Il “guerriero” islamico e la “volontà di potenza” occidentale

(di Giovanni Caprara)
17/08/15

L’atteggiamento aggressivo della compagine islamica dell’ISIS, ha fondamenta nell’odio non solo verso il decadente sistema occidentale, ma soprattutto verso l’individuo che ne fa parte. La battaglia dello Stato Islamico è l’elogio alla guerra, la celebrazione del singolo combattente, l’esaltazione del “guerriero” che odia il nemico come concepito da Nietzsche. L’odio è peculiarità del guerriero e per essere applicato ha bisogno di un contendente. La guerra contro quest’ultimo non è solo fine a se stessa, ma gli consente di crescere spiritualmente e materialmente.

Il guerriero islamico non ama la terra e l’umanità, la distruzione dei siti storici e l’efferatezza degli omicidi ne sono la dimostrazione, ma è addestrato alla violenza ed è pronto ad accettare il proprio terribile ultimo destino: il martirio in nome di Allah.

Il guerriero dello Stato Islamico non tenta di opporsi al suo status ed accetta il fato, l’odio e l’eliminazione dell’avversario. L’occidentale al contrario è un soldato e come tale concepisce il nemico come collettività e non come individuo. Ossia riconosce il contendente in un esercito composto da elementi in “uni-forme”.

Questa uniformità fra i nemici non ne consente la discriminazione individuale e viene, pertanto, considerato nella sua interezza e nazionalità. Al contrario il guerriero è un singolo combattente e perciò ha un singolo avversario e su quest’ultimo coltiva il proprio odio declinando la battaglia in un rapporto a due soggetti, una estremizzazione del concetto di Carl Von Clausewitz, il quale sosteneva che la struttura fondamentale della guerra è un duello fra combattenti posti uno fronte l’altro. Il guerriero non si accontenta della pace in quanto la trasmuta in fine delle ostilità, ma vuole la guerra e la intende come unica soluzione all’applicazione del suo odio ed alla realizzazione di se stesso, creando una dicotomia fra il suo destino e quello del nemico. Infatti le guerre di religione, o presunte tali, si ripetono nella storia dell’umanità.

Nel parallelismo tra il guerriero di Nietzsche e quello islamico, non trova giustificazione l’affermazione che: “è buona la guerra che santifica ogni causa”. La discriminazione fra i soldati che combattono una guerra giusta e quella ingiusta è determinata dalla giustizia e dal diritto; l’aggredito ha la necessità di difendersi per giustizia e per recuperare i propri diritti, ma non dovrà violare gli stessi parametri nei confronti dell’aggressore. Dunque sarà necessario limitare la risposta ai soli militari.

Michael Walzer specifica che il soldato ha la responsabilità di accettare i rischi personali piuttosto che uccidere un civile innocente; l’istinto di conservazione non deve prevaricare i diritti dei non belligeranti. In definitiva, qualsiasi risposta militare, per essere giusta, dovrà garantire l’indennità dei non combattenti, una proporzionalità tra l’aggressione subita ed il colpo che si andrà ad infliggere e non sfociare in episodi di vendetta o rivalsa.

Anche Norberto Bobbio ha affrontato la teoria della guerra giusta nel profilo della giurisprudenza, sottolineando che in tal caso è necessaria una distinzione fra un processo di cognizione ed uno di esecuzione. Nel secondo caso, la guerra è intesa come pena o come sanzione da comminare al nemico e l’atto di belligeranza è esaltato nella forza che dunque si pone al servizio del diritto. Nel processo di cognizione, le operazioni militari trovano il loro limite in quanto non adatte a discriminare il giusto dall’ingiusto, questo perché la guerra è giusta per entrambi i contendenti.

La concezione di just war è ricordata da Roland Bainton nel citare Platone: per poter essere considerata giusta, deve avere come obiettivo la rivendicazione della giustizia ed il ristabilimento della pace. Dove, però, l’applicazione della giustizia sia equa, i diritti dei vinti non siano lesi e la pace non sia negativa.

Citando Thomas Hobbes, il concetto di pace è negativo, in quanto obliato dall’assenza di forza, e secondo Kelsen, il diritto stesso ricorre alla forza pubblica per garantire il rispetto delle leggi. Questo vuol significare che lo stato giuridico di pace è ristretto all’uso illegittimo della forza, giustificandola quando necessaria.

Questi passaggi non appartengono agli adepti dello Stato islamico rei di uccisioni verso personale civile e come tale non belligerante e di usare la forza non per finalità di difesa pubblica. L’islamico non può essere considerato giusto perché si vendica del nemico con efferatezza. Inoltre, questo presunto guerriero si nasconde e giustifica le sue azioni con l’odio verso l’infedele, ma in realtà non si tratta di uomini che hanno superato loro stessi illuminati dalla religione, ma di adepti obbedienti ad altri loro simili i cui ordini influiscono sul pensiero più che sugli atti.

L’odio del guerriero dell’ISIS è anche ricerca di una identità forte e preponderante, formalmente dissimile da quella occidentale che si sta perdendo nelle incertezze, nell’instabilità e nel voluttuario. In questo contesto, la religione stessa dell’occidente è in fase decadente, infatti l’incapacità di porsi obiettivi concreti diminuisce il senso della vita ed il venirne meno coinvolge anche la fede. Le associazioni statuali, siano queste finanziarie, politiche o militari, quanto il singolo individuo, si pongono come finalità un’identità precisa che consenta loro un ruolo predominante e per raggiungere questo a volte sfociano in episodi di violenza, da qui la necessità di emergere che si traduce in una “volontà di potenza” tipicamente occidentale. La volontà di affermarsi e di primeggiare, lasciano spazio al timore di essere poi minacciati dai contendenti, circostanza dalla quale origina la paura e la debolezza. L’affiorare di questi sentimenti fa diventare la violenza come negazione dell’alterità nella necessità di affermare la propria, un processo che promuove i conflitti culturali-religiosi ed agevola il proliferare del fondamentalismo.

L’identità, per essere riconoscibile, necessita di un confronto e questo è possibile solo con un’altra associazione o con un altro individuo, perciò solo la relazione fra uomini definisce innegabilmente l’identità di un singolo o di una comunità. In qualche modo questa potrebbe essere concepita come la ricerca della verità e nel caso dei conflitti religiosi è necessario soppesare l’arricchimento che il credo conferisce agli uomini, una condizione che supera la volontà di potenza.

Le implementazioni dei sistemi d’arma, le ingerenze economiche e la nascita del mercato mondiale, hanno ottenuto il risultato della globalizzazione, ma hanno favorito anche il proliferare di gruppi organizzati che si oppongono a questo viatico. La volontà di potenza non è la globalizzazione intesa come la supremazia delle nazioni tecnologicamente avanzate su quelle in via di sviluppo, ma l’ancestrale desiderio umano di vivere che si è aberrato in un complesso altalenante di relazioni, rapporti e casualità. Questo induce l’essere umano al desiderio di possesso di beni non necessari fino a soffrirne per la mancanza, una componente che conduce al compimento di reprimere una vita interiore ben più serena e di tentare di prevaricare il prossimo nell’affermazione individuale.

In una singolare parallasse, il guerriero islamico e la volontà di potenza finiscono quasi per coincidere declinando la definizione di Gregoire Chamayou: “La politica è la guerra, la guerra è la politica”. Basta infatti sostituire la parola politica con globalizzazione per giustificare l’odio del guerriero islamico e la necessità di primeggiare della volontà di potenza occidentale.

La presa di coscienza di tale condizione, potrebbe essere l’inizio di un viatico per condurre le parti ad un più disteso confronto.

 

Bibliografia:

Don Valerio Bortolini, “Interculturalità e religioni”. Marzo 2007.

O. N. Capoguerra, “Della guerra e dei guerrieri”. La filosofia dell’Uno, 2013.

Alex Barone, “Noi siamo volontà di potenza”. L’intellettuale dissidente, Giugno 2015.

Gregoire Chamayou, “Theorie du drone”. 2014