Intervista al colonnello Mennitti, capo missione di MIADIT Palestine

11/09/14

La capacità dell’Arma dei Carabinieri di interagire con realtà internazionali molto complesse è ormai nota e la missione che si è conclusa i primi giorni di Luglio ha confermato questa tendenza. Abbiamo incontrato il colonnello Massimo Mennitti, capo missione di MIADIT Palestine, che ci ha raccontato questa esperienza dei carabinieri in Palestina.

Lei è stato al comando della missione MIADIT Palestine, Missione Addestrativa Italiana in Palestina, partita il 19 Marzo corrente anno e terminata il 2 Luglio dello stesso. Qual è stato lo scopo della missione?

Lo scopo è stato quello di addestrare tutte le forze di polizia palestinesi. A monte, un’attenta fase di pianificazione ci ha consentito di garantire continuità alla missione attraverso la conoscenza e lo studio del lavoro svolto dalle altre forze occidentali che ci hanno preceduto. In particolare, abbiamo sfruttato i punti di forza già esistenti, soprattutto da un punto di vista logistico, concentrando gli sforzi sulla innovazione del metodo addestrativo. Al riguardo, abbiamo compreso sin da subito la necessità di valorizzare non soltanto la preparazione delle quattro forze di polizia singolarmente intese ma anche la effettiva capacità di operare congiuntamente sul campo. E’ così che è nata l’idea di articolare l’addestramento su due fasi: la prima, di 8 settimane, finalizzata a garantire l’interoperabilità e la conoscenza reciproca attraverso il coinvolgimento di giovani sottufficiali ed ufficiali tra i 18 e i 30 anni provenienti dalle 4 forze di polizia; la seconda, di 4 settimane, focalizzata sugli obiettivi addestrativi correlati alle specificità e a i precisi compiti di ciascun organismo. In tal modo abbiamo garantito la futura applicazione di comuni procedure di base nell’ambito delle diverse forze di polizia. .

Quante unità avete addestrato ed in quali settori operativi?

Sono state addestrate 200 unità. L’addestramento è stato incentrato su tutte le attività di gestione dell’ordine e della sicurezza pubblica, del controllo del territorio - compresa l’esecuzione di posti di controllo e posti di blocco - nonché su nozioni basiche di investigazione. Nei confronti di tutte le forze di polizia coinvolte è stata inoltre svolta un’attività addestrativa per la scorta VIP e per l’esecuzione di servizi e arresti in scenari ad alto rischio. I carabinieri hanno addestrato tutte le forze di polizia che sulla base degli accordi di Oslo operano nel settore A: la Guardia Presidenziale, che si occupa della sicurezza del Presidente e della sicurezza delle infrastrutture strategiche; la Polizia Civile, che svolge le attività di polizia amministrativa e giudiziaria sul territorio; la NSF (National Security Forces ndr) nata per i servizi di ordine pubblico e polizia robusta, una sorta di Battaglione mobile; infine, la GMTC (General Military Training Commission ndr), ossia il centro deputato alla formazione di tutte le Forze Palestinesi .

Avete quindi applicato il concetto T3, Train the Trainers?

All’inizio la training unit ha svolto un addestramento generale, poi abbiamo applicato il concetto T3 sulla base di un progetto di lungo periodo che ci consentirà di abilitare come istruttori circa 50 unità, già individuate fra le 200 coinvolte nella formazione di base. Questi poliziotti,qualificati “aiuto istruttore”, nel secondo turno della missione, verranno affiancati ai carabinieri con l’intento di istruire gli allievi. Dopo, al termine del secondo ciclo addestrativo, che finirà prima di Natale, questo personale sarà qualificato istruttore previa una attività formativa dedicata, da svolgere in Italia, secondo aspetti di dettaglio ancora da definire. In futuro, quindi, i carabinieri potranno svolgere le funzioni di tutor nei confronti dei nuovi istruttori i quali, a loro volta - questo è l’obiettivo finale - potranno svolgere direttamente l’attività addestrativa a favore dei propri colleghi, consentendo alla missione MIADIT di evolversi in base alle successive esigenze di specializzazione che verranno individuate di concerto con la controparte.

La missione è il frutto di un accordo tra ministero della Difesa italiano e ministero dell’Interno dell’Autorità Nazionale Palestinese. Qual è stato l’atteggiamento di Israele nei confronti di questa missione?

Sì, la missione è il risultato di un accordo avvenuto tra Italia e ANP, chiaramente con il placet israeliano e sotto egida U.S.S.C. (United States Security Coordinator ndr). L’assetto finale deriva dalla richiesta sia palestinese sia israeliana di limitare il numero degli attori in un teatro in cui si rischia di avere troppi interlocutori e di conseguenza minore coerenza formativa. Le autorità israeliane sono state molto rispettose verso i Carabinieri ed hanno dimostrato fiducia nei nostri confronti. Basti dire che è stata la prima volta che una missione straniera in Palestina viene autorizzata a sparare in un poligono palestinese utilizzando armi e munizioni palestinesi: è la prima volta che succede. Questa grande dimostrazione di fiducia ritengo derivi dall’approccio di grande chiarezza ed apertura che abbiamo avuto sin dall’inizio nei confronti di tutti e dalla eccezionale convergenza di interessi che abbiamo contribuito a valorizzare: addestrando i palestinesi abbiamo infatti consentito anche agli israeliani di poter contare su forze di polizia capaci di controllare il territorio di esclusiva competenza delle autorità palestinesi.

Che tipo di preparazione professionale avete trovato sul posto?

La situazione era molto eterogenea. Il primo compito infatti è stato quello di costruire, nell’ambito di uno stesso organismo di polizia, un linguaggio addestrativo/operativo comune su cui innestare le specificità derivanti dalle diverse funzioni. Gli ufficiali, ad esempio, non hanno un curriculum di studi simile al nostro; hanno alle spalle un’attività formativa molto diversificata con promozioni basate su congiunture e sistemi particolari. D’altro canto, per i gradi più bassi, non sempre è stato possibile contare su un background di base comune. In tale quadro, è stato importante incidere soprattutto sulla capacità di risposta ai problemi concreti attraverso una preparazione aderente alle singole possibili attivazioni e modulata in base ai diversi livelli decisionali e di risposta tecnico - operativa. Questo aspetto, unitamente a quello già evidenziato dell’attività di amalgama, è stato riconosciuto anche da chi ci ha preceduto, in particolare dagli americani, come momento chiave del successo dell’iniziativa italiana.

Chi erano i 30 carabinieri che hanno partecipato alla missione?

Sono militari la cui diversificata professionalità ha consentito di operare in un contesto che, se da una parte non è definibile come teatro operativo puro al pari dell’Afghanistan, dall’altra ha evidenziato tutte le sue criticità con i disordini e le situazioni di conflitto, iniziate nel periodo in cui la missione era dispiegata ed intensificatesi nel corso dell’estate. In tale quadro, la scelta del Comando Generale di inviare personale di provenienza eterogenea, e quindi preparato anche nelle attività di stability policing ma non solo, si è rivelata vincente. Non a caso abbiamo potuto costituire una police training unit ed una tactical training unit per affrontare le diversificate esigenze addestrative. Consideri che nel settore di polizia, a margine delle attività tipiche, abbiamo approfondito gli aspetti relativi alla polizia di prossimità, ai diritti umani, fino ad arrivare al corretto approccio con i cittadini nel controllo del territorio. Con la sezione tactical, poi, ci siamo concentrati su quelle attività più specificamente di “polizia robusta”: scorte, gestione dell’ordine pubblico, arresti pericolosi, attività specifiche di intervento in situazioni di alto rischio.

Ci siamo spinti fino a svolgere regolarmente lezioni sulle questioni di genere, grazie anche alla professionalità di due carabinieri donna esperte nello specifico settore; nella cornice in cui abbiamo operato, refrattaria all’argomento per remore culturali significative, anche questo assume un significato particolare.

Queste forze opereranno solo nella West Bank o anche nella Striscia di Gaza?

Opereranno solo in Cisgiordania perché, quando sono stati decisi i termini della missione, l’accordo tra Hamas e Fatah, raggiunto ad inizio giugno, non era stato ancora definito; poi c’è stato il rapimento dei tre ragazzi israeliani e successivamente la situazione è notoriamente degenerata. Quindi, anche adesso, con la seconda missione che partirà a breve, l’addestramento sarà concentrato sulle forze di polizia che operano in West Bank, mentre, per quanto riguarda la Striscia di Gaza, si faranno successive ipotesi e valutazioni politiche ed internazionali che per ora sono sicuramente premature. E’ chiaro che in un’ottica di medio – lungo periodo non si può escludere che l’attività formativa venga estesa a tutte le forze di polizia palestinesi. Attualmente non c’è nessuna richiesta di questo tipo.

Secondo Lei questa missione può essere considerata come una volontà di pacificare l’intera zona?

In questo momento fare previsioni sull’equilibrio generale in Medio Oriente è molto difficile. L’unica cosa sicura è che, facendo un’attività formativa nei confronti di persone che portano un’uniforme, che sono poliziotti, che sono riconosciuti dalla popolazione come tali, integrando questa formazione con momenti importanti come la polizia di prossimità, il rispetto per le donne, i diritti umani, già si semina bene e si contribuisce indirettamente al processo di pace.

Colonnello Mennitti, oltre a svolgere le attività che ha descritto avete formato anche la Polizia turistica Palestinese. In cosa è consistito questo tipo di addestramento?

Abbiamo svolto tre corsi della durata di un mese ciascuno a favore della polizia turistica portando le capacità dei carabinieri del TPC (Tutela Patrimonio Culturale ndr) a favore, complessivamente, di 45 unità della Polizia Turistica che ha competenza sui siti archeologici. La prima settimana di corso abbiamo fornito nozioni generali di polizia, la seconda è stata incentrata sulle questioni di genere, sui diritti umani e sulla polizia di prossimità proprio per creare una base comune nelle competenze di polizia e nel rapporto con la popolazione civile. Quest’ultimo elemento è stato molto importante per far comprendere che il poliziotto è al servizio del cittadino. Infine, le ultime due settimane sono state dedicate all’attività di investigazione in materia di tutela e recupero di opere d’arte e alle modalità di inserimento delle stesse nei data base internazionali. L’approccio pragmatico che ha caratterizzato l’intero percorso addestrativo ci ha portato a svolgere due visite applicative presso altrettanti siti di Gerico: il palazzo di Hisham, aperto al pubblico, e un sito che è ancora in escavazione per il recupero della antica città di Gerico. Tutto ciò al fine di far capire in che modo proteggere questo prezioso patrimonio culturale.

E’ possibile dire che con questa missione l’Arma dei Carabinieri ha confermato, ancora una volta, il proprio ruolo da protagonista in ambito internazionale?

Diciamo che in ambito internazionale c’è un grande rispetto per la capacità dell’Arma dei Carabinieri di adeguarsi alle diverse necessità, e questo è alla base del concetto di stability policing. L’Arma ha costituito recentemente un centro NATO a Vicenza a fianco del nostro COESPU, proprio perché in risposta all’esigenza sentita in ambito NATO di operare in questa direzione per portare nei diversi scenari operativi destabilizzati la capacità di ricostruzione delle forze di polizia , ciò a garanzia di una più rapida pacificazione. Quasi tutti i Paesi hanno militari o poliziotti militari, pochi però hanno poliziotti in grado di fare attività che spaziano dalla community policing agli arresti pericolosi in aree ad alto rischio. Queste sono caratteristiche tipiche a delle forze di gendarmeria europee e del mondo, che possiedono questa capacità di polizia e militari. La capacità di combinare queste due cose fa si che si possa fare fronte a tutte le realtà operative soprattutto in teatri difficili.

Lei è soddisfatto dei risultati?

Si, sono molto soddisfatto. Fra l’altro, è stato anche un modo per far conoscere ancora di più l’Arma in un teatro in cui i carabinieri già operano. Siamo infatti presenti nella TIPH2 (Temporary International Presence in Hebron ndr) che è una missione di monitoraggio stanziata ad Hebron, fra i coloni ebrei e palestinesi, a seguito dei disordini avvenuti nel 1997. Dopo questa attività siamo ancora più conosciuti in Palestina e la cosa importante è che da entrambe le parti, palestinese ed israeliana, c’è stata grande soddisfazione. Gli israeliani non hanno problemi a farci tornare nuovamente, quindi è un indice di grande fiducia e anche da parte americana c’è stato un grande riconoscimento del nostro operato.

In un’ottica di attenzione alla popolazione civile, abbiamo anche attivato un progetto di legalità nelle scuole attraverso un ciclo di conferenze in cui abbiamo spiegato la sicurezza stradale e insegnato ai poliziotti palestinesi come si conducono le conferenze nelle scuole. Inoltre, grazie al Comune di Alessandria, che è gemellato con Gerico, abbiamo ricevuto giacche catarifrangenti per i bambini e anche nastri adesivi catarifrangenti che sono stati arrotolati intorno alle loro biciclette, garantendo una maggiore sicurezza nell’uso di un mezzo molto usato anche di notte, spesso in assenza di un’adeguata illuminazione stradale. Speriamo, con questo piccolo gesto, di aver contribuito alla diminuzione dei non infrequenti incidenti stradali, anche mortali che vedono coinvolti i bimbi di Gerico.

Per essere stata la prima missione è stato dunque un successo...

Si, è stato un successo. Lo testimonia il fatto che anche in questo momento così delicato non c’è alcun dubbio da parte della Difesa e del ministero degli Affari esteri sulla opportunità di continuare la missione che, infatti, riprenderà dopo il 15 settembre. Siamo pronti a ripartire. E’ stato già scelto un nuovo capo missione che concluderà prima di Natale questo secondo ciclo. Dopo, sulla base della situazione contingente, organizzeremo il corso per istruttori, così da garantire ai palestinesi una maggiore autonomia nelle attività formative e consentire ai Carabinieri di dedicarsi ad aspetti più specifici.

In Palestina l’Arma dei Carabinieri ha dunque contribuito ad innalzare il livello di preparazione in un settore fondamentale come quello della sicurezza. Lo ha fatto con il tipico modo di fare italiano ossia diffondendo oltre che conoscenze tecniche anche valori umani. Probabilmente è proprio questo valore aggiunto che permette all’Italia in generale e all’Arma dei Carabinieri in particolare di essere così apprezzati all’estero.

La missione MIADIT Palestine proseguirà e sicuramente continuerà ad essere un importante elemento volto a contribuire, per quanto possibile, alla costruzione di un ambiente maggiormente sicuro nell’ambito della legalità anche in quei luoghi.

Andrea Strippoli Lanternini