“Fu vera gloria?” si chiedeva Manzoni riguardo al Grande Corso, demandando “ai posteri l’ardua sentenza”. Penso che i posteri abbiano certamente decretato la gloria “vera” di Napoleone.
Invece, cosa diranno i “nostri” posteri del tanto strombazzato accordo che in questi giorni dovrebbe vedere la luce tra Israele e Hamas con testimoni d’eccezione come Biden e Trump?
Stiamo vedendo molto entusiasmo sulla stampa occidentale per questo ennesimo accordo Israele-Hamas. “Accordo” che però potrebbe essere soprattutto l’ennesima concessione al terrorismo.
L’accordo sembra prevedere, oltre a 6 settimane di cessate il fuoco, il ritiro di IDF da aree di grande rilevanza per la sicurezza (quali il corridoio Filadelfia, che separa il sud della Striscia dall’Egitto, e il corridoio Netzarim, che taglia a metà la Striscia), la concessione della libertà a circa 1.200 detenuti per motivi di terrorismo, tra cui molti ergastolani, in cambio della liberazione con il contagocce di solo una minima parte degli ostaggi (in questo caso 33, che però si ignora se siano ancora in vita, sul centinaio, sembra 98, che dovrebbero essere ancora in mano ad Hamas). Ostaggi israeliani, ricordiamolo, di cui i “terroristi” di Hamas (chiamiamoli con il loro nome) si rifiutano di comunicare quanti e quali sarebbero ancora vivi.
Soprattutto, però, l’accordo darebbe ad Hamas un arco di tempo per riorganizzarsi e acquisire nuove forze.
L’intera filosofia degli accordi Israele- Hamas (temporanei cessate il fuoco con temporanei ritiri dell’IDF e liberazione di migliaia di detenuti in cambio di pochissimi ostaggi rilasciati) rappresenta una costante vittoria del terrorismo, la dimostrazione che il ricorso a massacri di civili inermi e presa di ostaggi paga. Paga in termini militari (perché l’IDF deve regolarmente ritirarsi da aree precedentemente “bonificate”, consentendo ad Hamas di riprenderne il controllo), paga in termini di supporto interno in ambito palestinese (in quanto finora ha comportato la liberazione di molte migliaia di detenuti palestinesi) e purtroppo paga anche in termini di sostegno internazionale. Paga sulla scena internazionale in quanto una comunità internazionale miope e pavida continua a premere per un cessate il fuoco a qualsiasi costo. Lo fa per la sua tranquillità di coscienza e anche per i suoi mercati, senza voler ricordare i fatti del 7 ottobre, mettendo sullo stesso piano i terroristi di Hamas e il governo israeliano (sul cui operato si possono avanzare numerose critiche, ma che nulla ha a che fare con azioni terroristiche o tentati “genocidi”).
Occorre tener presente che questa dinamica non è nuova nel confronto tra Israele e i suoi tanti nemici. Da sempre, con tutti i governi, Israele è stata disponibile concedere la liberazione di numeri impressionanti di detenuti in cambio del rilascio anche di un solo ostaggio o per la restituzione di ciò che restava di ostaggi uccisi. Ricordiamo il caso eclatante nel 2011 dello scambio per il soldato israeliano Gilad Shalit (catturato nel 2006) che portò alla liberazione di circa mille detenuti palestinesi, tra cui Yahya Sinwar, in carcere per l’uccisione di molti soldati IDF. Proprio quel Sinwar che dodici anni dopo diventerà lo spietato capo militare di Hamas che ha condotto e pianificato il massacro del 7 ottobre.
I rapitori giocano sull’importanza che Israele (per motivi culturali e religiosi) attribuisce ai propri cittadini presi in ostaggio. Dipende dal grande valore attribuito in Israele alla vita umana, che rende di fatto la comunità israeliana un unicum in Medio Oriente. Un unicum di civiltà, certo, che però non può non rappresentare anche una vulnerabilità nel trattare con chi non ha analoga sensibilità nei confronti della propria comunità. Si pensi, al riguardo, alla pianificata esposizione all’azione militare israeliana della popolazione civile di Gaza, scientemente utilizzata come “scudo umano”. Scelta voluta da Hamas, sia per imporre limiti all’azione dell’IDF sia per avere vittime “civili” da esibire ai media internazionali e per acquisire con il loro sangue innocente il supporto dalla comunità internazionale.
Sicuramente anche a Gerusalemme ci si rende conto che tra le migliaia di detenuti palestinesi rilasciati dalle carceri israeliane per ottenere la liberazione di un numero, ad ora limitato, di ostaggi ci saranno inevitabilmente i cervelli e gli esecutori dei probabili “7 ottobre” del futuro. Però, la pressione popolare e la sensibilità nazionale spingono a proseguire su una politica di concessioni che continuerà a rendere vulnerabile lo Stato della Stella di Davide. In fondo è comprensibile. Comprensibile anche perché il governo di Netanyahu si regge su una maggioranza fragile e disomogenea e perché la pressione occidentale (sia USA sia europea) preme su Gerusalemme per un accordo a qualsiasi condizione. Insomma, Netanyahu, anche se lo volesse, non avrebbe oggi la forza per resistere alle pressioni sia interne sia esterne (essenzialmente da Washington) e imporre una linea intransigente sulla liberazione degli ostaggi nel negoziato con Hamas.
Meno comprensibili mi paiono invece gli entusiasmi di casa nostra e non solo perché si tratta dell’ennesimo accordo fragile, ambiguo, che ognuno potrà tentare di interpretare come farà più comodo e che potrebbe avere vita molto breve. Infatti, per Israele la sicurezza sui confini si potrà ottenere solo con l’eliminazione di Hamas come entità politica che governa la Striscia, mentre per la leadership di Hamas la sola sopravvivenza dello Stato Ebraico continua a essere percepita come un’onta intollerabile e si continuerà a volerne la distruzione totale.
Insomma, se anche l’accordo andrà in porto, sarà un cessate il fuoco che, dopo le ferite del 7 ottobre e le sofferenze di mesi e mesi di guerra a Gaza, difficilmente potrà evolvere in un vero processo di pace e, soprattutto, in un reciproco riconoscimento tra le parti.
Come tante volte abbiamo visto in passato nel conflitto israelo-palestinese, è verosimile che alla fine l’accordo non si tradurrà nel primo passo verso una pace che pare lontana, ma solo in una “sosta per riprendere fiato”. Sosta temporanea di cui potrebbe beneficiare soprattutto Hamas, che sul piano militare ha subito importanti perdite e che avrà la possibilità sia di rimpinguare i suoi organici (con i detenuti liberati) e riorganizzarsi sia di “vendere” ai Gazawi l’accordo come un successo della sua linea terroristica.
Sosta temporanea di cui però si avvarrà, sia pure in maniera minore, anche Israele, le cui forze armate, con consistente componente di riservisti, non sono strutturare per sostenere impegni bellici così protratti nel tempo e la cui economia sta soffrendo per la prolungata assenza dei predetti riservisti dai posti di lavoro.
Il problema principale, però, è che questo accordo, come i precedenti, non solo non salvaguarda la vita degli ostaggi (di cui solo una minima parte potrebbe essere a breve liberata) ma soprattutto conferma l’attitudine del mondo occidentale (di cui Israele è culturalmente parte) a cedere sempre ai ricatti, ad arrendersi alla violenza e conferma l’attitudine delle classi dirigenti occidentali (in Europa e negli USA) ad essere disposte a esultare per accordi in prospettiva suicidi per il solo fine di poter sbandierare un successo momentaneo al proprio elettorato.
L’accordo sarà inevitabilmente percepito dalla comunità palestinese come una concessione ad Hamas, percezione che renderà anche più difficile in futuro l’assunzione di un vero ruolo politico da parte dell’ANP sia a Gaza sia in Cisgiordania. Se i risultati si ottengono con i metodi di Hamas perché mai i palestinesi dovrebbero seguire l’approccio più negoziale del’ANP?
Veniamo a noi.
Europa politicamente del tutto assente in una crisi che da ottobre 2023 investe Israele, Iran, Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen, traffico mercantile attraverso Suez. Tutto alle porte di casa nostra!
Sono decenni che i paesi europei hanno perso credibilità ed autorevolezza nel confrontarsi con i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (e il fragoroso “ben servito” che i paesi del Sahel stanno dando alla Francia negli ultimi anni non ne è che la più recente dimostrazione).
Stona anche la “tempestiva” offerta da parte del nostro ministro degli Affari Esteri di partecipare a un’ipotetica missione ONU di cui non si conoscono al momento né mandato né struttura (ovvero: “l’importante è essere presenti, per fare cosa non importa”)
Gli USA certo si sono impegnati molto. La “shuttle diplomacy” di Blinken (una quindicina di viaggi in Israele dall’inizio della crisi) è stata decisamente più frenetica di quella che ricordiamo da parte di Kissinger. È stata, però, anche decisamente meno efficace. Gli Usa (soprattutto dopo gli errori delle amministrazioni di Bush figlio, Obama e Biden) in Medio Oriente contano meno di una volta.
Adesso la pressione finale sulle parti per giungere a un accordo qualunque esso sia prima dell’inizio della seconda presidenza Trump appare l’ennesima ricerca di uno spot alle spese del futuro di Israele. Fanno a gara per attribuirsene il merito sia il presidente uscente che quello subentrante. Spettacolo poco dignitoso per quella che, dopo il crollo sovietico, era diventata “la” superpotenza e che ora sembra ritornata ad essere solo “una delle” superpotenze.
Insomma, tutti ci auguriamo che tutti gli ostaggi rientrino alle loro famiglie al più presto (possibilmente vivi), che gli scontri terminino al più presto a Gaza e che la popolazione civile della Striscia possa tornare ad una vita normale e che possano iniziare colloqui tendenti al reciproco riconoscimento tra palestinesi ed israeliani. Ma questo accordo, così come è stato concepito, potrà davvero fare la differenza nella direzione auspicata?
Vorrei sbagliarmi, ma temo di no.
In Occidente tutti contenti e nuovi 7 ottobre si preparano (e non è detto che avverranno solo ai danni di Israele!).
L’orchestrina felice continua a suonare spensierata sul Titanic...
Foto: IDF