Breve apologia dell’euroscetticismo (o quasi): risposta all’amico David Rossi

(di Federico Castiglioni)
23/12/18

Prima di affrontare la questione della dicotomia europeismo/euroscetticismo, in Italia e in Europa, una premessa è doverosa. Quando ci si riferisce infatti alle due categorie si deve capire cosa esse significhino politicamente, per non farci intrappolare dalle contraddizioni insite nel linguaggio, sulle quali da sempre la politica fa leva. Quando parliamo di europeismo, con una certa semplificazione, noi descriviamo oggi tutti gli atteggiamenti in qualche modo riconducibili al sostegno di un partito alle istituzioni europee. Il Partito Democratico in Italia, per esempio, è europeista perchè sostiene l’Unione Europea, mentre Salvini è euroscettico perchè ne vorrebbe fare a meno. Allo stesso modo Viktòr Orbàn è euroscettico, perchè è in rotta di collisione con Bruxelles, mentre Macròn è super europeista, tanto da aver inaugurato la sua permanenza all’Eliseo con l’inno alla gioia. Questa visione della demarcazione tra i due schieramenti è, ovviamente, superficiale e imprecisa. Il PD per esempio per anni ha proposto una riforma delle istituzioni europee, concentrandosi sul ruolo del Parlamento, mentre Orbàn si è sempre opposto, dicendo che l’attuale assetto istituzionale attuale è il migliore possibile per l’Europa (si, il migliore possibile). Lo stesso Salvini, che è euroscettico, sta cercando di attenuare il problema immigrazione con una risposta europea, mentre Macròn, da europeista, sembra più propenso a tenere le responsabilità a livello nazionale. Insomma, in gran parte l’alleanza tra gruppi “europeisti” ed “euroscettici” è di convenienza e non rispecchia una reale linea di demarcazione politica che ci permette di prevedere il loro operato. Questa contaddizione è esemplificata dalla Brexit. Mentre per i sovranisti nostrani, come Le Pen e Salvini, questo è un fenomeno assolutamente positivo di riappropriazione dell’identità nazionale, per Farange e molti sostenitori britannici dell’ “hard brexit” l’uscita del Regno Unito è esattamente l’opposto, ossia una spinta maggiore all’internazionalismo e un incentivo a politiche ancora più “neoliberiste”, in opposizione a quelle “stataliste” e troppo sociali di Bruxelles.

Se a questo punto pensate che, tutto sommato, le due categorie siano inestistenti però vi sbagliate; l’unica differenza sta nel riconoscere che la linea di demarcazione tra sostenitori e detrattori del progetto europeo non è fatta solo di razionalità politica, ma di spirito del tempo (Zeitgeist). Negli ultimi anni infatti è successo qualcosa di eccezionale nel panorama internazionale, ossia un vero e proprio risveglio dei “popoli”, che sono passati da soggetto inerte della politica a centro focale dell’attenzione. Questa vera e propria rivoluzione, di cui non si può tenere conto, è chiaramente contro un sistema di valori e di politiche che sono state messe in atto negli ultimi decenni. Queste politiche, che l’Unione Europea ha incoraggiato attivamente, sono quelle della flessibilità del lavoro, dell’internazionalizzazione delle imprese, dell’apertura dei confini ad altri popoli e del contenimento dei bilanci statali. Questo vuol dire quindi che tutti i partiti euroscettici siano allineati in questo mantra mondiale contro la globalizzazione e perseguano attivamente delle politiche chiaramente contro le misure sopra elencate? Assolutamente no. Anzi! Proprio alcuni governi tra i più euroscettici nel continente sono tra i più ardenti sostenitori di queste politiche (andate a parlare al governo austriaco di più spesa pubblica o alla Polonia di sindacalismo!). Quello che li unisce tuttavia è la capacità di intercettare il senso di insicurezza e insoddisfazione che queste misure hanno provocato, declinando le risposte in un modo o nell’altro a seconda della propria situazione interna. Il sovranismo è questo: dare risposte locali ai problemi internazionali. Questa non è assolutamente una contraddizione, ma semplicemente una scelta ben precisa di campo. La conflittualità tra i sovranisti è insita nella loro stessa categoria politica, e basta leggere il Manifesto di Parigi per capirlo.A ben pensarci questa è una conclusione ovvia e non dovrebbe sorprendere: se infatti la rivoluzione in atto è contro l’alleanza transnazionale delle elitè, che prendono delle decisioni sulle teste dei loro popoli, il contrario di questo modello non è che il classico contrasto tra elitè nazionali, che competono per fare da “avvocati” per il proprio Paese a scapito degli altri (la similitudine non è merito del genio dell’autore). Se c’è qualche governo in Europa che consente la precarizzazione del lavoro non saranno gli altri a pagarne le conseguenze, e mettere i dazi e chiudere i confini sembra un ben piccolo prezzo da pagare, soprattutto per i milioni di europei che il confine non l’hanno mai varcato, e per i quali esso rappresenta un baluardo e una difesa, anche psicologica.

Il governo italiano al momento si sta trovando impegnato in questo braccio di ferro con le istituzioni europee, principalmente sulla legge di bilancio che dovrebbe essere varata a breve. La sua eventuale sconfitta sarebbe sicuramente un messaggio poco confortante per la democrazia, perchè dimostrerebbe plasticamente che anche grandi Nazioni, come l’Italia, non sono più totalmente padrone del loro destino e che le loro elitè nazionali hanno in effetti perso quasi ogni potere decisionale. Il discorso per il Regno Unito è più complesso, data la sua storia, ma anche un’uscita disastrosa e recessiva di Londra dall’Unione sarebbe la prova che uscire fuori dall’attuale architettura istituzionale (fatta di soluzioni internazionali a problemi internazionali) è imprescindibile, pena una perdita rilevante di ricchezza e prestigio che difficilmente qualcuno, dopo la recente crisi, può sopportate. Può essere che qualche popolo accetti di correre il rischio e qualche governo di prenderne le responsabilità? I britannici lo stanno facendo, difficilmente, ma con la copertura di una rete finanziaria e politica internazionale che li protegge, estesa dagli Stati Uniti all’Australia. Se loro non riusciranno o pagheranno un prezzo troppo alto, nessun altro li seguirà. Ma se loro dovessero fallire, l’esasperazione di aver perso ogni voce in capitolo sulle decisioni, anche sbagliate (soprattutto quelle sbagliate!), sarà sul lungo periodo snervante per i popoli europei. L’unica speranza di una via d’uscita per la democrazia, se vogliamo paradossalmente, sarebbe quella di iniziare a sviluppare una coscienza politica transnazionale e quindi di riacquistare, a livello europeo, quella sovranità che è stata presa burocraticamente dalla Commissione, dai Capi di Stato e dagli organi giudiziari di Bruxelles e Strasburgo. Ma anche quest’ultima soluzione appare poco probabile. Come si può infatti spingere centinaia di milioni di cittadini che vivono ancora in bolle nazionali (linguistiche, culturali, d’informazione) a fare politica a livello europeo? Come convincere i cittadini che ormai associano l’idea di Europa a quella di regole e assurdità a cercare proprio lì la soluzione dei loro problemi? Ma, ancor più grave, la creazione di tale coscienza politica continentale non sarebbe una vittoria, tutto sommato, proprio degli ultra-europeisti, quelli che vorrebbero creare magari una Federazione Europea? Questo è il vero dilemma che affligge in questo momento le classi politiche europee e di cui è difficile prevedere una soluzione.

1Manifesto degli intellettuali sovranisti, questo è l’articolo di IntellegoBlog, l’unico che abbia dedicato un approfondimento in italiano

(foto: Présidence de la République)