La morte dei nostri connazionali in Congo: di chi sono le responsabilità?

(di Tiziano Ciocchetti)
25/02/21

Le morti cruente dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci aprono la delicata questione su come vengano gestite le sedi diplomatiche, dal punto di vista della sicurezza di tutto il personale, da parte della Farnesina soprattutto in paesi ad alto rischio.

Innanzi tutto, dobbiamo dare un quadro – per quanto sintetico – della situazione nella Repubblica Democratica del Congo.

Il Paese posto al centro del continente africano rappresenta il più grande fallimento della politica colonialista occidentale, nonché l’esempio di come l’imposizione di confini artificiali possa dare vita ad una entità statuale debole e frammentata, vessata dalla guerra civile, e la cui ricchezza di minerali preziosi ne fa una preda di qualsiasi nazione industrializzata.

Il Congo è la zona di guerra più trascurata del mondo (il conflitto scoppiato nel 1997 ha causato fino a ora più di 6 milioni di morti, per malattie e denutrizione). Il suo vasto territorio contiene una popolazione di circa 75 milioni di persone tuttavia, data la situazione, non è facile fare censimenti precisi. La popolazione è divisa in più di 200 gruppi etnici (quello più numeroso si chiama Bantu), la lingua più diffusa è il francese retaggio della dominazione belga durata più di mezzo secolo (1908-1960). Quando i sudditi di re Leopoldo abbandonarono il Congo, si lasciarono dietro un Paese con pochissime infrastrutture e difficilmente unificabile sotto un’unica guida politica.

Il conflitto civile, ovviamente, scoppiò quasi subito venendo poi incastonato nel più grande quadro strategico della Guerra Fredda. Infatti, il governo centrale di Kinshasa appoggiava i ribelli dell’Angola (UNITA), guadagnandosi così il sostegno di Washington, che appoggiava i ribelli anti comunisti in lotta contro il gruppo filo-sovietico (MPLA) angolano. Le due Superpotenze fornivano equipaggiamenti e armamenti agli insorti.

Terminata la Guerra Fredda le Potenze persero interesse per quello che allora si chiamava Zaire, diventando ancora più instabile anche se riusciva a rimanere in piedi grazie alle immense risorse naturali: il suo sottosuolo è ricco di cobalto, oro, diamanti, zinco, carbone ma soprattutto il coltan (v.articolo), che serve per costruire gli smartphone.

Quindi, visto che il Congo è così ricco di risorse tutti ne vogliono una parte, con qualunque mezzo.

Il Congo confina con nove stati, i quali hanno contribuito in varia misura a destabilizzarlo: la guerra del Congo, infatti, viene chiamata la “Prima Guerra Mondiale Africana”.

La più sanguinosa è sicuramente quella del Rwanda, innescata dallo sterminio di massa dei tutsi, da parte dell’etnia hutu, nel 1994. Dopo il genocidio i tutsi superstiti e gli hutu moderati formarono un governo, con a capo i primi. Gli estremisti hutu, invece, si rifugiarono nella regione orientale del Congo ma continuarono ad effettuare attacchi lungo la linea di confine e, insieme alle forze regolari congolesi, cominciarono anche a sterminare anche i tutsi del Congo. L’invasione successiva degli eserciti ruandese, eritreo, ugandese e del Burundi rovesciò il governo di Kinshasa, giungendo poi a controllare gran parte delle ricchezze del Paese (il Rwanda si impossessò di centinaia di tonnellate di coltan).

Tuttavia le truppe governative non si arresero e, con l’ulteriore coinvolgimento della Namibia, dello Zimbabwe e dell’Angola, il territorio congolese venne trasformato in un immenso campo di battaglia, con più di venti fazioni impegnate nei combattimenti.

Attualmente il territorio congolese vede attiva la più importante missione di peacekeeping dell’ONU, denominata MONUSCO. Tale missione ha lo scopo di tenere le fazioni separate visto che ormai una riunificazione sotto un potere centrale appare impossibile.

Arriviamo quindi alla giornata del 22 febbraio allorquando l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo Luca Attanasio, insieme alla sua scorta costituita dal carabiniere Vittorio Iacovacci, vengono uccisi in un agguato mentre viaggiavano all’interno di un convoglio del World Food Programme, sulla strada chiamata Kamango Road, che parte da Goma.

L’operatore Iacovacci faceva parte del 13° reggimento cc Friuli Venezia Giulia, della 2° brigata mobile. Il personale di questo reparto - insieme a quello del 7° - negli ultimi anni affianca il 1° reggimento carabinieri paracadutisti Tuscania nelle attività di scorta, anche in sedi diplomatiche ad alto rischio (come ad esempio quelle di Tripoli e Baghdad).

Quindi, nonostante il Ministero degli Esteri consideri – dalle informazioni in nostro possesso - la Repubblica Democratica del Congo ad un livello 3 su 4 (quindi a rischio medio/alto) di pericolosità, come mai la scorta di Attanasio era composta da un solo operatore, mentre avrebbe dovuto essere integrata anche da altri elementi, magari appartenenti al Tuscania?

Per quanto concerne la mancanza di veicoli blindati, nell’audizione in Parlamento di oggi il ministro degli Esteri Di Maio ha detto che la responsabilità della sicurezza dell’ambasciatore era dell’organizzazione umanitaria che lo stavano accompagnando e che la delegazione italiana a Kinshasa disponeva di due auto blindate.

Goma non poteva essere raggiunta via terra, in quanto ritenuto troppo pericoloso. L’ambasciatore, quindi, doveva salire su un aereo per giungere a destinazione. Per arrivare a prendere questo aereo si sarebbe dovuto muovere a bordo di un’auto protetta, visto l’elevato rischio che si corre a percorrere quella strada. Attanasio è stato descritto come persona attenta e non avvezza a correre rischi inutili. Qualora le forze congolesi non avessero potuto fornire un’adeguata protezione, il protocollo di sicurezza prevede appunto l’utilizzo di veicoli, assegnati alla sede diplomatica, adeguatamente protetti.

È indubbio che il livello di sicurezza della nostra ambasciata a Kinshasa si è notevolmente ridotto nel corso degli ultimi anni, a causa dei tagli alla spesa per la protezione delle ambasciate in paesi ritenuti di non primario interesse economico per l’Italia.

In pratica Attanasio si trovava a dover operare in un paese in preda ai disordini ormai da due decenni, pieno di bande armate fuori controllo, con solo due carabinieri (mentre meno di dieci anni fa avrebbe potuto avvalersi di 8 operatori del Tuscania) addetti alla sua sicurezza. Nella circostanza specifica, il viaggio dell’ambasciatore italiano, dalla partenza all’arrivo, doveva comunque essere predisposto dal dispositivo di protezione della sede diplomatica, che include anche la cellula dei servizi segreti (AISE), che tuttavia, inspiegabilmente, opera dalla sede diplomatica in Angola.

In conclusione, scaricare le responsabilità delle due morti italiane sull’organizzazione umanitaria appare quanto mai pretestuoso. Tanto è vero che nel 2019 Attanasio aveva chiesto alla Farnesina di raddoppiare la propria scorta (da due a quattro carabinieri), richiesta a quanto pare caduta nel vuoto, non si capisce se a causa di tagli economici o per incapacità di comprendere la reale situazione sul terreno.

Se Attanasio fosse stato scortato da un numero maggiore di operatori (magari del Tuscania), forse sarebbe morto lo stesso oppure, esanimi a terra, ci sarebbero stati gli assalitori.

Foto: Camera dei deputati / web / MONUSCO / autore