Libia: perché il mondo ci tratta come una “Repubblica delle banane”?

(di Andrea Cucco)
01/08/20

L’agenzia LaPresse ha ripreso ieri una dichiarazione del capogruppo di Forza Italia in Commissione Esteri, il senatore Enrico Aimi.

Ieri pomeriggio (30 luglio, ndd) un aereo militare italiano, un Hercules C-130 proveniente da Pisa con 40 militari a bordo, chiamati a svolgere operazioni di supporto in loco, è atterrato a Misurata alle 17.30. Ad alcuni militari del Celio e della Brigata Julia è stata però negata l’autorizzazione allo sbarco da parte delle autorità libiche, perché mancava sul loro passaporto il visto d’ingresso. Un caso di “respingimento” senza scrupoli, ridicolo e al tempo stesso umiliante per loro e per noi. Rimandati a casa dopo poche ore, con lo stesso aereo, nuovamente verso Pisa. La notizia ha dell’incredibile e dimostra che a livello internazionale il nostro Paese non conta più nulla. Proviamo ad immaginare cosa sarebbe accaduto se un “incidente” di questo tipo avesse coinvolto i Marines Americani giunti in un qualsiasi Paese amico. Mentre infatti in Italia arrivano dalle stesse coste a ritmo sempre più serrato migliaia di clandestini che finiscono per finanziare i trafficanti di uomini, dalla Libia ci impongono di ritornare da dove siamo venuti. È vergognoso che in ambito internazionale non ci sia più dovuto il rispetto. Ora si prendono pure gioco di noi. Se avessimo un briciolo di dignità dovremmo incominciare a contrastare l’arrivo dei clandestini, peraltro non solo privi di visto, ma anche di documenti d’identità. Questo gesto irride l’Italia e legittima il mondo a trattarci come una “Repubblica delle Banane”. Presenterò un'interrogazione ai ministri competenti per chiedere chiarimenti. Il governo ha il dovere di dare immediatamente delle spiegazioni su questa vicenda inaccettabile.

Le dure parole del senatore Aimi possono sembrare ineccepibili e giustificate, tuttavia, nel chiedere chiarimenti, speriamo riconsideri alcune valutazioni espresse “a caldo”. Questo per i seguenti motivi:

  1. l’umiliazione dei nostri militari in Libia prosegue ininterrotta da anni e non ha di certo bisogno di questo ennesimo episodio per essere evidenziata;

  2. il nostro Paese conta meno che nulla sul piano internazionale da decenni, non da ora;

  3. non bisogna scomodare i Marines americani, basta considerare un qualsiasi soldato turco per capire quale figura minacciosa appaia nella mente di un misuratino nel momento in cui vuole mettere alla prova uno straniero;

  4. i libici sono gli ultimi di una lunghissima lista a “prendersi gioco di noi”, solo che facciamo sempre finta di non vederlo e a casa raccontiamo le solite supercazzole;

  5. i clandestini arrivano in quanto core-business e strumento di ricatto della fazione libica che abbiamo scelto, quella di Tripoli, non per caso;

  6. è davvero sicuro di voler scatenare le temibili rappresaglie governative da parte del presidente del consiglio o del ministro degli esteri per lavare l’onta?

A nostro avviso i militari hanno fatto bene a farsi prendere in giro ed a tornare a Pisa. Il plauso va dunque ai responsabili in Libia: il generale Fronda (comandante della Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia) ed al colonnello Tinelli (comandante della Task Force Ippocrate). Il giorno che avremo politici al governo che hanno a cuore la pace e non un’interminabile agonia da osservare inermi o – peggio – complici, allora potranno essere soldati ed aiutare seriamente a terminare il conflitto. Per ora non è il caso di assumere decisioni "mascoline" che potrebbero peraltro comportare pugnalate (per non dire altro...) alle spalle.

Come mi disse durante un’intervista l’ambasciatore afghano a Roma nove anni addietro: “la guerra è abuso, violenza e prevaricazione. La cosa migliore che si possa fare è vincerla. Per farla cessare!”. Noi in Libia non combattiamo, non vediamo e probabilmente non capiamo nemmeno quello che accade. E così facendo ci comportiamo paradossalmente da guerrafondai.

Forse è ora che qualcuno abbia il coraggio di ammettere la risposta più onesta e banale al solito quesito: perché il mondo ci tratta come una “Repubblica delle banane”?

Foto: ministero della difesa / Twitter