Celebrazione muta

(di Paolo Palumbo)
11/09/21

Mai, come quest’anno, la ricorrenza dell’11 settembre assume un valore celebrativo, ma anche beffardo. In quella data l’islamismo, che fino ad allora aveva combattuto una guerra circoscritta, colpiva al cuore l’Impero americano svelando al mondo intero una debolezza che nessuno, prima di quella data, aveva osato fare.

Il presidente Bush, di fronte ai vigili del fuoco di New York, i veri eroi dell’11 settembre, promise che l’America si sarebbe vendicata e che le persone autrici di quell’orribile attentato avrebbero pagato per tutta la vita il loro azzardo. Così fu. Quella dichiarazione di guerra però, non riguardava solo gli Stati Uniti, ma trascinò nel conflitto anche la vecchia Europa la quale, divisa come sempre, partecipò alla “rappresaglia” contro l’Afghanistan e l’Iraq.

Le motivazioni politiche, gli errori strategici e le false “armi di distruzione di massa” sono ormai entrate a pieno titolo della storiografia contemporanea. Sono state spese migliaia di parole sull’incompetenza americana, sulla brutalità del terrorismo e su Osama bin Laden, lo sceicco che una volta era sul libro paga dell’Agenzia.

Da quel giorno, la “Guerra Globale al Terrorismo” ha subito un’evoluzione tragica, che ha portato le armi e le bombe anche sul suolo europeo: Francia, Belgio, Germania, Spagna non avevano mai subito la spietatezza e la follia di un attacco sucida. In un solo attimo tutto il mondo ha mutato il suo modo di vivere, le sue abitudini e ha iniziato a guadarsi le spalle poiché – incredibilmente – i governi si accorsero che i terroristi vivevano già nel loro paese da diversi anni. Da questa scoperta partirono le varie campagne contro la radicalizzazione, come se le parole e qualche beneficio in più avessero potuto cancellare in un sol colpo, un odio aveva radici troppo profonde.

Gli eserciti di mezzo mondo si sono ritrovati sul suolo iracheno e afghano, autori di una guerra che meritava di essere combattuta, ma il cui valore è ancora oggi oggetto di dibattito. Troppo presto per giudicare: gli aerei alleati che scappano da Kabul sono un chiaro monito verso chi azzarda una conclusione.

Vent’anni di guerra in una terra dove gli imperi hanno sempre versato lacrime amare: gli americani pensavano che i talebani fossero come l’esercito iracheno, ma si sbagliavano. La convinzione occidentale di esportare la democrazia si è irrimediabilmente infranta contro un muro solido, millenario, fatto di riti, tradizioni, convinzioni e superstizione. La storia lo insegna.

Oggi, dunque, ci ritroviamo a ricordare l’11 settembre in una forma diversa poiché tutto ciò che è stato innescato da quella giornata è svanito nel nulla, perso nell’assordante silenzio di un popolo abbandonato a sé stesso.

Per anni le forze coalizzate hanno assistito, con le lacrime agli occhi, allo sbarco dei feretri militari, avvolti in una bandiera. Anni in cui una generazione di soldati ha conosciuto sulla propria pelle gli effetti di una guerra nuova, per la quale molti eserciti non erano preparati. Gli stessi soldati che, pochi giorni fa, si sono assembrati introno alle piste di Kabul intenti a fare il loro dovere, ma con l’amaro in bocca.

Gli eserciti democratici sono fuggiti, in mezzo alla polvere e a migliaia di cadaveri provocati dagli Shahid, subito etichettati come terroristi dello Stato Islamico.

Molti si soffermano sulle foto dell’incredibile arsenale lasciato ai talebani i quali non hanno perso tempo ad agghindarsi con i costumi dei guerrieri occidentali, formando addirittura un corpo speciale con tanto di Oakley, M4 e cappellino della 5.11. Ironia o irrefrenabile desiderio di assomigliere per un attimo ad esercito evoluto?

Dietro le dichiarazioni, le grottesche messe in scena e il teatrino di un governo talebano che si è da subito dichiarato “nuovo” e pronto a dialogare, c’è ben altro. I tanti che non sono riusciti a mettere piede su un C-130 lo sanno bene.

L’11 settembre 2021, dove sorgevano le Twin Tower, si terranno le solite cerimonie di cordoglio, ormai svuotate nel loro significato. Gli unici a perseverare in un ricordo sensato di quella tragedia, sono coloro che hanno sacrificato la loro vita salendo le scale di quei due mostri di acciaio e cemento: i 343 vigili del fuoco, poliziotti, autorità portuale, paramedici che, ancora oggi, non riescono a togliersi dalla pelle lo strato di polvere e di morte.

I soldati? Come sempre loro sono tenuti a “morire” per dovere, inseguendo una causa giusta, combattendo nell’illusione di essere sempre dalla parte di chi fa del bene. Nel caso italiano i nostri militari hanno rappresentato una pedina fondamentale di una politica estera inesistente, incapace di esprimere una qualsiasi linea politica decisa. Un’esperienza travagliata e bersagliata costantemente dal fuoco “amico”, proveniente da governo fasullo che non solo ha mai saputo prendere posizione su nulla, ma alla prima occasione ha addirittura negato ciò che i soldati facevano veramente.

Sarebbe ora che tutto questo cambiasse, ma come l’Afghanistan, anche questo paese sembra rimasto immobile nel tempo, con le stolte parole di facciata di qualche ministro e la tragica abitudine di rinnegare sempre e ovunque il valore di chi combatte.

Foto: U.S. DoD