La geopolitica è disciplina trasversale che poggia sulle fondamenta di materie madri; sono tratti di pennello che portano ad un affresco variegato. Quante materie? Tante, ma tutte vive, pulsanti: economia, sociologia, antropologia.. e storia. Se c’è qualcuno convinto che la Storia sia materia pulviscolare fatta di dettagli da caminetto beh, allora.. ding! Grazie per aver partecipato! Chi è convinto che ci sia di più, si accomodi godendosi il posto lasciato libero.
Chiudete gli occhi, ed immaginate che John Nash1, Bueno de Mesquita2 ed un autore per ora velato giochino con noi: il primo, attento solutore di dilemmi e liberatore di prigionieri; il secondo, impegnato a plasmare il presente per vedere il futuro, ed il terzo volto a rendere più goticamente interessanti le serate invernali.
Cambiamo tempi e luoghi; ricordiamo che esistono delle connessioni per cui la storia è geografia in movimento, mentre la geografia è la rappresentazione di un dato momento storico3, e che ogni Stato ha una politica dettata dalla sua geografia. Partiremo dal passato per arrivare ai perché del presente; attenzione però: la storia è comprendere e contestualizzare; è pensiero di ampio respiro, è, secondo Marc Bloch, mantenere il contatto con un presente vivo, non con un singolo e grigio dettaglio; è un vissuto privo di una provvidenza troppo sacrale per l’uomo: è un continuum senza cesure.
È vero, la storia è talvolta scritta dai vincitori, ma sta ai vinti renderle giustizia senza distorcerla con l’intento di rifarla. Siamo fatti di scintille di sapere e di desiderio di conoscere: sta a noi non spegnerle. Partiamo da lontano, dalle ultime vestigia imperiali di Roma; Costantinopoli si sta spegnendo lentamente dopo oltre 1000 anni, e sta sorgendo una nuova potenza, quella ottomana. Il Sultanato è così rafforzato che le miopi potenze occidentali con interessi marittimi e commerciali, malgrado le professioni di fede cristiana, attratte dalla conservazione dei vantaggi economici, preferiscono il canto delle sirene della neutralità. Nonostante i ripetuti appelli pontifici, il disinteresse verso Costantinopoli permette agli ottomani di pianificarne la conquista.
L'Imperatore Giovanni VIII Paleologo chiede aiuto militare occidentale barattando l’unica merce disponibile: la sottomissione al papato cattolico; Dio non sembra presiedere alcun concilio, e l'unione tra le due chiese, proclamata a Firenze nel 1439, lastrica l’inferno. Sembra quanto meno profetico quel “39”, che 500 anni dopo sancirà l’inutilità degli accordi di Monaco, malgrado le pavide concessioni elargite ad un altro aspirante egemone. Il successo ottomano preclude le penetrazioni genovesi e veneziane in Mediterraneo Orientale e Mar Nero; la Serenissima si adatta, negoziando accordi con i nuovi padroni del Bosforo. Di fatto non è più possibile muoversi nel settore orientale con la stessa libertà di prima, tanto che nel 1480 i turchi occupano Otranto, suscitando un’apprensione non condivisa dal resto d’Italia, visto che sembra non dispiacere che il re di Napoli sia stato così duramente colpito.
Gli elementi ci sono tutti: declino di una potenza esausta, insorgere flamboyant di un nuovo egemone che fa di coesione e proiezione di potenza il suo credo. Due giganti tra i quali si dibattono soggetti politici rilevanti e complessi: il Sacro Romano Impero ed altri attori, apparentemente minori, destinati alla lotta per la sopravvivenza, secondo paradigmi degni della più pura realpolitik in salsa rinascimentale; sullo sfondo, petrine volute di incenso, accompagnate da pragmatiche visioni di gestione del potere secolare che permettono a Pio II di inviare a Maometto II una lettera (in polemica con i sovrani occidentali) con l’offerta di diventare la spada della prima Roma, visto il suo diritto ad aspirare alla successione degli imperatori romani, in quanto conquistatore di Costantinopoli.
I turchi incutono timore: da sempre quel che sanno fare meglio è la guerra, ed è una fama dura a morire, visto che anche negli odierni stadi di calcio, in terra persiana, agli azeri basta ricordare di essere turchi per indurre gli avversari ad un più mite silenzio.
Bayezid I non nasconde il proposito di sfamare il suo cavallo sull’altare di Pietro, e Solimano il Magnifico invia i suoi akinci4 a Praga ed a Ratisbona per rammentare a Carlo V chi sia davvero il Qaysar-ı Rum5, il discendente dei conquistatori dell’ultimo bastione cristiano, nonché espressione di un culto profondo dello Stato che è sempre stato solo turco, quello che oggi più interessa Bahceli ed i suoi Lupi Grigi.
Il vento dei Balcani spinge l’occidente sulla strada del primato tecnologico, mentre gli ottomani affinano la loro arte del governo di etnie diverse grazie ad una politica inclusiva che, come hanno fatto i Romani, bilancia l’esiguità numerica turca; ancora adesso, il mito turco è quello per cui ogni spostamento non fa che estendere i confini dell’idea di Turchia, come dovrebbero (forse) sapere in Germania.
La storia vede i turchi travolgere i serbi a Kosovo Polie nel 1389; rafforzarsi nei Balcani, politicamente sempre più frammentati, come da tradizione; nel 1393 conquistano il regno di Bulgaria, minacciano l’Ungheria. Dopo la sconfitta patita ad Ankara nel 1402 da Tamerlano gli ottomani risorgono; Murad II nel 1444, a Varna, sconfigge serbi, polacchi e ungheresi; nel 1453 Maometto II, che coniuga agli occhi del popolo valenza profetica e capacità belliche, espugna Costantinopoli, che diviene la nuova capitale con nome Istanbul e con la millenaria Basilica di Santa Sofia trasformata in moschea; il Sultano a nord punta a Danubio e Sava come confini, cercando di integrare organicamente i Balcani nell’impero.
Gli equilibri di potere si spostano a favore ottomano, tanto da rendere senza speranza sia qualsiasi tentativo di espellere i turchi dall’Europa, sia di determinare le politiche degli altri poteri continentali. È un’espansione che non si ferma, è un’onda che si infrange a Vienna nel 1529, ma che travolge comunque Serbia, Boemia, Cipro.
La potenza navale ottomana è spezzata nel 1571 a Lepanto dalla flotta cristiana ma è, nel procedere storico, solo un momento, visto che i turchi conquistano comunque Creta.
Poco più di un secolo dopo Lepanto, nel 1683 i turchi tornano sotto le mura di Vienna, bersaglio comunque fuori dalla loro portata logistica, e sono fermati per sempre dall’intervento del polacco Sobieski, mentre Venezia perde il controllo su tutte le isole e i porti Egei, eccetto le isole Ionie. La flebile coesione tra gli alleati cristiani impedisce di sfruttare il successo di Lepanto, tanto da ostacolare l’immediata riconquista di Cipro, osteggiata da Filippo II, ostile al Leone veneziano.
Proiezioni di potenza, bilanciamento di potere, autolesionismi politici ispirati da interessi di cortile, trasformazioni dei luoghi di culto; in fondo non è così difficile tornare con il pensiero alla Repubblica turca di Cipro, che controlla gli accessi alle coste meridionali Turche, al Libano ed alla Siria; alla riconsacrazione di Santa Sofia; ai tentativi di espansione di influenza verso l’area balcanica; all’East Med; ad una riproposizione militare in nord Africa; agli scontri etnici nell’ex Jugoslavia tra serbi e musulmani; alle alleanze di comodo, come quella stretta con Budapest, la nemica di sempre.
Se la Turchia è ora carente di una valida struttura economico politica, certo non può immaginare di poter contare su di un impossibile impianto neosultanale, un paradosso storico che evidenzierebbe il vuoto organico-istituzionale di un Paese con un passato importante, ma con un altrettanto nebuloso futuro.
Prime conclusioni: la situazione spinge gli europei a cercare ad ovest le nuove vie per il levante visto che il conflitto contro l’Impero Ottomano, che perdura e coinvolge Austria, Spagna e Venezia, impegna solo saltuariamente la totalità cristiana, caratterizzata dalla congenita incapacità di far fronte comune contro un nemico in grado di arrivare al cuore dell’Europa.
Fermiamoci qui: il declino imperiale turco, che in poco più di 200 anni dall’assedio viennese porterà al disfacimento statuale, appartiene a cicli storici caratterizzati da attori incapaci di rimanere al passo con i tempi.
Sveliamo il terzo personaggio: Bram Stoker, ovvero lo scrittore che, impropriamente, ha riportato all’attenzione nel 1897 il voivoda di Valacchia, più noto come Dracula6 o Vlad l’Impalatore, nonché spina nel fianco ottomano.
Sfatiamo qualche mito: abbiamo parlato di Valacchia, e non di Transilvania e, sì, Vlad fu, come riportato da Fyodor Kuritsyn7, un principe coraggioso e spietato, ma non più di quanto non lo siano stati gli altri, basti ricordare il supplizio riservato dai turchi a Bragadin (immagine) e dagli azeri agli armeni nei nostri tempi evidentemente poi non così civili.
Di Vlad, eroe nazionale romeno, si trovano effigi ed un busto presso il Muzeul Militar National: quel che lo rende ancora così vivo nell’immaginario popolare che lo vuole scudo dell’Europa, è la sua sfida al dominio ottomano, sono i suoi sforzi per mantenere la Valacchia un principato indipendente incastonato tra turchi ed ungheresi, ambedue portati a preferire un utile cuscinetto piuttosto che uno stato da conquistare o proteggere; oggi parleremmo di proxy.
Geopoliticamente i Carpazi sono economicamente importanti, ed un ruolo fondamentale è ricoperto dalle città sassoni. Se i passi tra Moldavia e Transilvania sono stretti e bloccabili, quelli tra Valacchia e Transilvania sono aperti al cuore dell’Europa. La Valacchia di Vlad è un esempio di equilibrio di potere complesso, con una politica interna condizionata dalla piccola nobiltà, i boiardi. Anche Mel Brooks, a queste condizioni, avrebbe rinunciato alla sua battuta “è bello essere re”.
La vita di Vlad non è facile: giovane ostaggio della corte turca; in contrasto con il fratello Radu; padre e fratello maggiore uccisi; trono usurpato; insidiato dai mercanti sassoni della Transilvania; alleati inaffidabili; principe di una regione economicamente arretrata rispetto alle confinanti.
Quando prende il potere Vlad rammenta chi è stato fedele e chi no: nasce il mito dell’impalatore.
Il 1460 è un anno di faglia: Vlad interrompe i rapporti con la Sublime Porta, riprende i contatti con l’Ungheria, la Valacchia da semplice espressione geografica assurge alla grandezza di problema.
In attesa dell’arrivo dell’inevitabile rappresaglia turca, Vlad inizia una campagna di razzie sulle due sponde Danubiane; il voivoda adotta una tattica finalizzata a ridurre la capacità bellica ottomana: è cresciuto alla corte del sultano, conosce l’arte della guerra.
Nella primavera del 1462 gli ottomani lanciano una spedizione guidata dal sultano Maometto II e dal fratello Radu; non si tratta più di un semplice scontro per la supremazia militare a nord del Danubio. Vlad, padrone del territorio, lascia un solo punto attraversabile ed obbligato a Vidin8, ed è certo che i danni che ha causato a sud del Danubio lasceranno l'esercito turco, vittima della sovraestensione logistica che lo punirà poi a Vienna, privo di rifornimenti.
Vlad non ha bisogno di sconfiggere i turchi in campo aperto, deve rendere insostenibile il costo della loro presenza. Maometto II, a sua volta, non desidera la debellatio valacca: il guadagno che viene dai tributi di un simile territorio non ha eguali con il prezzo richiesto da un completo controllo contro l’Ungheria; basta sostituire Vlad con il più malleabile fratello Radu. Con Vlad che controlla la maggior estensione danubiana lungo il confine e che pratica la tattica della terra bruciata, il Sultano non può avvalersi della sua potenza fluviale per stabilire una testa di ponte sicura; inizia una campagna inquadrabile nel contesto di una guerra asimmetrica, uno scontro tra due forze diseguali che definiscono la vittoria secondo propri termini, un concetto che Kissinger, riferendosi alla guerra del Vietnam, avrebbe sintetizzato dicendo: la guerriglia vince se non perde. L'esercito convenzionale perde se non vince.
Vlad, non potendo sconfiggere i suoi avversari, anche perché attaccato dal Principe Stefano di Moldavia, suo cugino, tenta di rendere l'esercito ottomano incapace di continuare la sua campagna militare. L'ultima chance valacca data 17 giugno 1462, con un’incursione nel campo turco: Vlad pur non riuscendo ad eliminare il Sultano, gli dimostra che nulla è scontato. Un successo psicologico importante. Mentre Vlad chiede (senza ottenerlo) l’aiuto del Re d’Ungheria che comprende in ritardo che avere un Bey di Valacchia è più scomodo che negoziare con Vlad, il Sultano giunge a Targoviste, la capitale valacca, trovando la scena raccapricciante di una foresta di impalati9.
Il terrore che Vlad incute diventa leggenda, si imprime quale effetto duraturo sui turchi, secondo Laonico Calcondila10, soldati impauriti e ansiosi di tornare nella loro terra, novelli affetti da stress post traumatico.
La campagna di Vlad, da un punto di vista militare fu un fallimento, viste deposizione, prigionia ungherese e successiva decapitazione, ma dimostrò che il potere imperiale poteva soffrire. Di fatto, gli ottomani non vollero conquistare, ma semplicemente effettuare un moderno regime change tale da permettere di volgere l’attenzione altrove, lasciando la Valacchia al centro geografico d’area, con la sua identità culturale intatta: né turca né ungherese.
Tralasciando le fantasie di Stoker, crediamo che Sia Nash che de Mesquita, in ambito Teoria dei Giochi, avrebbero trovato materiale più che sufficiente per definire i molteplici dilemmi che hanno costellato il periodo aureo ottomano, individuando tuttavia nell’ottusità della politica occidentale, frammentata secondo le linee di forza dei singoli Stati, il delta capace di fungere da variabile incontrollabile nel calcolo statistico delle previsioni.
La politica degli accordi segreti, delle negoziazioni bilaterali, trova in questi anni terreno fertile, ma rende chiaro un principio, incompreso tutt’ora dagli egemoni regionali europei: la coesione politico strategica delle controparti, rende vano qualsiasi progetto; secondo il pensiero di Jep Gambardella, protagonista della Grande Bellezza, si appropria dell’invincibile potere di farli comunque fallire.
1 Tra i matematici più brillanti e originali del Novecento, ha rivoluzionato l'economia con i suoi studi di matematica applicata alla teoria dei giochi, ricevendo il Premio Nobel per l'economia nel 1994.
2 Politologo, professore alla New York University, e senior fellow presso la Stanford University s' Hoover Institution .
3 Prof. Carlo Jean
4 Truppe scelte
5 Cesare dei Romei
6 Patronimico, in quanto il padre appartenne all’ordine cristiano del Drago (Dracul)
7 Funzionario del governo e diplomatico, esercitò una grande influenza sulla politica estera russa ai tempi di Ivan III. Uno dei suggerimenti, tra i tanti, era di fronteggiare i tartari dell’Orda d’Oro come Draculea aveva fronteggiato i turchi, cioè con estrema severità e rigore.
8 Bulgaria
9 Come descritto dalle cronache
10 Cronista bizantino
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