I numeri “a casaccio” delle percentuali del PIL per la Difesa

(di Antonio Li Gobbi)
19/02/25

In questi giorni tutti parlano di percentuali del PIL da dedicare alla difesa. Gli USA chiedono il 5%, c’è chi propone il 3%, senza finora aver neanche speso il 2%. Ma ha senso o sono numeri buttati lì a casaccio?

Da anni ci viene ripetuto il ritornello che “la NATO vuole che venga dedicato il 2% del PIL alle spese per la difesa”. Intanto, ricordiamoci che l’impegno a portare la spesa per la difesa al 2% del PIL entro il 2024 era stato assunto dal presidente del consiglio pro-tempore, Matteo Renzi, nell’ambito del Summit dei capi di Stato e di Governo NATO del 2014 a Cardiff. Tale impegno collettivo da parte dei paesi europei era stato fortemente voluto (termine soft, direi “quasi imposto”) dall’amministrazione Obama.

Ritengo utile ricordare che l’aspetto forse più pregnante (o forse l’unico veramente significativo) del citato impegno assunto nel 2014 in ambito NATO è che almeno il 20% della spesa per la difesa (ovvero almeno il 4 per mille del PIL) entro il 2024 doveva essere dedicato a “defence spending on major new equipment, including related research & development” ovvero all’innovazione nel settore della difesa (riferimento Wales Summit Declaration, art. 14), punto che non mi pare abbia finora ricevuto la dovuta attenzione.

Ora Trump chiede che i suoi Alleati NATO elevino la percentuale di PIL da dedicare alla difesa al 5% del PIL (ripeto, lo chiede agli alleati, ma non pare aver alcuna intenzione di farlo fare agli USA, che dedicano alla difesa circa il 3,8% del loro PIL).

Di tutta risposta Rutte e Von der Leyen, intimoriti come monelli beccati a rubare la marmellata, si impegnano a garantire il 3%. Peraltro, non posso non chiedermi con quale autorità, dal momento che nessuno dei due ha autorità sui bilanci statali dei paesi membri delle Organizzazioni che essi rappresentano (ovvero la NATO e la UE).

L’impressione spiacevole è che tali numeri vengano lanciati quasi a caso, come se si stesse mercanteggiando sulla spiaggia con il “vu compra” che tenta di venderti la borsa contraffatta.

Chiaro che, da militare, ho sempre ritenuto che la difesa fosse una cosa seria e richiedesse impegni di spesa conseguenti. Peraltro, ho anche sempre ritenuto che prima di definire quante risorse finanziarie dedicare alla difesa (come a qualunque altro settore pubblico) occorresse avere chiari gli obiettivi e le priorità che ci si fissava. Proprio in quanto militare, ho sempre avuto più di un sospetto quando sentivo parlare di “aumentare” le spese per la difesa, senza però chiaramente definire gli obiettivi operativi che si volevano perseguire. Né sentivo parlare contemporaneamente di “migliorare e razionalizzare” tali spese.

Personalmente, ritengo che il problema oltre che nella “quantità” della spesa risieda nella “qualità” di tale spesa.

Il problema è complesso e ritengo che non possa essere affrontato solo fissando i numeri delle percentuali del PIL da dedicare alla difesa o definendo la percentuale del bilancio della difesa da destinare all’ammodernamento e all’acquisizione di armamenti.

Il problema andrebbe affrontato su diversi livelli (NATO, UE e nazionale)

Incominciamo dal livello NATO, mi lascia abbastanza perplesso fissare delle cifre riferite ai PIL dei singoli paesi senza aver precedentemente definito cosa esattamente l’Alleanza richiede a quei paesi per far fronte a minacce ed esigenze operative condivise. Ribadisco “condivise”, perché può aver poco senso definire percentuali di spesa senza vincolarle a obiettivi di interesse di questa Alleanza (dato che più di un paese può legittimamente avere interessi strategici puramente nazionali che esulano dagli interessi comuni dell’Alleanza). Di quanto spendono gli USA per i loro interessi strategici globali (ad esempio a favore della Corea del Sud o di Taiwan) o di quanto spendeva la Francia nei paesi del Sahel non sempre e non tutto potrebbe essere di interesse della NATO.

Anche per prevenire inutili duplicazioni di assetti tra i singoli paesi, più utile potrebbe essere definire le capacità operative (in campo nucleare, terrestre, navale, aereo, cyber e dello spazio) che singoli Alleati o gruppi di Alleati debbano essere in grado di rendere disponibile per esigenze NATO, anziché preoccuparsi di quanto questi paesi spendano.

È tragicamente vero che molti paesi europei (tra cui Italia e Germania), convinti di vivere in un mondo pacifico, hanno da decenni ritenuto “soldi buttati via” quelli dedicati alla difesa e dovranno ora dedicare a questo settore più risorse di quanto non abbiano fatto sinora. È, però, altrettanto vero che le richieste USA in merito alle spese per la difesa dei paesi europei più che mirare al raggiungimento di una autonomia militare del pilastro europeo della NATO mirano a obbligare gli alleati a rivolgersi per gli acquisti all’industria per la difesa a stelle e strisce.

Al livello UE, l’invito di JD Vance agi alleati a essere in grado di “cavarsela da soli” dovrebbe essere preso al balzo per tentare di attribuire un’essenza credibile alla politica estera dell’Unione e a rinforzare la propria struttura militare. Per rinforzare la capacità militare UE potrebbe essere necessario mettere in soffitta il vincolo (voluto dagli USA) di evitare duplicazioni NATO-UE. Perché solo creandosi una struttura di comando UE analoga a quella NATO (e all’esigenza integrabile in quella NATO) l’UE potrà acquisire reale capacità operativa autonoma. E ciò costa!

Si tenga conto che altre soluzioni organizzative, tendenti a evitare eventuali duplicazioni, come ventilato dagli Accordi NATO-UE “Berlin Plus”del 16 dicembre 2002, non hanno in realtà funzionato (anche per l’ostilità di alcuni paesi NATO non UE).

Comunque, anche lUE prima di ipotizzare percentuali del PIL da dedicare alla difesa dovrebbe forse fissare chiaramente i propri obiettivi strategici. Per farlo dovrà tener conto delle esigenze sulla sua frontiera orientale con la Russia (stante la chiara indicazione che in futuro gli Usa potrebbero disinteressarsene) ma anche della sua frontiera meridionale (di cui da tempo gli USA sono disinteressati), quella del Medio Oriente e del Nord Africa, dove terrorismo islamista, ingerenze russe e cinesi costituiscono una minaccia troppo a lungo sottovalutata. Sulla base dell’individuazione di tali esigenze l’UE dovrebbe definire quali capacità operative i paesi membri debbano essere in grado di fornire (capacità che ovviamente saranno le stesse che tali paesi forniscono alla NATO). Analisi questa che non risulta essere stata fatta.

Soprattutto, però, l’UE dovrebbe occuparsi di politica industriale in modo da garantire non solo la standardizzazione dei sistemi d’arma tra i singoli paesi ma, ove possibile, la loro identità. Ovvero che le FA. dei paesi UE rinnovino i propri arsenali adottando le stesse tipologie di armamenti, di navi e di aeromobili, tutti possibilmente realizzati grazie a cooperazioni industriali europee.

Ciò, però, non è quanto vogliono gli USA, ma neanche ciò che vogliono i singoli paesi membri, che tendono a salvaguardare gli interessi delle proprie aziende più che la funzionalità dei rispettivi strumenti militari.

Infine, tutti sembrano contenti dell’intendimento della presidente Von der Leyen di svincolare le spese per la difesa (presumo che si tratti soltanto dell’aliquota relativa alle spese di ricerca e ammodernamento) dai paletti del Patto di Stabilità. Personalmente, mi sembra una dichiarazione da campagna elettorale, per tenere buoni tutti (gli USA da un lato e paesi come l’Italia, con grossi problemi di indebitamento e che, a malapena, destina circa 1,5% alla difesa). Mi chiedo, però, cosa risponderà la presidente Von der Leyen a quelle forze politiche (magari non entusiaste per le spese per la difesa) che chiederanno di svincolare dai paletti del Patto di Stabilità le spese per la sanità pubblica o per l’istruzione o per la transizione energetica.

Venendo all’Italia, troppe volte da noi la spese per la difesa sono divenute un utile contenitore cui attingere per far fronte a esigenze che poco o nulla avevano con l’elevazione delle capacità operative dello strumento militare. Già nel 1930 Mussolini sollecitava al Ministro della Guerra Pietro Gazzera “un programma di lavori … dico lavori, non armamenti o dotazioni, …. in modo da occupare una quantità notevole di mano d’opera”1. Le condizioni decisamente inadeguate con cui i nostri soldati hanno affrontato il secondo conflitto mondiale sono il frutto anche di una tale mentalità!

In Italia dal 1945 a oggi, troppo spesso la politica di acquisizione di sistemi d‘arma, mezzi ed equipaggiamenti è stata dettata più dall’esigenza di far lavorare alcuni settori dell’industria nazionale in sofferenza che dalle esigenze operative delle F.A. (giungendo anche talvolta all’acquisizione sistemi o mezzi progettati inizialmente per l’esportazione che però non avevano trovato sufficiente gradimento da parte del mercato estero).

Occorre anche tener presente che in Italia grava sulla Difesa parte consistente delle spese per l’Arma dei Carabinieri, che assolve quasi esclusivamente funzioni di polizia (a parte essenzialmente alcuni contingenti di MSU impegnati in operazioni esterne). Inoltre, per oltre trent’anni, ovvero sin dal 1992 (operazione “vespri Siciliani”), forze non indifferenti dell’esercito sono impegnate in funzioni di supporto alle forze di polizia (attualmente operazione “Strade Sicure”).

Quindi, a livello NATO, UE e nazionale, il punto non è solo “quanto” si spende per il comparto difesa bensì avere le idee chiare in merito a “per che cosa si spende” e ciò presuppone avere idee chiare su quali siano le minacce e su chi si possa o non si possa più contare.

1 rif. Massimo De Leonardis “Guerra Fredda e interessi nazionali” edizioni Rubettino, 2014.

Foto: U.S. DoD