Demagogia e Bilanci (creativi...)

(di PLS)
07/10/19

Una volta si tremava per il ritorno delle streghe, ora il timore è diventato più prosaico e diabolicamente più complesso: matematica finanziaria e bilanci agitano notti e pensieri di pochi che, a torto o per fortuna, chissà, decidono delle paure di molti. Beninteso, la massa nell’immediato è spesso inconsapevole dell’uragano che si sta per abbattere, e magari lo rimane anche dopo che è stata intontita dalla raffica di grandine che ha colpito le cervici senza riuscire ad illuminarle; al momento, per quanto riguarda invece i pochi, dato il drastico calo di conoscenze e competenze, benedetto dalla nuova filosofia che indica nell’apertura delle scatolette di tonno la panacea per ogni male, anche coloro che viaggiano a vista ma ne sanno un po’ di più, magari in modo dilettantesco, riescono a regnare in un mondo di ciechi, pur avendo un solo occhio vedente. E poi metteteci un po’ di timore che può ingenerarvi chi scrive, che ha fatto della realtà il suo credo e del buonismo il nuovo oppio degli increduli.

Siamo sinceri, guardando i volti assonnati del mattino e quelli sconvolti del pomeriggio sulle metropolitane (strapiene e maleodoranti), chi volge la sua attenzione ai rincari dell’IVA, all’incremento delle tasse, al fatto che, per ottuse prese di posizione senza alcun costrutto sensato, impianti e stabilimenti sono a concreto rischio chiusura? In fondo, se la storia non serve, se il problema è tagliare i parlamentari a fronte di un debito pubblico al limite del suicidio (istituzionale), se le scie chimiche imperversano con l’indinniazione degli amanti di House of Card, cosa importa se il Paese rimane senza difesa aerea e, dopo aver fatto l’ennesima figura da cioccolatai (con tutto il dovuto rispetto per la categoria), i monocoli di cui sopra intendono ritrattare negoziazioni già congruite, magari scambiando la politica daziaria dell’attuale maggiore alleato per un mero capriccio gastronomico?

Signori, alzate il capino da candy crush e ruzzle, la pacchia collettiva fatta di macchine, calcetto e canzoncine neomelodiche dell’ultimo hidalgo lamentoso sta per finire. Non è una minaccia, è una verità. Preoccupatevi un po’, io l’ho già fatto; partiamo dall’ABC. Un bilancio è fatto di entrate ed uscite, di previsione delle spese compatibilmente con le disponibilità; in una parola: programmazione, cosa non facile tecnicamente, ma resa ancora più difficile, per la parte pubblica, dall’intervento dell’azione politica.

Un vecchio adagio contabile recitava: se l’acqua scarseggia la papera non galleggia: se lo stagno non è alimentato, le presunte buone intenzioni sono destinate a lastricare sia le vie dell’inferno sia a svuotare le tasche dei soliti noti, gli amati contribuenti. Metteteci poi che esiste ora un’entità sovranazionale che stabilisce variabilmente flessibilità e possibilità di intervento a volte con charme francese, a volte con rigidità prussiana, a seconda della brezza.

Quel che non può essere però imputato a nessuno, sono le scelte più o meno demagogiche che hanno un riflesso sull’economia politica di un Paese, che non può fare altro che lacrimarsele da sé per la sua dabbenaggine. Anche a Paperopoli sulla Collina Ammazzamotori è noto che un investimento può e deve essere perseguito solo se fruttifero, perché i progetti di spesa non supportati da entrate sicure (ah, la programmazione!), portano a dissesti.

L’alimentazione di un reddito diffuso legato a cittadinanze dai contorni sempre più incerti, non sembra condurre ad investimenti e guadagni, quanto piuttosto a dilapidazioni di risorse one shot.

L’affermazione non casuale: se la politica programmatica, non tenendo conto dei riflessi sull’indotto, continua a battere la strada della demagogia preferendo penalizzare i settori più redditizi, alla lunga, molto probabilmente, non potrà più nemmeno trovare su chi scaricare le sue colpe.

Apertis verbis: chi pensa che ricerca e sviluppo dell’industria degli armamenti, unitamente al suo supporto logistico, non siano proficui, abbandoni la discussione, non senza aver prima risposto se è a conoscenza di chi ha preso lo spazio produttivo stupidamente lasciato dal nostro Paese; non è un mistero che, ultimamente, la già richiamata incosciente dabbenaggine abbia contribuito ad arricchire paesi concorrenti ben felici di andare a riempire caselle di elevato profitto.

Ritorniamo ora al nostro bilancio; qual è il senso di ridurre i termini di impiego delle risorse? Perché, badate bene, nella ruvida realtà, un senso c’è sempre. In questi ultimi periodi, chi ha lavorato nel delicatissimo settore finanziario pubblico, ha dovuto confrontarsi sia con il rispetto draconiano dell’evitare la formazione di economie, ovvero di non impiegare i fondi sanguinosamente drenati dalle casse dello Stato per la soddisfazione delle varie esigenze, sia con l’imprevisto (stile Monopoli), di dover gestire la cosa pubblica con regole via via modificate a gestione iniziata, fino alla inopinata riduzione dell’arco temporale a disposizione.

Mi spiego: è come sedersi al tavolo da poker, ma con Mr. X che, sulla schiena, appoggia randomicamente un pungolo per avvisare che la scala reale non vale più, magari quando il giocatore ha già effettuato la sua puntata. Negli uffici contratti e di bilancio, è accaduta la stessa cosa: Mr. X ha colpito ed, a gare bandite, ha fatto presente che l’esercizio finanziario non doveva più essere chiuso a dicembre, ma a settembre, e addio al poker ed al piatto.

Con le tempistiche imposte dalla legislazione vigente, nuovo codice dei contratti in testa, un codice peraltro complesso e rivisitato, tutto ciò non può che portare alla formazione delle tanto aborrite economie. Altro piccolo sforzo (lasciato il candy crush?): a fronte della mancanza di investimenti fruttiferi, con una programmazione incerta e ricca di intralci burocratici, i fondi rimasti inutilizzati dove mai potranno andare a confluire, se non nel capace bacino delle scelte demagogiche? Ma con una postilla, e non di poco conto: l’anno successivo le esigenze non soddisfatte andranno a sommarsi a quelle future, aggravando un bilancio ancora più asfittico.

Dopo un primo anno di artifici e provvedimenti di colore, su quale elemento strutturale si potrà andare ad intervenire per continuare a drenare risorse?

Vi suggerisco un termine caro ad un’ala politica che ne ha fatto da sempre il suo cavallo di battaglia: ridistribuzione, ovvero tasse, ovvero drenaggio fiscale maggiorato per l’incapacità ormai pluriventennale di saper creare ricchezze e know how. Forse gestire la cosa pubblica non è così agevole come l’aprire una scatoletta di tonno, visto che, peraltro, i soldi non nascono per partenogenesi.

Vi ho preoccupato? Almeno un po’? Perché non abbiamo mica finito: sarebbe stato troppo facile, e vorrei lasciarvi almeno da monocoli. Abbiamo parlato di bilanci, saggiando il danno collaterale che pizzica più dolorosamente le parti più recondite. Mi aspetto una domanda ovvia... che vi proporrò ora io per brevità e per darvi un ultimo motivo di meditazione: ma i bilanci chi li controlla?

La gestione finanziaria a carattere privatistico soggiace agli artt. 2423-2435 bis del Codice Civile e può essere o meno soggetta a controllo; per la parte pubblica, vige il sindacato della Corte dei Conti.

Tutto perfetto? Non sembra, se è vero che, quotidianamente, aziende decotte ed alla canna del gas fino a qualche giorno prima, rinascono repentinamente e misteriosamente a nuova vita.

Possibile? Si, con un po’ di tecnica monoculare, che sposta, sugli astrusi (ma non per tutti) registri a partita doppia i debiti sui costi, aumentando così un inesistente utile, oppure si capitalizzano gli stessi costi ripartendoli su più anni, in modo da avere un utile cartolario ma non reale. La cosa più sporca è sempre quella più facile.

Mi aspetto l’obiezione: e a noi? A noi importa, eccome. Salvare una partecipata pubblica richiede risorse, come anche salvare le cosiddette bad company, che stralciate dai vecchi bilanci devono trovare altri fondi per evitare il definitivo affondamento; andatevi a rileggere il trafiletto della ridistribuzione, e troverete le vostre risposte.

Non so se sono riuscito a risvegliare attenzioni sopite dalla nostalgia ferragostana, ma forse sarebbe bene cominciare a mettere da parte fantasie e demagogie; purtroppo non siamo in un film americano dove i buoni vivono felici e contenti, forti di impossibili giustizie; pensate soltanto per un momento all’aumento delle imposte indirette, quale impatto potrebbe avere sul menage delle famiglie italiane, magari di quelle che lavorano e pagano le loro tasse senza chiedere sussidi di erogazione difficilmente controllabile: pane, latte, bollette, gasolio... non si salverebbe nulla.

Il nostro problema, forse, è che il nostro Paese si è sempre più incarnato nella realtà di Pinocchio, dove sembra essere sempre più facile trovare gatti e volpi (furbi ed indinniati) piuttosto che grilli saggi.

Foto: U.S. Army / Présidence de la République