Tra pochissimi giorni gli americani andranno alle urne per eleggere il prossimo presidente degli Stati Uniti. Si tratta di un evento di portata mondiale, anche se i soli a parteciparvi direttamente saranno gli elettori statunitensi, che attira anche l’attenzione di quelle popolazioni che non hanno la fortuna di poter scegliere i propri rappresentanti.
Non stupisce, quindi, che cresca l’attesa per un evento che potrebbe avere profonde implicazioni per le future relazioni internazionali e per gli equilibri mondiali.
Man mano che ci si avvicina al termine di una delle campagne elettorali più sguaiate di sempre, infatti, il mondo si interroga sulle implicazioni che la vittoria di una o dell’altro avranno sulle relazioni internazionali, in un periodo caratterizzato da forti attriti e da due scontri aperti che tengono il mondo con il fiato sospeso.
Da una parte c’è un Trump che ha già assaporato il potere e la visibilità connessi alla permanenza alla Casa Bianca, mentre dall’altra c’è una Harris che ricopre un incarico (la vicepresidenza) che comporta una sostanziale invisibilità internazionale.
In tale ambito, gli occhi del mondo sono particolarmente puntati su Donald Trump che, con una certa sorpresa degli analisti politici, è già stato eletto presidente nel novembre 2016, sulla base dei suoi proclami anti-élite (di cui lui stesso faceva peraltro parte). Nel corso di questa campagna Trump non ha abbandonato la sua propaganda che ha nello slogan “Make America Great Again” (MAGA), nel contrasto all’immigrazione, nell’ostilità alle minoranze etniche e nella riduzione degli impegni multilaterali i suoi punti fermi. Il suo stesso slogan, tuttavia, è l’implicito riconoscimento del relativo declino dei valori della società americana che, secondo Trump, può tornare grande solo attraverso un ripiegamento su sé stessa. Tuttavia, in questo modo Trump dimostra di conoscere poco la storia del suo Paese, in quanto gli USA sono diventati grandi e potenti proprio quando hanno abbandonato volontariamente e definitivamente (fino a oggi) la loro politica isolazionista, vista allora come protezione dalle grandi potenze europee, e si sono aperti al mondo e alle alleanze internazionali.
Conseguentemente, in politica estera desidera portare avanti un approccio unilateralista basato sulle relazioni bilaterali, è ostile alla mondializzazione e proclama di voler riconciliarsi con la Russia di Putin, mettendo fine alla guerra in Ucraina, e di lasciare ai Paesi europei, asiatici e del Golfo le responsabilità dirette, e i relativi oneri, correlati alla loro sicurezza. Posizioni in linea con il suo precedente mandato, durante il quale ha espresso pubblicamente dubbi circa il futuro dell’Alleanza Atlantica.
Mentre taluni sostengono l’approccio trumpiano, altri esperti lo incolpano di aver ribaltato la grande strategia degli Stati Uniti e sperano che, se sconfitto dalla Harris, abbandoni definitivamente la politica, in modo che gli Stati Uniti possano riprendere il ruolo che hanno avuto nel corso del XX secolo, accresciuto dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica: quello di Paese con egemonia incontrastata ma governata con un certo equilibrio, anche se in modo imperfetto, su un mondo in via di progressiva liberalizzazione.
È questo il clima che si respira negli USA alla vigilia delle elezioni, che si svolgeranno in un Paese caratterizzato da profonde divisioni interne, con elettori spesso iper-polarizzati dall’una o dall’altra parte, in cui alcuni Stati chiave vedono grandi comunità di origine non americana in grado di avere un peso nelle decisioni di politica estera. Come l’Illinois, che ha una significativa comunità polacca e che negli anni ’90 ha portato Clinton a sostenere l’allargamento della NATO alla Polonia, mossa al tempo ritenuta prematura da molti analisti.
Nuovi (o vecchi?) equilibri globali
È inutile negare che il mondo unipolare uscito dal dissolvimento dell’Unione Sovietica è ormai superato e oggi ci stiamo avviando verso un mondo multipolare, del quale non si percepiscono ancora esattamente i contorni. L’opposizione all’attuale sistema (i BRICS) è guidata da una Cina che rappresenta una reale sfida strategica, economica e tecnologica, che vuole contendere il primato agli USA e che sta calamitando attorno a sé Paesi che ne condividono l’approccio autoritario e la spiccata vocazione antioccidentale. Una variegata coalizione che ha già manifestato profonde divergenze interne (economiche, politiche, militari, religiose) e che raccoglie Paesi storicamente ostili tra loro.
Una coalizione che vede nella Cina e nella Russia i due Paesi che rappresentano una sfida sempre più significativa sul mare, vera arteria economica mondiale. Sul mare viaggiano, infatti, l’80% delle merci, corrono le linee di approvvigionamento energetico e si srotolano le migliaia di chilometri di cavi per i collegamenti telematici. Bloccare l’accesso al mare significherebbe bloccare l’economia globale.
Gli Stati Uniti hanno compreso la sfida che si va delineando. Attualmente sul mare non hanno pari, né rivali credibili. Sono l’unica potenza globale in campo, con un PIL di circa 25.000 miliardi di dollari (Cina quasi 20.000 miliardi e Russia circa 1.800 miliardi)i. Ciò permette agli USA di destinare alla Difesa un budget che supera ormai gli 800 miliardi di dollariii (Cina 225 miliardi e Russia 160 miliardiiii) e mette gli Stati Uniti in grado di avvalersi in politica estera di un arsenale militare completo di armi nucleari, satelliti, armi sofisticate, capacità tecnologiche d’avanguardia, mezzi aerei e, soprattutto, marittimi, con una flotta potente che conta numerosi sottomarini e ben 10 portaerei, che assicurano un spiccata capacità di proiezione. Ed è proprio su queste capacità e sulla indispensabile necessità di proteggere le principali vie marittime di comunicazione (e trasporto merci), insieme alle linee di approvvigionamento energetico e alle linee telematiche (che corrono sui fondali marini) che si stanno concentrando gli sforzi (e che l’Italia dovrebbe emulare).
A livello nazionale, l’attuale situazione internazionale ha di fatto superato il concetto di Mediterraneo allargato, e vede l’estensione dell’area di interesse nazionale anche sull’Indo-Pacifico. Da quei mari, infatti, passano le principali rotte commerciali che ci forniscono le materie prime e permettono gli scambi commerciali che ci fanno prosperare. Appare quindi indispensabile essere presenti anche su quei mari, meglio se inseriti in dispositivi multinazionali ad-hoc, al fine di poter tutelare adeguatamente i nostri interessi nazionali. Non farlo significherebbe delegare ad altri le nostre possibilità di contare nel mondo e rinunciare a fornire il nostro contributo agli equilibri globali.
Conclusioni
A Washington i sondaggi concordano sul fatto che si tratterà di un testa a testa tra i due candidati. Se da una parte il distacco tra i due appare minimo, rimane da vedere dove andranno i voti del 18% che ancora appare indeciso. Una situazione di apparente equilibrio che appena tre mesi fa non era pronosticabile.
La discesa in campo della democratica Harris, prima afroamericana a correre per la Casa Bianca, che ha sostituito Biden in corsa, ha infatti conquistato l’attenzione del popolo e dei media, dando uno scossone a una campagna che sembrava ormai avviata verso un pieno successo repubblicano. Un cambio sottolineato anche dal fatto che, per lo sprint finale i candidati, pur continuando a manifestare alcune (anche pesanti) cadute di stile, sembrano essere tornati a temi politici sensibili come l’economia e il lavoro, principali argomenti di interesse degli elettori della generazione “Z”, che potrebbero avere il loro peso in un sistema elettorale che non premia il numero complessivo di voti, ma il numero di grandi elettori di ogni singolo Stato. In una situazione sostanzialmente equilibrata una sola cosa è sicura: alla Casa Bianca ci sarà un cambio della guardia. Si vedrà se sarà Trump a prendere il posto di Biden o se, invece, si tratterà di un passaggio di consegne “dolce” con la sua vice Harris.
In tale contesto, cosa ci dobbiamo aspettare dalla vittoria di una o dell’altro? Con Trump, se dobbiamo dar retta alla sua propaganda e al suo passato, è prevedibile un approccio più assertivo, anche verso gli alleati, tendente all’isolazionismo, all’introspezione e al protezionismo. Con la Harris è prevedibile la prosecuzione dell’attuale stile, meno brutale e indelicato di Trump, contraddistinto da un atteggiamento più equilibrato, “morbido” e cooperativo nei confronti dei Paesi amici, con una politica estera che affronta i problemi mondiali in modo meno unilaterale, rimanendo tuttavia concentrata nella difesa dei propri interessi nazionali e sulle proprie aree di primario significato strategico, come l’Indo-Pacifico. Un approccio perfettamente in linea con le dichiarazioni di Bill Clinton che, quando era presidente, ha affermato “…multilateralisti se possiamo, unilateralisti se dobbiamo…”, a significare la preferenza per le decisioni collegiali concordate con gli alleati, ma pronti ad andare avanti da soli.
Due atteggiamenti, quindi, in forte disaccordo sui modi, meno distanti sugli obiettivi generali, tenuto anche conto che sulla politica estera statunitense può sempre intervenire il Congresso, attualmente a risicata maggioranza democratica. Tuttavia, in politica estera i modi spesso si traducono in sostanza e l’atteggiamento multilateralista permette di allargare la base di consenso attorno alle idee.
È quindi ovvio che le prossime elezioni USA si carichino di importanti significati. Come è ovvio che, sotto il profilo militare, per gli occidentali non esisterà più il posticino quasi gratuito al caldo e all’asciutto che eravamo ormai abituati a dare per scontato, protetti da quell’ombrello che gli Stati Uniti hanno finora garantito. I tempi sono cambiati e, se vogliamo garantire la nostra sicurezza e contare nel mondo, dovremo assumerci delle responsabilità. Lo ha capito anche la Svezia, che per 200 anni è rimasta neutrale ma che recentemente ha rotto gli indugi e, di fronte al pericolo rappresentato da Putin, ha aderito alla NATO.
Nel frattempo, l’arco di crisi che attraversa il Mediterraneo orientale trova un ulteriore elemento di instabilità nell’attacco terroristico ad Ankara. Un arco di crisi che potrebbe ulteriormente allargarsi se Putin decidesse di intervenire in Transnistria, con la scusa di tutelare le minoranze russofone da presunte (e tutte da dimostrare) pressioni moldave. Un drammatico e pericolosissimo deja vu.
In un mondo frammentato e incerto, nel quale l’ONU appare ormai incapace di contenere o dirimere le controversie internazionali, indipendentemente da chi occuperà la Casa Bianca sarà necessario un cambio di atteggiamento per assumerci un maggiore onere per la nostra sicurezza e rafforzare le nostre capacità di deterrenza, preferibilmente nell’ambito delle alleanze di cui facciamo parte. A cominciare proprio dalla NATO, organismo politico-militare oggi nuovamente utilissimo perché permette ai Paesi occidentali di unire le proprie Forze difensive, addestrate con procedure comuni.
È indispensabile prendere atto che il nuovo ordine globale ancora una volta avrà il suo fulcro nel controllo delle vie di navigazione, nel dominio del mare e nell’esercizio del potere marittimo, unica dimensione in grado di garantire lo sviluppo economico delle nazioni e la prosperità dei popoli. Senza una significativa e valida presenza sui mari del mondo non potrà essere garantito alcun equilibrio democratico.
In tale ambito, le alleanze avranno un peso enorme sui futuri equilibri mondiali. Nessuno può farcela da solo a far fronte alle gravi sfide che si vanno profilando. in particolar modo quando si hanno di fronte avversari come Putin e Xi Jinping, minacciosi e determinati a esasperare ogni crisi, e quando si tratta di proteggere un intero sistema di vita che non sarà perfetto, ma che è il più libero che abbiamo.
Si potrebbe dire che gli alleati hanno bisogno degli Stati Uniti come gli Stati Uniti hanno bisogno degli alleati sotto il profilo politico, economico e militare, anche perché ciò garantisce al Pentagono la disponibilità di 750 basi in circa 80 Paesi e cinque continenti. Un rapporto win-win la cui fine (o drastico ridimensionamento) sarebbe autolesionistica per tutte le parti in gioco.
Per il nostro Paese non ci sono alternative. Per affinità di valori fondamentali, di sistemi di vita, di obiettivi e anche di sistemi d’arma, dobbiamo stare dalla parte occidentale, dei Paesi liberali e democratici, con gli Stati Uniti, con la NATO. Elementi che ci hanno garantito pace e prosperità per decenni. Una appartenenza che ci può far lealmente criticare certe decisioni ma che deve anche essere collaborativa, lasciando tuttavia libertà di mantenere aperti i canali con chi la pensa diversamente, purché sia chiara la nostra collocazione.
Non bisogna avere il timore di prendere iniziative e i decisori politici hanno il dovere di guardare lontano, oltre l’orizzonte dettato dalla semplice gestione del potere, troppo spesso limitato alle prossime elezioni.
Le prossime elezioni presidenziali americane saranno fondamentali non solo per le crisi in atto, a partire dall’Ucraina, ma anche per l’Europa. È per tali motivi che l’Italia e l’Unione Europea devono rinnovare il proprio atteggiamento, recuperando appieno il rapporto transatlantico e affrontando le tematiche internazionali con una visione multidisciplinare, ampia e interconnessa, con la consapevolezza che le perplessità vanno superate con il dialogo tra alleati, in modo che questo “blocco” sociale/economico/politico che crede nel libero mercato, nel commercio libero e nel miglioramento delle condizioni di vita dei propri cittadini possa continuare a prosperare.
i Dati 2022 del Centre for Economics and Business Research (Cebr) pubblicato su Sole 24 ore online il 31 dicembre 2022
iii La Russia è in economia di guerra e ha triplicato le sue spese militari dal periodo precedente all’invasione dell’Ucraina.
Foto: U.S. Air Force