e prosperità diffuse. Ma la fine dell’ordine bipolare, e del sistema di rapporti che su quell’ordine si era andato costruendo, ha però portato anche una certa dose di instabilità, derivante dalle molteplici istanze a lungo tenute sotto la cenere dal vecchio mondo bipolare. In aggiunta, la crescita economica impetuosa, specie in Asia, di nuovi attori che poi si sono presentati sulla scena politica internazionale e l’alterazione degli equilibri che ne è derivata, ha anche costretto gli Stati Uniti, unica potenza globale rimasta, a fare i conti con i cambiamenti di un mondo in rapida trasformazione e di sempre più difficile decrittazione.

Abbiamo così visto, un Bill Clinton intensificare le relazioni diplomatiche per sviluppare un’agenda politica che poneva al primo posto la promozione della democrazia e dei diritti dell’uomo, un George G. Bush impiegare la forza per esportare la democrazia nel Medio Oriente, un Barak Obama concentrarsi sulla gestione diplomatica delle relazioni internazionali non più per la promozione dei valori e degli interessi americani, ma per la loro difesa. A questi presidenti è seguito un Donald Trump che ha perseguito l’obiettivo della crescita statunitense facendo prevalentemente ricorso all’unilateralismo (vedi l’accordo per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan), cosa che comincerà ad appannare l’immagine internazionale degli USA. L’amministrazione Biden ha poi applicato una politica estera più pragmatica di quella trumpiana, concentrandosi sulle relazioni tra grandi potenze, a partire dalla Cina, ma non tralasciando di continuare a tessere rapporti con gli alleati tradizionali. Oggi vediamo il ritorno di Trump, che conferma la sua profonda avversità per il multilateralismo e vorrebbe, a forza di tweet, di ordini esecutivi, di propaganda, di minacce e di dazi, creare un sistema globale gestito da pochi, e un sistema interno gestito solo da personaggi e idee a lui graditi.

Dicevamo che ci troviamo immersi in un mondo di difficile decrittazione. In effetti, gli attuali equilibri vedono coesistere, a seconda del settore, un mondo unipolare, dove per esempio prevale incontrastata la potenza militare statunitense, un mondo bipolare, dove Cina e USA si contendono il primato globale, e un mondo multipolare o apolare, dove non esistono più punti di riferimento certi, ma domina una diplomazia multivettoriale caratterizzata dall’attivismo politico delle medie potenze regionali. Tali sono, per esempio, le attività di Turchia, Arabia Saudita o Qatar, che cercano di proiettarsi con iniziative economiche e/o politiche verso l’Asia, l’Africa o anche l’Europa. Un dinamismo che ritroviamo anche nell’Indo-Pacifico, con le iniziative di partenariato promosse da India, Australia, Giappone, Corea del Sud o Indonesia. Una moltiplicazione delle connessioni al di fuori delle grandi alleanze, perfino tra paesi che tradizionalmente hanno relazioni difficili, come India e Cinaiii. Ciò comporta una maggiore flessibilità nelle relazioni diplomatiche con alcuni paesi, in funzione degli interessi del momento. Una dimensione multipolare delle relazioni internazionali, quindi, con nuove potenze il cui peso economico ha dato loro una rafforzata dimensione politica e militare.

E mentre il sistema di relazioni internazionali è in ebollizione c’è un attore che ha assunto un ruolo (formale ma non effettivo) di spettatore: la Cina. Pechino, infatti, mentre negli oscuri sottoscala dei palazzi sostiene la Russia nella sua campagna di destabilizzazione dell’architettura delle relazioni globali, nelle dichiarazioni ufficiali si è posizionata come difensore del libero scambio, del multilateralismo sostenuto dalle organizzazioni internazionali, della difesa della Carta delle Nazioni Unite e dei dieci punti contenuti nel documento finale della Conferenza di Bandung (18-24 aprile 1955). Una posizione molto equilibrata, con la quale Pechino ambisce a presentarsi come entità dialogante, anche se fuori dai riflettori internazionali il comportamento effettivo appare alquanto distante dalle dichiarazioni ufficiali. La Cina, infatti, dall’Himalaya al Mar Cinese meridionale sta da tempo praticando la strategia del “fatto compiuto”, sostanzialmente aggiungendo apprensione alle tensioni già esistenti nell’area.

Una situazione complessiva di tensioni internazionali cui si aggiunge una preoccupante dimensione di rinnovata competizione economica, molto aggressiva, che ha lo scopo di ridimensionare drasticamente il concetto di libero scambio. Una competizione che vede gli USA attaccare principalmente le relazioni commerciali con i paesi tradizionalmente alleati, ora visti come sudditi. I dazi nei confronti di Canada e Messico, e quelli promessi nei confronti dell’Europa per il 2 aprile, nonostante anche in ambito USA si nutrano forti perplessità, ne sono una chiara evidenza.

La nuova amministrazione Trump 2.0 ha, quindi, avviato un periodo di profondi cambiamenti dello scenario internazionale e ciò pone delle importanti sfide anche al nostro Paese, nella difesa dei suoi interessi prioritari e nella scelta degli strumenti e delle politiche più idonee per la loro salvaguardia e la loro promozione. Sfide che si inseriscono in un più ampio quadro di rivisitazione del sistema di relazioni internazionali, che Trump vorrebbe più muscolari e selettive, mostrando una aspirazione a favorire la dissoluzione delle aggregazioni di più Stati, a partire dall'Unione Europea.

A ciò si aggiunge anche l’inquietante manifesta disaffezione di Washington verso le Organizzazioni internazionali come l’OSCE, l’OCSE, il WTO e tutte le Agenzie dell’ONU, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Mentre in parte ciò è dovuto allo scarso vigore/efficacia con cui tali Organizzazioni, spesso purtroppo contratte in posizioni autoreferenziali, fronteggiano le varie crisi va detto che la disaffezione statunitense negli ultimi anni è cresciuta parallelamente al ritorno di chiusure identitarie e di pulsioni nazionalistiche in vari paesi, con il risultato che è diminuita l’intensità del loro coinvolgimento in dette Organizzazioni, non più percepite come fondamentali o irrinunciabili.

In questo quadro, la crisi del multilateralismo, nel quale avevamo riposto tante aspettative per la gestione il più possibile ordinata delle relazioni internazionali, stenta a trovare adeguate risposte anche perché, dopo la rielezione dell’unilateralista Trump alla presidenza degli Stati Uniti, la potenza che ci eravamo abituati a considerare l’azionista di maggioranza dell’ordine internazionale nato dopo la fine della Guerra Fredda sta quotidianamente destabilizzando proprio il sistema multilaterale, mentre la stagione della regolamentazione internazionale dei commerci e degli scambi è insidiata da diffusi risorgenti nazionalismi economici e da preoccupanti tendenze protezionistiche, ormai chiaramente espresse.

Ciò fa sorgere spontanea la domanda su quale sia la strategia di Trump. Egli, in effetti, per la sua rielezione ha saputo sapientemente cavalcare la generale sfiducia dei ceti medi americani verso la politica multilateralista, che ai loro occhi è stata incapace di contrastare la crescita delle diseguaglianze, convincendosi che l’ordine internazionale costruito dopo la fine della Guerra Fredda avesse fallito e che, per ritornare nuovamente grande, gli USA dovessero esercitare con maggiore assertività il proprio potere a tutela degli interessi nazionali, tanto sul piano economico che su quello politico. Una rivolta elettorale di una parte di americani, che si sono identificati in Donald Trump e ne hanno propiziato il ritorno alla Casa Bianca, sperando in un cambio di marcia che rimediasse a squilibri di sviluppo globale sempre più profondi e che hanno coinvolto settori sempre più ampi della società statunitense.

Ora che si è insediato non può derogare dai temi propagandistici sbandierati nel corso della campagna elettorale. Trump e i suoi collaboratori devono, infatti, confermare di essere i “duri” che sono stati votati, perché hanno l’esigenza di consolidare l’elettorato che li ha portati alla Casa Bianca. Ecco, quindi, i toni forti e spesso offensivi nei confronti di altri Stati sovrani o di altri Capi di Stato.

In estrema sintesi, l’amministrazione Trump 2.0 si trova già in campagna elettorale sia per le elezioni di mid-term (al Congresso la maggioranza repubblicana è risicata e se non dovesse essere confermata il Presidente diventerebbe un’anatra zoppa) sia per le prossime presidenziali, per le quali Trump ha già ventilato (a soli due mesi dall’insediamento) la possibilità di presentarsi per un terzo mandato, o di far eleggere un suo fedelissimo (al momento sembrerebbe essere J. D. Vance).

Al momento, quindi, il Trump 2.0 non appare particolarmente interessato alle ricadute internazionali delle sue dichiarazioni, e continua con esternazioni il cui unico risultato sembrerebbe però essere quello di una diffusione dell’incertezza complessiva, avendo abbattuto alcuni punti (considerati) fermi che avevano favorito e caratterizzato la crescita d’immagine internazionale di Washington. In questa fase storica, quindi, sembrerebbe proprio che Trump e i suoi sodali ce la stiano mettendo tutta per risultare, in generale, poco simpatici a tutta la comunità internazionale e far tornare indietro di 200 anni l’intero sistema di relazioni internazionali, alimentando la diffidenza verso Washington.

Quindi, quale futuro si intravede dietro l’attuale crisi del multilateralismo? Quello di Trump, che già durante il primo mandato presidenziale si augurava la creazione di un mondo governato dall’unilateralismo populistico nazionalista, nel quale si tornerebbero ad avere Stati nazionali singoli, con le loro identità, i loro rigidi confini, le loro politiche estere e l’impossibilità di negoziazione collettiva o quello che prevede, attraverso un sano confronto dialettico, la tutela dei legittimi interessi nazionali in un quadro di non prevaricazione con quelli altrettanto legittimi altrui?

Sarebbe auspicabile il secondo, perché in un mondo nel quale tutti partono dal presupposto che i propri interessi vengono prima e prevalgono su quelli degli altri, non solo non vi sarà alla fine una visione condivisa nemmeno tra quelli che oggi credono di averla, ma lo scontro armato sarebbe prima o poi inevitabile.

In conclusione, c’è un’esigenza di adeguamento alle nuove relazioni internazionali che richiede uno sforzo di concentrazione da parte di tutti. Di fronte alla volontà di taluni di contrapporre le sovranità nazionali alla sovranità condivisa, le cooperazioni rafforzate tra un nucleo omogeneo di paesi appaiono lo strumento ineludibile per cercare di evitare l’immobilismo, se non il declino del nostro sistema di vita.

Nell’attuale mondo in rapida trasformazione nessuno, infatti, può farcela da solo a far fronte alle gravi sfide che si vanno profilando. In particolar modo quando si hanno di fronte avversari come Putin e Xi Jinping, minacciosi e determinati a esasperare ogni crisi. Neanche gli USA, per quanto potenti sotto il profilo militare.

Washington potrebbe ancora rappresentare la colonna portante di un sistema di relazioni internazionali in grado di contrapporsi al despotismo, ma è indispensabile rivedere l’attuale approccio unilateralista. La storia ci insegna che gli USA sono diventati grandi e potenti proprio quando hanno abbandonato volontariamente e definitivamente (fino a oggi) la loro politica isolazionista, vista allora come protezione dalle grandi potenze europee, e si sono aperti al mondo e alle relazioni internazionali. Un rapporto win-win la cui fine (o drastico ridimensionamento) comporterebbe dei danni per tutte le parti in gioco. La chiave della fortuna planetaria degli USA, infatti, è stata l’ideazione di un sistema di relazioni internazionali improntate al multilateralismo e di alleanze tra Paesi che condividono la stessa visione della società. Una visione che l’amministrazione Trump 2.0 sembra aver spavaldamente perduto. La cosa non può che rattristare e preoccupare.

i Vanno anche aggiunti Giappone e Corea del Sud che, pur avendo radici culturali diverse dall’Occidente, ne hanno abbracciato il sistema di vita e ne condividono i valori di democrazia e diritti civili.

ii Sostenuta anche dall’aiuto economico garantito dal piano Marshall.

iii In tale ambito i BRICS, orientati dalla Cina, sono nati come velleità di terzo polo mondiale, ma presentano al loro interno attriti e divergenze che ne indeboliscono la figura internazionale