Intervista al gen. Tricarico: Libia, Nato, Russia... I (pochi) meriti e le troppe occasioni mancate dell'Italia

(di Federico Castiglioni)
14/11/17

Il generale Leonardo Tricarico è stato comandante delle forze aeree italiane durante il conflitto in Kosovo (1998-1999) e successivamente consigliere militare della Presidenza del Consiglio. Ha ricoperto l’incarico di capo di stato maggiore dell’aeronautica dal 2004 al 2006. Attualmente è presidente della Fondazione ICSA – Intelligence Culture and Strategic Analysis.

Generale, vorremmo concentrarci su una serie di argomenti di attualità che afferiscono il tema della sicurezza nazionale. Iniziamo con la crisi libica. Il Paese nordafricano è stato scosso dal conflitto del 2011 che ha visto intervenire la Nato contro il regime di Gheddafi. Quali sono le sue impressioni sul ruolo che l’Italia ha avuto sugli avvenimenti e la sua posizione all’interno dell’Alleanza per influenzarne le decisioni?

Purtroppo il governo italiano ha un problema storico, ossia la difficoltà a prendere decisioni in modo coordinato. Nel 2011 Francia e Gran Bretagna, Paesi più strutturati di noi sotto questo punto di vista, sono intervenuti sostenendo le proprie posizioni in maniera più incisiva. Questo è un peccato perché sono assolutamente convinto che, senza la logistica italiana, quella guerra non si faceva: senza le basi italiane e la logistica nazionale tutti gli attori, anche quelli più convinti, si sarebbe certamente ritirati perché i costi sarebbero divenuti troppo alti. Tra l’altro non mi sembra che gli Stati Uniti, per esempio, avessero un interesse particolare ad intervenire in Libia. Anzi, ricordo bene un’occasione in cui il generale Robert Gates in sede di riunione interministeriale Nato si lamentò del fatto che gli Stati Uniti durante la guerra fredda pagassero circa la metà dei costi della Nato, mentre nei primi anni 2000 ne sostenevano i costi per circa il 70%.

Per gli Stati Uniti la Libia non era una priorità, anche perché i costi delle operazioni, ancora un volta, ricadevano principalmente su di loro e non sugli europei. La Casa Bianca era recalcitrante ad intervenire ma si è trovata, quasi senza scelta, perché l’Europa non avrebbe potuto condurre quell’operazione da sola.

Quando sono iniziati i primi interventi, a metà marzo, c’era una tale mancanza di coordinamento tra Paesi europei. Nel settore aereo si presentò la concreta possibilità che ci facessimo male da soli... Solo l’intervento della Nato a fine mese rese possibile alla macchina delle operazioni di procedere in modo ordinato. Purtroppo qui è stato commesso anche un secondo errore, ossia dopo l’intervento Nato ci si è limitati ad aspettare il crollo del regime: è mancato un processo di State building, che passasse per esempio per l’istituzione di un Alto Commissario, sulla scorta di quanto avvenuto per l’ex Jugoslavia. Oggi ci portiamo dietro una conflittualità domestica in Libia sulla quale non siamo intervenuti e che è all’origine del mancato processo di pacificazione.

Tutti si chiedono cosa fare nella situazione attuale. Se dovessi dire oggi dove sta il bandolo della matassa dei problemi libici direi che è la mancanza di occupazione, lavoro e mezzi di sostentamento per tutti quei combattenti per la libertà che all’inizio hanno fronteggiato Gheddafi nella speranza di una Libia migliore ma poi si sono ritrovati senza nulla, neanche i mezzi per sopravvivere, andando ad aggravare le situazioni di instabilità. Prendiamo invece l’esempio positivo dell’UCK in Kosovo: lì i giovani che avevano combattuto per l’indipendenza del Paese sono stati irreggimentati e hanno espresso la classe politica futura del Paese e sono alla base del suo processo di democratizzazione. In Libia si poteva fare qualcosa di molto simile e in verità c’era un progetto, italiano, che tentava di pensare al futuro della Libia e alla costruzione di un nuovo Stato. Un progetto che oggi è ancora attuale e percorribile. Secondo questa proposta tutti i comandi territoriali e locali del Paese si dovevano impegnare nel fornire uomini per la protezione dei confini e questo avrebbe favorito un senso di istituzionalizzazione di queste milizie nel nuovo Stato libico.

Si è saputo che il nuovo governo libico ha "confermato gli impegni precedenti con Finmeccanica (oggi Leonardo) per 300 milioni di euro". Eppure l’accordo originario era di 5 miliardi e non di 300 milioni. Come spiega questa discrepanza?

Su questo occorre fare chiarezza. Il progetto è stato presentato il 17 febbraio 2012 a Benghazi al viceministro della difesa libico, assistito da una commissione tecnica libica e come controparte rappresentanti di Finmeccanica ed alcuni esponenti diplomatici italiani. In quell’occasione fu illustrato un piano di protezione delle frontiere che ha entusiasmato i libici che hanno solo chiesto se fosse possibile eventualmente stornare i 5 miliardi dovuti all’Italia per la costruzione dell’autostrada Benghazi-Tripoli. Chiaramente i diplomatici in loco non avevano l’autorità per rispondere, tuttavia i colloqui devono essere andati a buon fine se a Roma qualche mese dopo fu firmato un memorandum d’intesa tra il governo italiano e la sua controparte libica. Questo memorandum è ancora valido e potrebbe anche rappresentare una best practice italiana se portato a termine, anche perché molti Paesi sub sahariani hanno dimostrato un interesse notevole per quest’idea di armare una forza di controllo dei confini nei loro Paesi.

Per realizzare questo progetto in Libia e quindi forse in altri Paesi serve non solo un attivismo del governo italiano ma anche una governance strategica delle imprese del settore che si occupano di promuovere le eccellenze italiane della Difesa. Purtroppo la realizzazione di questo memorandum è complicata dall’assenza di un interlocutore in Libia che eserciti un effettivo controllo del territorio. Questo rientra in un novero di iniziative che potrebbero essere attuate e che potrebbero vedere l’Italia in un ruolo di leadership. Ad esempio in pochi sanno che sempre Leonardo è un’azienda leader nel settore satellitare e può vantare delle tecnologie che - forse - solo gli statunitensi possono equiparare. Queste eccellenze andrebbero valorizzate.

Questo è vero, anche perché il contesto internazionale è favorevole. L’Unione Europea sta mettendo per esempio l’esigenza di State building in Africa in cima alle sue priorità politiche per il prossimo decennio. L’Italia potrebbe quindi sfruttare anche il framework europeo.

No l’Italia può giocare un ruolo chiaro, se si fa valere in sede europea. Questo non sta avvenendo molto. Ad esempio è stato firmato quest’accordo tra Francia e Germania che già indirizza i nuovi fondi europei per la Difesa verso alcuni progetti a trazione franco-tedesca, come per esempio il famoso caccia di V generazione. Un progetto dal costo sconosciuto e del quale non abbiamo assolutamente bisogno. Servirebbero invece dei progetti seri da finanziare, soprattutto sulla ricerca.

Sono scettico riguardo alla possibilità di iniziare a costruire l’Europa dalla Difesa, mi sembra un volo pindarico dal momento che ancora le politiche estere europee mancano del necessario coordinamento per esprimere una posizione comune sui temi d'attualità. La Libia è stato l’esempio clamoroso, la dimostrazione più evidente di una mancanza di coordinamento europeo da una parte e di una scarsissima efficacia degli eserciti europei divisi dall’altra.

L’Europa della Difesa è una necessità, non un’opzione, ma si deve partire ancora più a monte della Difesa ossia dalla politica estera. Sotto questo punto di vista ben venga questa istituzione di un Alto Rappresentante Europeo per la politica estera europea.

Ha mai conosciuto Gheddafi?

No, non ho mai avuto il piacere, ma ho incontrato una volta alcuni colleghi libici, anche dell’aeronautica, nel corso di una conferenza.

Eppure proprio nel 2011 alcuni di loro sono stati accusati di aver usato l’aeronautica per reprimere il dissenso, ad esempio bombardando i manifestanti che chiedevano le dimissioni del dittatore libico. Lei crede che sia vero?

No, un attimo, in questo caso non è questione di “credere” ma di “sapere”. Ci sono alcuni Paesi che usano responsabilmente le forze aeree tenendo in massimo considerazione la vita dei civili, tra cui l’Italia. Lo posso garantire per esperienza. Ci sono poi Paesi che danno poca o nessuna importanza al rispetto della vita umana nell’uso dello strumento aereo, tra questi rientra per esempio la Russia e senza alcun dubbio la Libia di Gheddafi. Io non conosco i dettagli ma so per certo che la Libia non rispettava le norme internazionali per il rispetto della vita umana.

Ma non è così strano, in realtà anche gli Stati Uniti talvolta si fanno pochi problemi ad usare lo strumento dei bombardamenti. Gli ufficiali americani si fanno un po’ prendere la mano. L’ho visto durante la guerra del Kosovo per esempio.

Se possibile, farei un appello all’Europa, tornando indietro, perché intervenga e risparmi al mondo queste centinaia di migliaia di morti causate da droni e bombardamenti, perché si faccia sentire in sede internazionale per il rispetto della vita umana. La spregiudicatezza con cui sono usati i bombardieri negli ultimi anni ricorda periodi bui della storia, come la seconda guerra mondiale.

In assenza di altre rassicurazioni si potrebbe richiedere come condizione stessa del sostegno europeo il rispetto del codice Nato sui bombardamenti.

Finora abbiamo parlato di minacce asimmetriche, come il contrasto al terrorismo o a movimenti che non rispettano i diritti individuali. Però c’è all’orizzonte una minaccia invece potenzialmente simmetrica: la Russia. Come può l’Europa arginare la questione e prendere le dovute precauzioni?

Sulla Russia partiamo dall’inizio. Dopo la guerra fredda si è aperta una finestra storica in cui la Russia si doveva coinvolgere in un’alleanza più ampia legandola alla Nato. Il governo italiano è stato uno degli artefici di questa politica e ha raggiunto un parziale successo a Pratica di Mare per mano dell’allora governo Berlusconi dopo gli attacchi dell’undici settembre 2001.

A Pratica di mare nacque un foro di discussione Russia-Nato che, però, sin dall’inizio non ha avuto vita facile e oggi sembra fermo. I maggiori responsabili di questo fallimento sono senza dubbio gli Stati Uniti: hanno abusato del ruolo di azionista di maggioranza della Nato per rivolgere questo formidabile strumento verso Putin.

L’Italia tenta di avvertire da tanti anni che il mondo sta cambiando, che sta andando avanti, ma è inascoltata. La Nato è sempre più provocatoria: ad esempio gli europei mandano i loro Eurofighter a proteggere la Bulgaria o i Paesi baltici da un’inesistente aggressione russa, quando in realtà i rischi per l’Europa sono situati sulla sponda sud del Mediterraneo.

La Russia oggi è all’angolo e posta sotto sanzioni. Chiaramente i russi rispondono colpo su colpo e hanno una parte di responsabilità in questa escalation, ma sono sicuro che anche loro sarebbero favorevoli ad un rinnovato tentativo di dialogo.

Bisogna andare incontro alle esigenze russe e tenerle legate all’occidente. Mosca aspira ad avere una base nel Mediterraneo, ad esempio a Benghazi? Vorrei che qualcuno mi spiegasse perché la Russia non ha diritto ad averla, se vuole.

Negli ultimi anni gli Stati Uniti si sono ritirati da alcuni scenari e la Russia sta tentando di riempire questo vuoto. Pensiamo al Medio Oriente... Questo non è necessariamente negativo, se troviamo delle nuove alchimie e degli accordi che tutelino i reciproci interessi.

Servirebbe una Nato europea, perché gli Stati dell’Unione devono poter determinare da soli gli equilibri nel loro vicinato, compresi i rapporti con la Russia. I nostri interessi sono spesso diversi da quelli americani, dobbiamo capirlo.

L’Italia è quella che più ha tentato di costruire ponti con Mosca, ma alla fine si è alleata sempre alla posizione americana. Questo non vuol dire che con la Russia non ci siano problemi. Ci sono questioni indubbiamente spinose, come l’Ucraina, ma anche qui serve uno spirito costruttivo e si devono evitare i fraintendimenti. L’ingresso dell’Ucraina nella Nato ad esempio è una bella e buona provocazione. Putin ha ragione a dire che è un attentato alla loro sicurezza nazionale e nessuno gli può dare torto; stesso discorso vale per il Montenegro. Più la Russia si sentirà minacciata e meno sarà rispettosa dei diritti umani e dell’equilibrio internazionale.

Oggi Putin ha un ottimo rapporto con la Libia dell’est e con l’Egitto, settori strategici anche per l’Italia. Cosa vogliamo fare, percorrere la strada del conflitto? Sarebbe chiaramente una follia. L’Italia, ancora una volta, deve alzare la sua voce, sviluppare una visione strategica come ce l’aveva il governo D’Alema e far nascere un rapporto più maturo con gli Stati Uniti. Sembra troppo silente su molte questioni.

Prendiamo il discorso delle basi Nato in Italia. Il loro utilizzo andrebbe riverificato nei suoi termini contrattuali, perché il principio alla base del loro usufrutto da parte degli Stati Uniti è che queste si possano usare solamente per fini Nato. Tutto il resto dovrebbe essere subordinato al consenso italiano. Attualmente accade l’opposto: praticamente gli americani le considerano basi militari statunitensi in territorio italiano.

Ricordiamo il caso di Sigonella? Penso che sia esplicativo. Quante volte quelle basi sono state utilizzate con fini impropri? Io credo che probabilmente il governo italiano sia tenuto spesso all’oscuro di ciò che fanno gli Stati Uniti in Italia. Pretendere un rapporto più paritario con gli americani non vuol dire allontanarsi dall’alleanza atlantica. Credo che l’Italia debba essere amica degli Stati Uniti, ma che sulla Russia e su altre questioni serva un rapporto tra Roma e Washington ma in generale tra europei ed americani più serio e attento. Il governo italiano ha dalla sua un curriculum di tutto rispetto per attirare l’attenzione americana, non fosse altro per la massiccia presenza italiana in tutte le missioni Nato all’estero. La nostra presenza in Afghanistan per esempio non deve essere incondizionata, ma deve essere critica sia per la nostra posizione all’interno dell’alleanza sia per il rispetto di tutto il regolamento della Nato sui diritti umani.

Anche perché l’Italia paga i costi di questo contributo. Le porto il caso dei soldati italiani impegnati in queste missioni in grande numero e che dopo otto o dieci anni si trovano smobilitati e senza occupazione. Questo è un costo non solo economico ma anche sociale che il nostro Paese paga per le missioni all’estero.

Sì, anche la nostra Fondazione ICSA ha trattato questo tema approfonditamente. Abbiamo organizzato un incontro l’anno scorso per discutere dei costi umani delle missioni militari, a cui hanno partecipato anche i presidenti delle Commissioni Difesa di Camera e Senato.

Un possibile sbocco per questi ex militari credo potrebbe essere quello delle Private security company, i così detti "contractors", per difendere gli asset italiani all’estero. Attualmente dobbiamo affidarci a compagnie di sicurezza inglesi o americane perché le leggi italiane proibiscono di crearle in Italia. Eppure si dovrebbe pensare a come cambiare questa norma, anche per una semplice questione di sicurezza nazionale. Se, diciamo, l’amministratore delegato di Eni si fa accompagnare in qualche Paese da una scorta di una di queste compagnie, lei pensa veramente che non vengano riferiti i suoi spostamenti a dei governi stranieri magari in competizione con noi? Sarebbe ingenuo pensarlo.

È interesse nazionale che gli ex soldati italiani possano difendere i nostri interessi strategici nel mondo. Per far questo serve anche una nuova cultura della Difesa in Italia, che possa cambiare alcuni insensati tabù dovuti ad una cattiva informazione.

(foto: Difesa Online / U.S. DoD / NASA / UK MoD / Aeronautica Militare)