Coronavirus, le sfide del futuro: intervista a un noto imprenditore (che chi ama il calcio conosce benissimo)

(di David Rossi)
20/03/20

Chi si interessa di sport, lo ricorderà senz’altro come presidente e poi più volte numero due della società di calcio ACF Fiorentina. Chi si interessa di economia, se lo rammenta in posizioni dirigenziali in quella che oggi è Sviluppo Italia e nel gruppo Della Valle.

Gino Salica è soprattutto un importante conoscitore del mercato cinese, dove opera come consulente per aziende internazionali da quasi 15 anni. Lo abbiamo sentito per parlare di geopolitica e geoeconomia, con un occhio particolare per la Cina.

Ing. Salica, molti la ricordano come dirigente e primo presidente della rinata Fiorentina. Ma lei è anche un esperto consulente per il mercato cinese. Quale era la situazione per le imprese italiane in Cina allo scoppio della crisi alla fine del 2019?

L’Italia si posiziona al 4° posto tra i paesi europei nell’interscambio commerciale con la Cina, con un volume di affari di circa 45 mld €, con uno squilibrio significativo a favore della Cina. Le aziende italiane presenti nel grande paese asiatico sono circa 1.700 e operano principalmente nei settori tessile, ambiente, agricoltura/meccanizzazione agricola, food, urbanizzazione sostenibile e smart cities, sanità, cultura. In questo contesto si segnala in particolare la forte e capillare presenza dei brand del lusso (Ermenegildo Zegna, Ferragamo, Prada, Tod’s, Gucci, ecc..), punto di riferimento fondamentale per il cittadino cinese delle grandi metropoli, mentre inizia a dare qualche soddisfazione al settore del food & beverage tricolore il grande sforzo commerciale e di marketing in atto ormai da oltre un decennio. Da questi pochi dati emerge una situazione per le imprese italiane in Cina alla fine dello scorso anno che mostra un radicamento consolidato e interessanti prospettive di crescita.

Da molte parti si sono levate lamentele circa la trasparenza, tempestività ed attendibilità delle autorità cinesi nel comunicare al mondo l’epidemia. Sulla base della sua conoscenza della Repubblica popolare, che opinione si è fatto?

È certo che all’inizio ci sia stata una colpevole assenza di trasparenza in merito all’emergenza del coronavirus e la cappa di silenzio imposta ai medici che per primi avevano lanciato l’allarme (a cominciare da Li Wenliang – il medico di Wuhan poi deceduto proprio a causa del Covid-19, v.agenzia) ha rischiato di creare alla Cina grandi problemi in termini di immagine e credibilità.

Quando però si è resa conto dell’entità del problema, la leadership cinese è intervenuta con misure draconiane, isolando addirittura l’intera provincia dell’Hubei (circa 60 mln di abitanti) e restringendo in modo drastico i movimenti su tutto il territorio nazionale. Inoltre ha messo in moto una gigantesca macchina organizzativa che in poche settimane ha realizzato due ospedali completamente dedicati ai malati di Covid-19, è riuscita a riconvertire diverse grandi fabbriche per produrre materiale protettivo, oltre che ventilatori (necessari per le terapie intensive), ha scatenato una gigantesca operazione di acquisto di mascherine, occhiali, guanti e altri materiali per la protezione contro il virus.

Anche in questa drammatica situazione la Cina ha messo in mostra sia l’opacità dei suoi strumenti di informazione e comunicazione ma anche la sua straordinaria capacità ed efficienza nello sviluppare soluzioni infrastrutturali e tecnologiche in tempi rapidissimi.

Che cosa è cambiato dallo scorso gennaio per gli investitori stranieri in Cina?

Non saprei cosa rispondere a questa domanda, anche perché ora è il resto del mondo che è alle prese con questa terribile epidemia e la Cina sta cautamente tornando alla normalità. Siamo ancora in una fase emergenziale.

Le aziende cinesi hanno cominciato a tornare a produrre lo scorso febbraio. La Cina è uscita dalla crisi o, come pare a molti, sta faticosamente tentando di tornare a una certa normalità, sperando che le infezioni di ritorno non accendano nuovi focolai...

Da oltre 30 anni (processo innescato da Deng Xiaoping a fine anni 80) la Cina ci stupisce per il suo straordinario pragmatismo ed il suo modello economico e di Governance politica unico al mondo, che le ha consentito tassi di crescita costanti del 10% l’anno (negli ultimi anni il tasso di crescita si è ridotto ma è sempre molto alto, rispetto all’Europa), portandola ad insidiare gli USA come prima potenza economica mondiale. Nella gestione dell’emergenza causata dal virus, ad eccezione della provincia dell’Hubei, la Cina ha gradualmente riaperto le fabbriche sia per far fronte alla produzione di materiale di protezione contro il virus ma anche per ragioni economiche. Con grande cautela ma con altrettanta determinazione, giorno dopo giorno interi reparti manifatturieri hanno cominciato a riaprire e ora, a 60 giorni circa dallo scoppio dell’epidemia, si può dire che la cosiddetta “fabbrica del mondo” è tornata quasi al 100% della sua capacità produttiva. Ciò detto, però, è lo stesso presidente Xi Jinping che predica grande cautela nel timore delle infezioni di ritorno (ci sono già stati alcuni casi).

Secondo Lei, il governo Conte si è ispirato al modello cinese nel “coping with Cov-19” o ha scelto la politica del “lockdown” autonomamente, puntando sulle specificità italiane?

Cerco di ragionare con logica, pensando che Conte ed il suo staff abbiano seguito con grande attenzione l’evolversi della situazione in Cina e le misure che si stavano adottando nell’Impero di Centro per arginare la diffusione del virus. E quindi credo che quando hanno deciso con le Regioni di creare le prime zone rosse abbiamo preso spunto anche da ciò che era stato fatto in Cina. Ciò detto però l’Italia (e l’Europa) presenta situazioni così diverse rispetto alla Cina sia in termini dimensionali che politici, tali da richiedere necessariamente l’adozione di misure specifiche e progressive. Parlando dell’Italia, io credo però che l’azione rigorosa del Governo abbia peccato di un errore iniziale: la sospensione dei voli da e per la Cina dagli aeroporti italiani. La maggior parte dei flussi da e per la Cina avviene attraverso i grandi hub intercontinentali (Francoforte, Monaco, Parigi, Dubai, Doha, Istanbul, ecc..). Aver impedito ai carrier cinesi di atterrare direttamente a Fiumicino e Malpensa ha creato un’inutile frizione con la Cina e non ha risolto il tema dei flussi di passeggeri in arrivo dall’Asia (e quindi dei controlli su di loro).

Quali saranno nel breve periodo le conseguenze finanziarie e commerciali per le imprese “internationally oriented”?

Molto pesanti, direi drammatiche. Occorre considerare che la Cina – la fabbrica del mondo – è rimasta ferma da metà gennaio (quando si iniziavano a rincorrere voci sul virus, in Cina era scattato il periodo delle festività legate al Capodanno cinese) fino a fine febbraio/inizio marzo. Ora sono i Paesi occidentali a chiudere tutto. Di fatto le imprese che operano principalmente con i mercati esteri da oltre due mesi hanno dovuto drasticamente ridurre, se non azzerare, le proprie attività, con gravi conseguenze sul versante delle forniture e delle scadenze progettuali. Non è difficile immaginare quali possano essere i problemi di liquidità e di continuità di queste aziende. Adesso vediamo in concreto quali misure il Governo italiano e la UE metteranno in campo per contrastare il crollo verticale dell’economia, auspicando che le risorse disponibili siano messe a disposizione del sistema produttivo (ovviamente mi riferisco a tutti i settori) nel più breve tempo possibile.

Secondo Lei, la crisi metterà la parola fine alla guerra commerciale fra Washington e Pechino anche dopo che il coronavirus sarà stato “normalizzato”?

Si tratta di una partita estremamente complessa perché in gioco non ci sono i dazi (se non in minima parte) ma la competizione geo-politica tra le prime due potenze del mondo. La scelta di Trump di innescare la guerra sui dazi con la Cina rientra nel novero dei gesti plateali e dei messaggi del tycoon americano al mondo e ai suoi connazionali. Ma se si mette per un attimo da parte questo tema, l’azione di contenimento della Cina da parte degli USA è stata avviata già da molte altre Amministrazioni americane con modalità strategico-diplomatiche, fatte innanzitutto di alleanze e protezione a paesi che vivono con preoccupazione la vicinanza del colosso asiatico (basti pensare a Giappone, Corea, Vietnam, Filippine, per non parlare di Taiwan); poi anche attraverso il controllo delle risorse energetiche (e non solo), il controllo dei mari e delle rotte commerciali, ecc... In gioco ci sono equilibri tra superpotenze e quindi la guerra dei dazi rappresenta solo una pedina in questa gigantesca partita a scacchi fra titani; e come una qualunque pedina potrà essere usata (o sacrificata) a seconda delle convenienze strategiche o tattiche del momento.

Fra Cina, Europa e USA, chi era più preparato, almeno a guardare adesso, ad affrontare questa crisi?

A ben vedere nessuno era preparato, soprattutto in considerazione della drammatica capacità di contagio di questo virus. Ed in un mondo così globalizzato dove ogni giorno qualche centinaio di grandi aerei trasferiscono persone e cose in ogni parte del globo, è impossibile bloccare all’improvviso tutti i flussi. C’è un’inerzia del sistema globale che, anche con la migliore efficienza possibile, provoca spostamenti e contatti enormi prima che le azioni di contenimento abbiano effetto. E poi i governi devono valutare, sotto grandi e spesso opposte pressioni, le conseguenze economiche (e anche per gli approvvigionamenti essenziali) dei blocchi più o meno totali alla movimentazione delle persone. Insomma, uno scenario devastante, anche psicologicamente, che ha messo a dura prova i governi di quasi tutti i paesi del mondo. Di fronte a questa sfida immensa e senza precedenti, mettersi a stigmatizzare alcuni approcci iniziali apparentemente superficiali rischia di essere al momento un esercizio controproducente.

Io credo che questa epidemia abbia posto in primo piano il fatto che il mondo si è trovato impreparato rispetto alle dimensioni del problema. E questo dovrebbe convincerci sull’esigenza che almeno i sistemi sanitari di tutti i paesi avviino una collaborazione reale, trasparente e costante, con scambio di informazioni, prassi, attrezzature, tecnologie. L’auspicio è che una volta terminata l’emergenza, i naturali egoismi nazionali non tornino a prevalere sugli interessi comuni del mondo intero.

Infine, i paesi occidentali dovranno per forza di cose rimettere in discussione le politiche industriali che negli ultimi decenni hanno comportato la delocalizzazione di ogni tipo di produzione, anche quelle relative alla protezione della salute delle persone. La disperazione di questi giorni per la mancanza di mascherine ed altro materiale fondamentale per coloro che combattono in prima linea la diffusione del contagio (soprattutto, personale medico, infermieri e tutti coloro che svolgono un servizio primario) è una macchia che deve pesare su tutte le nostre coscienze.