L’insostenibile leggerezza della Difesa

(di Marco Bertolini)
18/10/19

In principio fu il deprecatissimo ventennio, che perse la guerra. E poi fu la Repubblica Italiana, che la ripudiò, la guerra. Anche se più avanti si vantò di averne vinta una, la “fredda”, e non con i buoni sentimenti ma con la deterrenza armatissima e nucleare della NATO. Comunque sia, la Difesa c’era sempre, definita come “sacro dovere” in quella che sarebbe la più bella costituzione del mondo, almeno a sentire quel noto costituzionalista che risponde al nome di Roberto Benigni, seppur con un’apparente schizofrenica dicotomia tra articolo 11 e 52 della stessa. Ma non ci si faceva molto caso presi come eravamo dagli obblighi della nostra alleanza contrapposta ad un’alleanza militare comunista, entrambe ben impiantate nel mondo reale che delle nostre fumisterie ideologiche se ne fregava.

Quindi, tutti i ragazzi a 18 anni facevano la visita di leva e a 20 ricevevano la cartolina rosa. Che si chiamava cartolina “precetto”, perché era prescrittiva, un obbligo. Tutti i giovani sapevano, infatti, di essere ufficialmente tenuti a dare qualcosa di importante alla comunità nazionale: un intero anno della loro vita e non una mera dichiarazione di solidarietà o disponibilità per il prossimo da esibire in qualche chiassosa manifestazione scolastica (anzi, anti-scolastica) o in qualche coloratissimo “Pride”. C’era anche, a dire la verità, il gruppone degli illuminati “obiettori di coscienza” che se la sfangava, da non confondere con quei turpi medici che si rifiutano di uccidere i nascituri; ma questa è un’altra storia.

Così, le nostre caserme si riempivano di ragazzotti, raramente recalcitranti, qualche volta svogliati ma sempre incuriositi da quella strana vita in comune nella quale si era tutti vestiti nella stessa maniera, si mangiava la stessa minestra e si sottostava agli stessi insopportabili caporali, sergenti e tenenti. Tutti, in quei mesetti, venivano condizionati a riconoscersi in una comunità, quella della compagnia o del reggimento, depositaria una sua identità che si esprimeva nello “spirito di corpo”, e in quella nazionale, giornalmente salutata con la liturgia laica dell’alzabandiera. Una scuola di democrazia, insomma, cestinata col provvedimento che ha sospeso la coscrizione obbligatoria da parte di una Repubblica di “nati imparati” che crede di sapere già tutto e di non avere bisogno di scuole. Criminalizzata e poi dimenticata! Ne vediamo i frutti nei vezzi e nei frizzi della nostra tatuatissima e disperatissima gioventù. Ma non è neanche di questo che voglio trattare.

La Difesa, appunto. Era uno dei Ministeri chiave del paese, con gli Interni, gli Esteri e l’Economia. Roba da politici a tutto tondo, insomma, tipo Andreotti, Segni e Spadolini, per citare alcuni tra i più noti. Forse non saranno stati tutti statisti nel senso più classico e nobile del termine, ma servitori dello Stato e col senso dello Stato sì. Gente di cultura, che sapeva comprendere un testo in latino e pure in greco (altro che congiuntivi!); che conosceva la nostra storia e i vincoli e le opportunità date al nostro paese dalla sua privilegiata posizione geografica; che sapeva con quali lupi lo stesso avesse a che fare e che non si illudeva sulla larghezza di vedute e sulla bontà d’animo degli altri paesi, democratici o autoritari che fossero. L’Italia continuava ad essere il motivo delle loro azioni politiche, seppur interpretate in maniere differenti a seconda dei rispettivi schieramenti. Ma era l’Italia e non altro che volevano democristiana, comunista, atlantica o europea. L’Italia con le sue originalità da valorizzare o anche solo da tollerare, le sue caratteristiche ben riconoscibili da quelle altrui, coi suoi vizi e le sue virtù, i suoi spaghetti al dente, il suo Festival di San Remo e la sua lingua, la sua popolazione spalmata in un non troppo ampio (non troppo ampio) spettro etnico che sfuma dai polentoni ai terroni. Insomma, l’Italia con la sua cultura, per usare un termine abusato ma che rende l’idea, da tutelare e da proteggere. Non avrebbero mai concepito la sua dissipazione in un insapore brodino euro-africano che non ne rispettasse l’identità e gli interessi vitali; così come non avrebbero mai permesso, tanto per far un esempio, che il realismo cinematografico del dopoguerra, per quanto colpevole di dipingere spesso un “tipo” di Italiano cialtroncello e da macchietta accettato con compiaciuta e colpevole accondiscendenza un po’ da tutti, lasciasse il posto alle fictions odierne che vogliono, con successo, convincere noi e soprattutto i nostri acquirenti esteri che siamo solo la patria della mafia e del malaffare. Roba a buon mercato, quindi; un’occasione da non perdere.

Ma tutto questo è passato e la storia è cambiata, o almeno così qualcuno si era illuso, con la “vittoria” della Guerra Fredda che ci avrebbe dovuto consegnare ad un mondo pacifico e finalmente solidale, che si riconosce nei precetti della democrazia per la quale tutte le idee sono lecite, purchè non contraddicano i miti obbligatori del corrente dibattito fanta-politico. Un mondo che doveva confermare la ragione delle nostre scelte costituzionali, quindi, dimostrandosi estraneo alle ideologie belliciste del passato che avevano innescato moltissime dolorose guerre. Ora le guerre non avrebbero potuto esserci più e di fronte all’umiliazione di un presente che si rifiutava di inchinarsi alle nostre intuizioni costituzionali - riproponendoci anzi scannamenti a giro d’orizzonte come non mai - ecco l’invenzione semantica che salva capra e cavoli: a noi sono solo richieste operazioni di pace, umanitarie o di polizia internazionale.

Ecco, appunto: guardie e ladri! E in quanto a polizia a noi non ci frega nessuno, come noto grazie alle serie del Commissario Montalbano e del Maresciallo Rocca, e non abbiamo bisogno di ricorrere alla sgradevolissima categoria del soldato; quando poi è a quest’ultimo che si deve fare obbligatoriamente ricorso per non sfigurare con gli alleati che ce lo chiedono o per dare più sostanza alle misure di controllo del territorio, lo si camuffa da poliziotto, e chi s’è visto s’è visto.

Purtroppo, però, per quanto le Forze di Polizia rappresentino una delle colonne portanti della nostra società, non sono confrontabili con le Forze Armate, per ragioni di carattere concettuale e strutturale.

A differenza delle seconde, infatti, le prime sono essenziali “strumenti di sicurezza” rivolti però ad un nemico interno, la criminalità, alla quale si contrappongono in punta di diritto in una lotta che vede chiaramente contrapposti i “buoni” (lo Stato) contro i “cattivi” (il malaffare, il terrorismo, la Mafia e via dicendo). Una lotta che non prevede una sua conclusione con un accordo tra Stato e cosca dei Casalesi (almeno alla luce del Sole) e che terminerà solo con la completa distruzione e restrizione in carcere di quest’ultima. Insomma, una lotta con finalità punitive, oltre che operative, che potrà concludersi solo col trionfo del “bene”.

Le Forze Armate, invece, sono “strumenti di sovranità” in quanto volte a fronteggiare un nemico esterno i cui interessi incidano coi nostri. Una lotta, in questo caso, tra “buoni” non potendosi negare agli altri Stati il diritto di battersi per i propri interessi anche se contrari alle nostre leggi, e addirittura a quelle internazionali, soprattutto se riferiti alla sopravvivenza ed alla sicurezza. In questo caso, la fine del confronto a cui si tende è l’accordo, la tregua, il trattato nel quale, fatta valere la propria superiorità materiale, si costringe il nemico al “tavolo della pace”, con qualche privazione, amputazione e umiliazione, ma senza la necessità di “distruggerlo”. Insomma, almeno a livello di principi, nessuna velleità punitiva nei suoi confronti, anche se questo approccio si è radicalmente modificato dalla seconda guerra mondiale col processo di Norimberga e col successivo Tribunale dell’Aja; ma soprattutto con la comparsa di attori internazionali non statali come le organizzazioni terroristiche e i movimenti di liberazione vari, per lo più di matrice jihadista, che non possono rientrare nella casistica del “legittimo combattente”. Si potrebbe disquisire a lungo sul fatto se tali comportamenti rappresentino una forma di imbarbarimento o se sono una logica conseguenza della globalizzazione, ma è certo che l’etica del soldato dovrebbe continuare a riconoscere al nemico sconfitto e magari catturato una dignità del tutto diversa e superiore a quella del criminale incarcerato.

Ovvia conseguenza di questa differente impostazione concettuale si riflette sotto il profilo operativo vero e proprio, con le Forze Armate dotate di mezzi decisamente più micidiali di quelli in dotazione alle Forze di Polizia, dovendosi contrapporre ad altre Forze Armate o a organizzazioni come esse stesse strutturate. Soprattutto, le Forze Armate devono per questa loro natura ammettere un tasso di rischio decisamente superiore, fino ad accettare la perdita della vita non come “accidente” dovuto alla sfortuna o al caso, ma come ovvia conseguenza della loro attività “professionale”. Per esse, insomma, le armi non sono semplicemente un mezzo di autodifesa, o da utilizzare quale “estrema ratio” se proprio tirate per i capelli, ed impiegano il fuoco come mezzo ordinario di assolvimento della missione, assieme al movimento e alla fortificazione. Non rispondono al fuoco di nessuno, insomma e, se hanno fatto le cose per bene, “sparano” per prime.

Anche sotto il profilo organizzativo ed ordinativo, Forze dell’Ordine e Forze Armate si presentano come qualcosa di assolutamente differente, come dimostra proprio l’esempio italiano, peraltro sovrapponibile a quello di tutti i paesi occidentali.

Se osserviamo l’organizzazione delle Forze di Polizia, infatti, notiamo che le stesse fanno capo per il coordinamento – con una significativa differenza per i Carabinieri – alle Questure a loro volta abbinate ai Prefetti. In sostanza, ogni Provincia ha una sua “dotazione” di Forze dell’Ordine nelle mani del Prefetto stesso che le impiega per le esigenze che gli si prospettano nel territorio. A monte di questo, si sale direttamente al Viminale nel quale per far fronte ad esigenze particolari si riunisce un Gabinetto “di crisi” retto dal Ministro dell’Interno stesso. Un Gabinetto, appunto, non uno Stato Maggiore con la complessità e le specializzazioni che sono caratteristiche a quest’ultimo. In caso di conflitti di attribuzioni tra Prefetture diverse, quindi, è il Ministero stesso a dover intervenire, mancando una struttura gerarchica sottostante che consenta una cascata di competenze e responsabilità tra questo e il livello locale.

Una simile organizzazione, logica e razionale per impegni di Ordine Pubblico, non è accettabile per le Forze Armate, caratterizzate invece da una struttura gerarchica che si basa sul “dovere della subordinazione” di ogni operatore già nei confronti del livello immediatamente sovraordinato. Così facendo, una volta ricevuta la missione, la Forza Armata è in condizioni di operare autonomamente, disseminando compiti ai livelli subordinati, assegnando le risorse, esercitando il controllo sugli ordini emanati, prendendo le iniziative necessarie e risolvendo i conflitti tra componenti diverse.

Per esemplificare, seppur con una certa dose di approssimazione, potremmo dire che le Forze dell’Ordine sono un contenitore di organi e di operatori con un limitato grado di gerarchizzazione e complessità, direttamente nelle mani dell’autorità politico-istituzionale per la condotta di operazioni di carattere specialistico; le Forze Armate invece, sono un insieme gerarchizzato di strutture gerarchiche complesse, finalizzate alla concezione, organizzazione e condotta di operazioni che spaziano dal livello tattico a quello operativo e strategico, senza coinvolgere il livello politico se non nella fase iniziale dell’assegnazione della missione e della definizione degli obiettivi finali, il cosiddetto “End state”.

Bella teoria, che nella realtà italiana viene peraltro stravolta da una prassi che vede nell’affermazione superficiale di una sostanziale identità tra soldato e poliziotto la motivazione per la smilitarizzazione del primo. E questo, per assicurargli “i diritti” del secondo, già orbato della figura dei Comandanti scomparsi con la smilitarizzazione degli anni ‘70, ingessato da una assurda legge contro la tortura finalizzata a criminalizzarne i comportamenti e in attesa di essere disarmato completamente e condizionarlo alla “non-violenza” da parte di una classe politica imbelle e di una Patria che sembra non voler più essere tale. E chissenefrega della realtà!

Lo vediamo tutti i giorni con migliaia di soldati impiegati come piantoni nell’operazione Strade Sicure con funzioni molto limitate e senza che sia richiesta alcuna attività concettuale ai quadri. Pseudo agenti di pubblica sicurezza per allungare il brodo degli agenti di PS veri, sottraendo tempo e risorse all’addestramento del quale avranno bisogno quando dovessero essere impiegati in operazioni. E con l’aria che tira non c’è da illudersi su un futuro di “peace and love forever”!

Lo vediamo col trionfo della cultura dell’antinfortunistica, in addestramento ma anche in operazioni, abbracciata con decisione dagli Stati Maggiori stessi, costretti alla fuga dalle responsabilità e impegnati a legare le mani ai propri Comandanti, inchiodandoli alla paradossale funzione di datori di lavoro e non di cercatori di grane per sè e per il proprio personale per metterlo in grado di sopravvivere quando si farà sul serio. La recentissima e paradossale condanna civile del Generale Stano per la strage di Nassiriya, d’altronde, dimostra chiaramente come lo Stato abbandoni le sue Forze Armate all’offensiva di un assurdo dal quale è umano cercare di difendersi.

Lo vediamo, infine, con la spinta alla sindacalizzazione che ha già mostrato il suo vero volto con riprovevoli manifestazioni che non molto tempo fa si sarebbero definite di insubordinazione, minando alla base le fondamenta disciplinari di un’istituzione che non può basarsi sul consenso, ma che ha nel principio di autorità e nell’etica dell’obbedienza il suo irrinunciabile asse portante.

Foto: presidenza del consiglio dei ministri / Archivio Andreotti / ministero della Difesa / U.S. Marine Corps / U.S. DoD