Torna in auge, su Facebook, la censura mussoliniana: a farne le spese…il pronipote. E la democrazia tutta!

(di Marco Valerio Verni)
09/04/19

Come annunciato dallo stesso diretto interessato, il profilo di Caio Giulio Cesare Mussolini (tra i futuri candidati alle prossime elezioni Europee, nel collegio sud, all’interno delle fila del partito guidato da Giorgia Meloni) era stato bloccato, nelle scorse ore, da Facebook, il noto social network, fino all’11 aprile prossimo.

La colpa che era trapelata poter essere alla base di questo inspiegabile gesto, fatta propria da molti utenti dello stesso social network, oltre che da alcuni esponenti politici, sarebbe stata quello di essere, il suddetto, il pronipote di Benito Mussolini, politico e primo ministro italiano tra il 1922 ed il 1943, e, quindi, di esserne portatore del relativo cognome. Ciò anche alla luce di alcuni similari problemi in cui sarebbero incorsi pure altri parenti dello stesso.

In realtà, come postato dallo stesso Mussolini (pronipote, si intende: non si allarmi qualcuno), il profilo in questione sarebbe stato riattivato quasi subito a seguito della crescente ed ovvia polemica politica che ne era subito scaturita, con tanto di “scuse indirette”, da parte della società americana guidata da Mark Zuckerberg.

Al di là della difficoltà di comprendere dove avrebbe potuto risiedere, se questa (del cognome) veramente dovesse essere stata la causa dell’operato di Facebook,, l’illecito (civile, penale, amministrativo, etico, politico o di chissà quale altra natura), sarebbe apparso oltremodo contraddittorio (ed il condizionale sarebbe sparito, trasformandosi in indicativo, se, in queste ore, come detto, l’account in questione non fosse stato riattivato), in effetti, il comportamento del team del social network destinato a valutare la censura dei vai profili, dal momento che, navigando qua e là tra le varie “policy” che regolano la vita dello stesso, vi è un continuo e giustissimo richiamo a politiche anti-discriminatorie: nel settore dedicato alle pubblicità, ad esempio, si legge a chiare lettere che “Our Advertising Policies prohibit advertisers from using our ads products to discriminate against individuals or groups of people. Ads are discriminatory when they deny opportunities to individuals or groups of people based on certain personal attributes, such as race, ethnicity, national origin, religion, age, sex, sexual orientation, gender identity, family/marital status, disability, or medical or genetic condition1. Un elenco di criteri ostativi a qualsiasi discrimanzione molto ben dettagliato, tra cui, peraltro, figura quello riferito al “family/marital status” che, ad esempio, potrebbe ben calzare al caso in questione. Ma, a prescindere, l’ampia elencazione, al di là del fatto che essa sia riferita agli inserti pubblicitari, ed alle categorie specificate, non lascia spazio ad alcun dubbio riguardo ad un divieto molto ampio al riguardo. Forse, la categoria “cognome” neanche ci sarebbe potuta essere, talmente sarebbe stata ridicola ed assurda. Financo impensabile.

Se ciò non bastasse, nell’area destinata, invece, a descrivere la “Corporate Governance”, i redattori si sono preoccupati di redigere un paragrafo specifico sulle “molestie” o “vessazioni” (“Harassment “2), in cui si afferma che “Facebook does not tolerate unlawful harassment or any mistreatment by or of workers (including individual contributors, managers, and contingent workers), guests, clients, or agency partners in the workplace or in a work-related situation on the basis of sex, race, color, nationality, ethnic or national origin, ancestry, citizenship, religion (or belief, where applicable), age, physical or mental disability, medical condition, sexual orientation, veteran status, marital status, genetic information or characteristics (or those of a family member), or any other category protected under applicable federal, state, or local law”.

Addirittura, viene prevista una procedura di segnalazione immediata ove si riscontrassero condotte offensive nel senso spiegato: “If you suspect harassment, discrimination, or retaliation (as described in our Harassment Policy) has occurred, you are encouraged, and managers are required, to promptly provide a written or oral complaint to an HR Business Partner (HRBP), Employment Law (employmentlaw@fb.com), or to our Whistleblower Hotline. Please refer to our full Harassment Policy”. Come si può notare, c’è persino il richiamo ad una Whistleblower Hotline, destinata a raccogliere le segnalazioni di personale inserito nell’azienda americana o coinvolto in qualche modo con essa, che volesse rimanere nell’anonimato (un po’ come in Italia dovrebbe accadere per la segnalazione di casi di corruzione).

Allora, se l’attenzione alla “non discriminazione” è così alta e così ampia, la domanda che ci si pone (ed io, da giurista, me lo chiedo in particolar modo) è: in base a quale criterio il profilo di Caio Mussolini è stato sospeso? Quali sarebbero le norme violate? E di che tipo? Un errore? Veramente c’entrava qualcosa lo scomodo cognome che porta?

Ma, soprattutto: perché si è scelto di intervenire qui (salvo poi tornare sui propri passi), dove non vi era evidentemente alcun motivo, e non, invece, anche con segnalazioni d’ufficio all’Autorità giudiziaria, in casi seri, concreti, reali, che sfociano ormai in maniera sempre più sovente in preoccupante gravità ed aggressività, allorquando molti fomentatori di odio (o, come va di moda oggi chiamarli, quasi ad alleviarne e sminuirne il significato dell’ignobile e criminale comportamento, “haters”) si trovino a postare commenti (esemplari, per citarne alcuni, quelli contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma non solo) che, del tutto estranei al concetto di “critica”, risultano invece altamente ed oltremodo offensivi, o che incitano ad atti criminali, anche con il subdolo (ma non tanto) rinvio ad immagini del passato (per rimanere in tema, ad esempio, quella proprio di Mussolini appeso a testa in giù a piazzale Loreto)?

Forse ha ragione chi parla di dittatura del pensiero unico, di mainstreaming e di pericolo per la democrazia: i casi seri, da segnalare, sarebbero veramente tanti, ed ancor di più quelli su cui Facebook o il team che ne cura i giudizi al riguardo sarebbe dovuto intervenire, senza però poi farlo effettivamente. Chi c’è dietro queste persone? Quale è il loro modo di pensare, di decidere e di agire? Che discrezione hanno e, nel caso, con che parametri la usano?

In genere, una risposta la si prova sempre ad ipotizzare, ma in questo caso ritengo sia impossibile. O, forse, troppo scomodo. Chissà che non sia direttamente un qualche responsabile del noto social network a fornircene una.

Di sicuro, da oggi, in maniera del tutto inaspettata, dovremo tutti fare più attenzione, forse, anche al cognome che portiamo. E, probabilmente, alle eventuali simpatie (o antipatie) politiche che nutriamo, o di cui siamo oggetto.

1Certify compliance to Facebook's Non-discrimination Policy: https://www.facebook.com/business/help/136164207100893