Amministrazione Trump 2.0 e rapporto transatlantico

(di Renato Scarfi)
15/04/25

L’approccio evidenziato dall’Amministrazione Trump 2.0 nei confronti dei tradizionali alleati e del resto del mondo, con eccezione per la Russia (che si può tranquillamente permettere di fare ciò che vuole), ha sconvolto i parametri secondo i quali le relazioni internazionali e le alleanze si sono basate fino a oggi. In tale ambito il rapporto di fiducia tra le due sponde dell’Atlantico, che accomunava paesi le cui società erano fondate sui valori classici della cultura euro-americana, viene continuamente maltrattato dalle dichiarazioni di Trump e dei suoi sodali.

L’avversione, se non un vero e proprio odio viscerale, verso l’Europa da parte dell’attuale amministrazione trova, infatti, quotidiane conferme pubbliche attraverso dichiarazioni rilasciate con un linguaggio mendace, volgare e offensivo, che dipinge perfettamente il ritratto di un gruppo di personaggi ai quali ogni lettore può valutare autonomamente quali aggettivi attribuire.

Basta leggere le cronache degli ultimi due mesi per rendersene conto, fino a giungere alle dichiarazioni “presidenziali” rilasciate nel corso dell’ultima cena di gala (sic!) del National Republican Congressional Committee a Washington. Ciò sta facendo crescere, anche tra le fila repubblicane, numerosi dubbi circa le reali capacità di questo gruppo. Forse, ripeto forse, anche i membri del loro stesso partito hanno cominciato a comprendere che spesso la saggezza popolare ha la vista più lunga di quanto si pensi, quando afferma per esempio che per valutare la capacità di un leader, basta vedere i personaggi di cui si circonda. E personaggi interessanti, questa amministrazione ne ha molti.

Il consigliere per la Sicurezza Nazionale Waltz, per esempio, ha usato una chat non sicura per far circolare piani operativi con altre alte cariche dello Stato, capo del Pentagono Hegseth e vice presidente Vance compresi, includendo erroneamente anche un giornalista che, per fortuna dei militari USA impegnati nelle operazioni, ha atteso la fine dell’evento prima di far emergere la grave falla nella sicurezza, dimostrando una sensibilità e un senso dello Stato ben superiore a quello dei partecipanti alla chat. Un problema che a qualunque militare statunitense sarebbe probabilmente costata almeno la radiazione con infamia, ma che non ha intaccato la fiducia di Trump nel suo consigliere (“…è un brav’uomo…”), che non ha perso il posto. Per dirla come i latini, asinus asinum fricati.

In tale quadro, la sostituzione dei direttori di CIA, NSA, FBI e del capo di stato maggiore interforze, gli avvicendamenti del capo delle operazioni navali e del rappresentante militare presso la NATO, cui si aggiunge la drastica riduzione dei quadri delle principali agenzie della sicurezza nazionale e di molti Ministeri (con alcune reintegrazioni disposte dai giudici) non ha certo rafforzato il quadro complessivo del sistema statunitense, ma ha insinuato l’idea che quella Trump 2.0 sia una amministrazione che premia la fedeltà sulla competenza. Non importa se viene indebolita l’azione di prevenzione del crimine, per esempio, l’importante è che si sappia che chi si mette contro lo sceriffo (copyright J.D. Vance) perde il posto, come gli agenti che hanno indagato sui crimini che gli hanno causato una condanna per 34 capi di accusa. Ma lo sceriffo non era a favore della legge? Evidentemente no, visto che ha immediatamente graziato i condannati per l’assalto al Congresso. Oggi, negli USA per perdere il posto basta anche solo non essere d’accordo con la linea governativa, come il comandante del distaccamento USA in Groenlandia, rimossa per aver criticato (in un'email interna alla base, ndd) le dichiarazioni di J.D. Vance e, pertanto, vista come una sabotatrice del programma presidenziale.

Implicazioni geopolitiche

Ciò cosa vuol dire in termini geopolitici? Il generale pressapochismo evidenziato nei primi tre mesi di governo che ha, per esempio, nel confuso e stravagante algoritmo di calcolo dei dazi e nella maldestra campagna dazi condotta con apparenteii poca lucidità, quali implicazioni potrebbe avere sugli equilibri del mondo?

Su questo, al momento è possibile fare solo delle supposizioni. Nel caso tra 90 giorni vengano confermate le misure e gli obiettivi dei dazi annunciati durante il Liberation Day, il solo vero risultato che si potrebbe riuscire a ottenere potrebbe essere quello di spingere tutto il sud-est asiatico tra le braccia dell’economia cinese, e la storia (anche recente) ci insegna che una volta economicamente legato a filo doppio a Pechino, si diventa una sua preda, per sempre. Chiedete ai paesi africani, o anche sudamericani, che negli ultimi trent’anni hanno accettato grossi investimenti sul proprio territorio. Il legame economico diventa allora anche, se non soprattutto, politico.

In termini pratici cosa vuol dire? Che se tutto il sudest asiatico dovesse cadere nell’area di influenza cinese, gli USA sarebbero costretti a rinculare da alcune basi in quell’area e, soprattutto, le varie diatribe sulla sovranità dei diversi atolli del Mar Cinese meridionale si risolverebbero rapidamente a favore di Pechino (nonostante i pareri contrari, anche in punta di diritto, delle principali istituzioni internazionali) e quelle acque, attraversate dalle principali rotte commerciali marittime verso l’Europa diverrebbero presidio permanentemente gestito dalla PLAN. Un risultato geopolitico che otterrebbe il non invidiabile risultato di fare più danni agli USA e alla causa della libertà di navigazione che al Partito Comunista Cinese.

Non solo, il sistema dei dazi, così come è stato applicato (includendo, per esempio, isole abitate solo da pinguini o paesi, come il Lesotho, non particolarmente floridi) ha manifestato una incredibile inadeguatezza di chi ha curato il dossier, mandando la credibilità internazionale di questa amministrazione a trovare “bocca di rosa”. E la credibilità internazionale, in geopolitica, è parte sostanziale della deterrenza e di una efficace azione diplomatica.

In tale quadro, solo un paese ha manifestato un plauso incondizionato all’azione trumpiana: la Russia (sic!).

Gli obiettivi geopolitici di risolvere la guerra in Ucraina, mettere spalle al muro la Cina e collocare un guinzaglio all’Europa, tuttavia, al momento sembrano falliti, in quanto Putin continua a “giocare” dicendo una cosa, facendo il suo contrario e avanzando richieste addirittura superiori alle proprie iniziali intenzioni, il dragone non ci pensa proprio a chinarsi davanti all’aquila americana, rispondendo dazio su dazio (ora sono arrivati al 125%) e l’Europa ha mostrato di non intimorirsi davanti alle mattane presidenziali, evidenziando un equilibrio e una capacità di riflessione che hanno positivamente sorpreso molti osservatori.

E, mentre la Cina sta interpretando le altalenanti decisioni trumpiane sui dazi come una prova di debolezza geopolitica l’Europa continua a credere negli Stati Uniti (che può essere diverso dalla sua temporanea amministrazione), ma ha enfaticamente pubblicizzato i suoi contatti con Pechino, probabilmente più per mandare un messaggio a Trump che a Xi Jinping. Una stretta alleanza con chi non ha mai condannato l’aggressione di Mosca all’Ucraina, infatti, non avrebbe benefici ritorni per gli interessi europei, ed è per tale motivo che la cosa rimarrà probabilmente a livello di ipotesi di lavoro.

Quanto finora detto lascia supporre che la strategia geopolitica di Trump 2.0, se ne esiste una, segua una visione autoritaria e imperiale che, finora, non solo si è rivelata un boomerang per il paese, dato che Trump si è sostanzialmente rimangiato quasi tutto, ma ha duramente colpito l’immagine degli USA come grande democrazia mondiale.

Implicazioni sulla Difesa

Gli attacchi verbali e scurrili contro i paesi tradizionalmente alleati, oggi visti come sudditi, da parte dell’amministrazione Trump 2.0 ha, di fatto, avviato un periodo di profondi cambiamenti dello scenario internazionale e ciò pone delle importanti sfide anche al nostro Paese, nella difesa dei suoi interessi prioritari e nella scelta degli strumenti e delle politiche più idonee per la loro salvaguardia e la loro promozione.

Alla base delle riflessioni delle varie cancellerie esiste la convinzione che nessuno può farcela da solo a far fronte alle gravi sfide che si vanno profilando. In particolar modo quando si hanno di fronte avversari come Putin e Xi Jinping, minacciosi e determinati a esasperare ogni crisi. Neanche gli USA, per quanto potenti sotto il profilo militare.

E proprio sotto il profilo politico-militare Trump ha dato prova, almeno fino a oggi, di un atteggiamento che sembrerebbe un po’ più equilibrato di quanto mostrato in ambito economico, anche se il presidente statunitense non si lascia mai scappare l’occasione per ulteriori provocazioni. A parte le immorali e ripetute affermazioni sulla Groenlandia, Trump ha infatti affermato che “…gli Stati Uniti sono protetti da un grande e bellissimo oceano...”, una frase interpretata da alcuni osservatori come una perdita di interesse per la NATO, che non sarebbe più una priorità per Washington. Una frase che ha preoccupato più di un osservatore europeo.

Tuttavia, a parte la sostituzione del Rappresentante Militare USA presso il Comitato Militare dell’Alleanza, non sembrerebbero esserci ulteriori concrete azioni in tale direzione e, in attesa di quello che emergerà alla prossima riunione a livello di ministri della Difesa o degli Esteri, possiamo solo provare a fare delle considerazioni generali.

Prima di tutto va sottolineato che anche durante il suo primo mandato presidenziale, Donald Trump era partito con una posizione piuttosto assertiva nei confronti degli alleati atlantici, provvedendo poi progressivamente a ricalibrare il suo linguaggio e atteggiamento complessivo nei confronti della NATO. Oggi, mentre da una parte fa affermazioni come quella prima ricordata, dall’altra l’amministrazione USA insiste nella richiesta agli europei di destinare maggiori risorse alla difesa, arrivando ad auspicare il 5% del PIL. Tutto ciò sarebbe schizofrenico, se a Washington non interessasse far parte di un’Alleanza forte ed efficiente.

Un risultato positivo di tali sollecitazioni è che hanno fatto crescere la consapevolezza che l'Unione Europea debba acquisire maggiori capacità aumentando il budget della difesa di ogni Stato dell’Unione, ma soprattutto usando i finanziamenti in modo più oculato. Un’evoluzione che potrà essere resa possibile soltanto da un processo di integrazione, messa in comune, condivisione e razionalizzazione (leggi superamento di sprechi e duplicazioni) attraverso un serio processo di pooling and sharing di capacità nazionali utili a sviluppare una credibile deterrenza, al di là della disponibilità degli assets nucleari di Francia e Regno Unito.

Dopo tanti anni, ci troviamo quindi ancora a parlare di costruzione di una credibile Difesa europea. In tale ambito è vero che l’Europa tuttora dipende molto dal sostegno militare di Washington, ma va sottolineato come ciò non debba essere imputato solo a una presunta inerzia europea, in quanto tale ritardo è stato causato anche dagli USA, perché per anni hanno suggerito di non acquisire certe capacità, per evitare “inutili” e dispendiose duplicazioni. Suggerimenti utili anche a evitare l’acquisizione di strumenti che potessero permettere un’azione “autonoma” dell’UE – un termine che ha sempre infastidito molto Washington.

In secondo luogo, l’affermazione trumpiana riguardante l’Oceano come barriera di protezione appare superficiale ed errata, e sembra usata più come provocazione che come reale convincimento. Gli Stati Uniti non possono, infatti, controllare l’Atlantico senza l’aiuto degli europei perché, per raggiungere l’Oceano, i sottomarini russi sono costretti ad attraversare una serie di ristretti passaggi obbligati (choke points), conosciuti come GIUK gap. Per decenni la NATO ha monitorato la zona impiegando una serie di sensori sottomarini collegati a strutture sulla terra ferma, oltre che con unità navali e aerei da pattugliamento marittimo basati nel Regno Unito, in Islanda e in Norvegia. Se questo rodato meccanismo dovesse interrompersi, Washington avrebbe maggiori difficoltà nel rilevare la presenza dei sottomarini russi diretti verso le coste nordamericane e a seguirne gli spostamenti.

A ciò si aggiunge il fatto che se le navi della US Navy dovessero essere destinate in buona parte nel Pacifico per gestire eventuali crisi con la Cina, aumenterebbe la dipendenza degli Stati Uniti dalla collaborazione con gli alleati europei.

E il riferimento marittimo non è casuale, giacché la minaccia russa nei confronti del fronte sud della NATO si esprime principalmente proprio dal mare, sul mare, sopra e sotto il mare. Non è un segreto che navi russe, forse non in invidiabili condizioni di efficienza complessiva, ma temibilmente armate di missili, si trovano nei porti amici in Siria e in Libia, a un passo dall’Italia. Ciò permetterebbe loro, in teoria, di minacciarci con missili che non avrebbero la necessità di volare per lungo tempo sopra il territorio della NATO, come nel caso di lanci dal territorio russo (eccezion fatta per l’esclave di Kaliningrad). Ad aggiungere benzina sul fuoco è ultimamente giunta la notizia che Putin avrebbe affermato di voler destinare rilevanti risorse per l’ammodernamento della sua flotta. Da dove tragga le risorse o il prevedibile impiego delle moderne navi (Mare Artico e Mediterraneo, vista l’importanza di queste rotte mercantili?) si possono solo fare delle congetture. Tuttavia, visti i precedenti del personaggio, la questione non può essere derubricata a semplice “ragazzata”.

Ma ci sono molti altri motivi per i quali una uscita degli USA dalla NATO sarebbe controproducente anche per Washington.

A partire dalle basi posizionate in Europa, dalle quali è possibile per esempio gestire il volo dei droni dall’Afghanistan allo Yemen o la logistica delle Forze statunitensi in Africa e nel Vicino e Medio Oriente.

Ma la convenienza di Washington a rimanere nella NATO non deriva solo dall’accesso al territorio europeo. Le nostre aziende sono, infatti, profondamente integrate nella filiera di distribuzione della Difesa degli Stati Uniti. Buona parte dei componenti dei caccia F-35, per esempio, è prodotta in Europa, mentre il Regno Unito fornisce competenze di alto livello per il programma nucleare di Washington.

Poi c’è l’intelligence. Il contributo europeo ha un grande valore e permette agli statunitensi di essere più efficienti, di condurre le loro operazioni e di agire in luoghi che altrimenti sarebbero inaccessibili, come le basi britanniche a Cipro. Certo, errori gravi come quello del chatgate non contribuiscono alla serenità complessiva e alla reciproca fiducia.

Tornando agli aspetti marittimi, ci sono anche motivi economici per i quali agli USA non conviene “sganciarsi” dall’Europa. Le più grandi aziende che gestiscono le navi da carico – come la danese Maersk, l’italo-svizzera Msc e la francese Cma Ggm – sono infatti europee. La Oldendorff, prima azienda mondiale nel campo delle spedizioni a bordo di portarinfuse (navi usate per trasportare carichi come cereali, carbone, minerale grezzo, cemento) è tedesca. Gli armatori greci controllano più del 30% delle petroliere e più del 50% della flotta che trasporta gas naturale liquefatto. L’industria dei trasporti marittimi è molto sviluppata anche in Asia ma, in questo campo, l’Europa sorpassa di gran lunga la quota di mercato degli Stati Unitiiii. Quindi, il Vecchio Continente è tutt’altro che parassita.

A sottolineare la delicatezza dell’argomento, Trump ha recentemente firmato un interessante, e innovativo, ordine esecutivo volto a rivitalizzare l’industria cantieristica americana in grave difficoltà (sole 85 navi oceaniche contro 5.500 cinesi), rafforzare la forza lavoro marittima e ampliare la presenza globale degli Stati Uniti nel settore della navigazione commerciale. In sostanza, gli USA desiderano ripristinare il mahaniano concetto di potere marittimo, perché hanno compreso che sulla marittimità si giocheranno non solo gli equilibri commerciali mondiali, ma anche quelli geopolitici globali. In tale ottica, dato che gli USA attualmente costruiscono meno dell’uno per cento delle navi commerciali a livello mondiale, mentre la Cina ne produce circa la metà, il nuovo approccio marittimo statunitense potrebbe rappresentare una ghiotta opportunità per il ripristino della fiducia reciproca, il rafforzamento del rapporto transatlantico e, al contempo, una occasione per le imprese nazionali per sviluppare una costruttiva partnership italo(euro)-americana nel settore della cantieristica, area nella quale possiamo vantare notevoli eccellenze.

Per tutti questi motivi, e per le opportunità che sembrano prospettarsi, non appare ragionevolmente ipotizzabile che gli USA, nel breve/medio periodo, si possano sganciare dall’Europa/NATO, sia perché non gli conviene sia perché non se lo possono permettere. Il rapporto transatlantico, però, andrà probabilmente rimodulato, che vuol dire maggiore impegno economico da parte degli alleati, ma anche loro maggiore peso contrattuale nell’ambito delle scelte dell’Alleanza.

Conclusioni

L’Occidente è stato costruito su un partenariato basato sulla condivisione dei valori sociali, sulla consultazione, sulla cooperazione, su un solidale rispetto reciproco e sull’azione collettiva, e ciò per decenni ha garantito prosperità e democrazia.

In un mondo in rapida trasformazione e di sempre più difficile decrittazione, la condivisione dei valori e la fiducia reciproca rappresentano elementi il cui valore aggiunto rafforza le relazioni internazionali e permette di fronteggiare i tentativi di limitare la sovranità nazionale.

Il 10 aprile Trump, in ambito riunione con i suoi ministri, ha affermato che l’Europa non è più vista da Washington come una profittatrice, come erroneamente, superficialmente e offensivamente ritenuto da Trump e dai suoi accoliti fino al giorno prima (“…sono dei parassiti, lo sono stati per anni...”), ma come un interlocutore (“…tratteremo con l’UE, non con i singoli Stati…”).

Tuttavia, appare piuttosto difficile che i rapporti possano tornare rapidamente ai livelli di una volta, proprio perché Trump ha portato gli alleati, europei e no, a un elevato livello di diffidenza, da cui si potrà tornare indietro solo con il tempo e con grande impegno e buona volontà, da una parte e dall’altra.

In tale ambito, il maggiore impegno militare nazionale dovrebbe esprimersi seguendo sia la direttrice della difesa antimissilistica sia la direttrice marittima, dalla quale dipendiamo sia per le importazioni che per le esportazioni, per non parlare delle linee di approvvigionamento energetico e le linee informatiche. In tale settore si dovrebbero anche ricercare sinergie per un aumento delle nostre capacità di trasporto mercantile marittimo e di ancora più forti collaborazioni con Francia e Regno Unito, ma anche con Spagna e Grecia, per parlare delle principali Marine mediterranee.

Ciò detto, possiamo affermare che permangono, al momento, validi motivi per un certo ottimismo in merito alla continuazione del coinvolgimento USA nell’Alleanza Atlantica. Anche nel settore politico-militare, dopo quello economico, ci aspettiamo quindi che Washington assuma una posizione più chiara e più equilibrata, a favore dei tradizionali alleati. L’occasione potrebbe essere la prossima Ministeriale NATO. Dopo aver scatenato un caos economico e geopolitico globale, e aver in maniera inattesa e repentina invertito la rotta, c’è quindi da augurarsi un maggiore equilibrio americano sulle questioni di Difesa e Sicurezza, proprio perché si parla di questioni fondamentali per la vita di uno Stato democratico.

In tale ambito, ritengo che un premio speciale andrebbe assegnato all’Unione Europea che, seppur divisa al suo interno da diverse correnti di pensiero, ha reagito con maturità ed equilibrio al bullismo trumpiano e alle gravi offese presidenziali e del suo entourage. Davanti alle forti provocazioni associate a modi tutt’altro che urbani (“…kissing my ass…”), non si è infatti fatta intimorire e ha risposto sostanzialmente con un: Donald, sei un caro amico.

i Difficile indicare l’origine esatta di questa locuzione, che viene normalmente utilizzata per indicare l'atteggiamento di complice intesa, mutuo aiuto e lode reciproca anche fra due persone culturalmente o intellettualmente non dotate in modo particolare.

ii Le strane coincidenze degli ultimi giorni hanno, infatti, insinuato il dubbio che ci sia stata una regia economicamente interessata dietro a tutta la procedura che ha portato alla sospensione dei dazi per 90 giorni. In tal senso è stata presentata una istanza per convincere il Congresso ad approfondire la questione.

iii Come l’Europa può rispondere a Donald Trump, The economist, 25 marzo 2025

Foto: White House