La “post-truth era” e l’information warfare: la nuova sfida globale tra Usa e Russia

(di Marco Valerio Verni)
27/10/17

Per ”post-truth”, o post-verità, si intende quella condizione "relativa a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti, nel formare l’opinione pubblica, del ricorso alle emozioni e alle credenze personali" (Relating to or denoting circumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than appeals to emotion and personal belief).

Questa, almeno, la definizione che, di essa, ha fornito l'Oxford Dictionary (il famoso dizionario storico della lingua inglese antica e moderna pubblicato dalla casa editrice Oxford University Press), eleggendo, nel 2016, il termine in questione ”parola dell’anno”, a causa dell’utilizzo crescente che, di essa, se ne è fatto, soprattutto nel mondo mediatico, durante le campagne per le elezioni presidenziali americane del 2016 e per il referendum (di quello stesso anno) sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione Europea.

Notizie false, dunque, dolosamente artefatte o inventate, per cercare (spesso riuscendovi) di creare realtà inesistenti, per poter alterare il pensiero della opinione pubblica, indirizzandolo verso un determinato “sentire, basato sulla“ pancia e non sull’analisi di dati obiettivi e riscontrabili da fonti qualificate.

Come non ricordare, ad esempio, lo slogan ripetuto all’infinito (e, all’indomani del voto, prontamente smentito dagli stessi suoi fautori), proprio durante la campagna per il referendum britannico del giugno scorso dal fronte del “Leave” (favorevole all’uscita dalla Ue), secondo cui "Brexit permetterà alla Gran Bretagna di risparmiare trecentocinquanta milioni di sterline alla settimana attualmente spesi in contributi all’Unione Europea e investirli nella sanità pubblica nazionale". O quello, utilizzato dall’attuale numero uno della Casa Bianca, Donald Trump, durante la campagna presidenziale scorsa, secondo cui "Barack Obama non è nato negli Stati Uniti ed è musulmano", chiedendo a lungo di vedere il suo certificato di nascita e contribuendo, così facendo, a diffondere l’idea che, quest’ultimo, fosse nato in Kenya (invece che alle Hawaii, uno dei cinquanta Stati americani): fatto che, se vero, non sarebbe stato di poco conto, dal momento che lo avrebbe reso ineleggibile (secondo la legge Usa il presidente deve essere, appunto, nato negli Stati Uniti).

O, per riportare una tra le ultime “fake news” in ordine cronologico, quella secondo cui, sempre gli Usa, sarebbero stati pronti a mettere in "allerta permanente" i bombardieri nucleari B-52, nella crisi nord-coreana (notizia prontamente smentita dalla portavoce dell’Air Force statunitense).

O, ancora, per venire al nostro Paese, quella circolata sui social network, all’indomani del tragico terremoto che, di recente, ha colpito il centro-Italia (e ripetuta, sostanzialmente, anche in quegli altri che, purtroppo, si sono susseguiti negli ultimi mesi), secondo cui "Il governo italiano ha annunciato che il recente terremoto in Centro Italia è stato di 6 gradi, invece che di entità superiore come riportato dai media stranieri, per non dover pagare la ricostruzione che scatta da 6,1 gradi in su".

In realtà, il fenomeno in questione non è affatto nuovo, dal momento che, come anche ha osservato l’Accademia della Crusca, da sempre nelle campagne politiche lo screditamento dell’avversario con false notizie è (stato) uno strumento largamente impiegato, e la stessa propaganda di regime, da un certo punto di vista, può essere considerata una post-verità.

Sin dall’antichità, d’altronde, sono numerosi gli esempi, anche al di fuori della politica, in cui l’emotività e le convinzioni personali hanno finito per prendere il sopravvento sui dati oggettivi: da Aristotele, a Platone, a Tucidide, tutto il pensiero antico hanno denunciato i rischi conseguenti alle false informazioni e la loro capacità di’influenzare l’opinione della gente.

E la stessa politica, in fin dei conti, è stata da sempre considerata più come ”dominio” delle emozioni, delle passioni civiche e dei valori, che narrazione della verità.

Quel che, però, oggi, funge da game changer è la velocità attraverso cui ogni notizia, vera o, per quel che qui interessa, falsa, si diffonde, ed il fatto che ciò avvenga per ogni dove, grazie agli strumenti mediatici offerti dalla moderna tecnologia (televisione, ma soprattutto internet, per citarne tra i più importanti).

Ben si possono comprendere gli effetti sulla c.d. massa, poco avvezza al controllo della attendibilità di una notizia, per quanto esagerata o strana possa apparire, o delle fonti da cui essa provenga; così come sono immaginabili le conseguenze soprattutto quando le "fake news" riguardino tematiche in grado di coinvolgere in maniera piuttosto sentita ed intensa l'emotività del pubblico e scatenare, quindi, passioni che, a volte, potrebbero diventare di difficile gestione.

Lo sanno bene, questo, i vari governi, soprattutto quelli che, a vario titolo, hanno vissuto, negli ultimi tempi, particolari eventi legati alla loro vita democratica e nei quali un ruolo importante lo hanno avuto proprio queste “tempeste di notizie”, spesso inventate o, nel migliore dei casi, artatamente gonfiate (oltre agli esempi più sopra riportati, se ne potrebbero citare molti altri).

Al punto che, ormai, gli apparati di intelligence, soprattutto occidentali, non esitano a definire il tutto alla stregua di "information warfare", cercando le relative contromisure.

Così, mentre il primo novembre prossimo il Congresso USA ascolterà i “general counselor” di Facebook (uno dei principali accusati, avendo permesso, a quanto pare, la diffusione di notizie false e di spot studiati per inquinare il dibattito americano), Google e Twitter sul ruolo delle rispettive piattaforme tecnologiche nelle interferenze russe durante le già ricordate elezioni presidenziali del 2016, anche la Nato ha iniziato una controffensiva, prima di tutto "informativa", riunendo, lo scorso venerdì, nella importante cornice del Nato Defense College, a Roma, alcune tra le figure più di spicco in subiecta materia (l’editorialista di Postmedia’s International Affairs, Matthew Fisher, il giornalista e visiting professor in War studies al King’s College di Londra, Nik Gowing, il direttore del britannico Conflict Studies Research Center, Keir Giles, il giornalista e autore televisivo Peter Pomerantsev, e il vice assistente del segretario generale della Nato per Emerging security challenges, Jamie Shea) con lo scopo di analizzare lo stato dell'arte ed incrementare, grazie anche ai contributi del qualificatissimo uditorio intervenuto (componenti delle Forze Armate di varie nazionalità, ex studenti del College ed analisti militari e politici, in primis), lo spettro delle contromisure attuabili.

Non a caso, il tema dell'incontro che, per la sua importanza, è stato introdotto dal prezioso intervento del comandante del rinomato College, Chris Whitecross, generale dell’aeronautica canadese, ha avuto come titolo quello di “Nato and Information warfare in the post-truth era”, a significare la centralità strategica di questo nuovo (vecchio) scenario di vera e propria guerra che ormai contraddistingue la nostra epoca.

Lo stato dell’arte

Che la guerra classica fosse stata soppiantata, oggi, da quella asimmetrica è un fatto ormai noto, per gli addetti del mestiere: di sicuro, questa tipologia emergente di "guerra dell'informazione" ha accentuato questa caratteristica, rendendola, in realtà molto più subdola, trattandosi, in verità, di una guerra ibrida, condotta al di sotto della soglia di guerra ufficialmente dichiarata ma, in potenza, ugualmente distruttiva. Essa può essere condotta da chiunque contro chiunque, in qualunque momento e da qualunque luogo, rendendo ancor più difficile, per gli Stati, proteggere i propri cittadini.

Questi alcuni dei punti cardine emersi dal convegno in questione, unitamente a diversi altri, tra cui:

a) a fare ricorso ad essa sono, in special modo, la Cina, la Corea del Nord, l'Iran e la Russia, che hanno già un vero e proprio “esercito” specializzato nel cyber-warfare, utilizzato sui vari social media come Facebook, Twitter, Instagram. Tra di essi, l’attore più attivo è sicuramente Mosca, che ha fatto dell’Information warfare uno dei campi privilegiati della propria strategia internazionale, usando Internet proprio come game changer nei conflitti, e ponendo così l’Occidente indietro di alcuni anni. Tramite questo strumento, la nazione di Putin starebbe cercando di colpire la società occidentale, non solo nei suoi costumi, ma anche a livello politico: evidenti alcuni casi, come quello ucraino o quello della Catalogna, con il supporto“a movimenti indipendentisti e secessionisti, che possono contribuire a indebolire i Paesi occidentali. Contestualmente, sui social media prima citati, operano altri utenti pronti ad aggredire e contestare qualsiasi contenuto “anti-russo”, mentre i broadcast legati a Mosca ripetono incessantemente messaggi positivi sulla Russia e sul suo leader indiscusso, Vladimir Putin;

b) la differenza tra Occidente e Russia non sarebbe più di natura economica: sebbene i Paesi Nato spendano complessivamente molto di più per la propria difesa di quanto faccia la Russia, i metodi legati alla guerra ibrida (tradizionalmente utilizzati proprio da soggetti che intendono colmare l’inferiorità strategica che avrebbero su campi tradizionali) riducono di gran lunga il gap di budget (d’altronde, come pur è stato sottolineato, nell’Information warfare non ci sono costi per il carburante, per le munizioni e la logistica), con effetti comunque molto simili.

Le possibili contromisure della Nato

Come ha sottolineato proprio il comandante Whitecross, la disinformazione può avere un impatto devastante sull’efficacia della Nato, ed è per questo che l’Alleanza sta da diverso tempo cercando delle contromisure da attuare nella guerra ibrida: tra di esse, emerge quella, banale a prima vista, ma di non sempre facile attuazione a livello pratico, della condivisione delle informazioni tra gli apparati di intelligence degli Stati della coalizione, oltre ad un aumento degli sforzi di ricerca ed analisi. In tale ottica, un importante passo in avanti è stato compiuto con la creazione, ad Helsinki, da parte della stessa Nato, in partnership con l'Unione Europea, di un Centro d'eccellenza "ad hoc" (Hybrid CoE), per il contrasto alle minacce ibride, con lo scopo di aumentare la resilienza a questo tipo di attacchi e renderli meno proficui - e quindi meno appetibili - per i loro fautori (come detto, russi in testa).

L’Unione Europea

Oltre alla creazione del Centro d'Eccellenza di stanza nella capitale finlandese, poc'anzi ricordato, la Ue, che del contrasto alle fake news ne ha fatto uno dei suoi capisaldi, ha posto la tematica in questione sotto la lente di ingrandimento anche dal punto di vista di un eventuale intervento legislativo: ma, in realtà, almeno al momento, questo sembrerebbe costituire solo l'extrema ratio nelle intenzioni della neocommissaria al digitale, Mariya Gabriel (che, proprio tra i compiti assegnatele dal presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, nella lettera di incarico ha anche il contrasto a questa nuova minaccia), la quale sembrerebbe puntare di più ad una sorta di autoregolamentazione da parte delle varie piattaforme esistenti nel mondo della rete (soprattutto riguardo i post razzisti o di incitamento all’odio), in capo alle quali dovrebbe iniziare a vigere un vero e proprio “duty of care” (dovere di diligenza).

Pensare ad un intervento normativo da parte degli Stati, infatti, suscita qualche perplessità, in ottica europea, dal momento che ci si scontrerebbe su un terreno dove, ad essere in gioco, verrebbero chiamati in causa valori importanti come la libertà di stampa, con conseguenti profili di presunta incostituzionalità, sulla scorta di quanto, peraltro, starebbe già accadendo in alcuni paesi del vecchio continente (ad esempio, in Germania).

"Per me è molto importante identificare le pratiche migliori e un meccanismo di coordinamento, per capire cosa possiamo fare in quanto Unione europea, qual è il nostro valore aggiunto nella lotta contro le fake news", ha affermato al riguardo la Commissaria europea, secondo cui "Se non lo facciamo, questi esempi erronei si moltiplicheranno semplicemente, per questo è davvero importante assicurare questo tipo di coerenza a livello europeo".

L'Italia

Sul versante italiano, un disegno di legge contro le fake news è stato presentato in Senato alla fine dello scorso febbraio, ma da allora è ancora in discussione: esso contiene una serie di disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online e garantire la trasparenza sul web con relative sanzioni: a) fino a cinquemila euro per chi pubblichi o diffonda tramite social media o siti di giornalismo online, notizie false e tendenziose, che riguardino avvenimenti infondati.

Pene più severe sarebbero previste se con le fake news pubblicate si destasse il pubblico allarme (art. 265-bis del codice penale: reclusione non inferiore a dodici mesi ed ammenda fino a cinquemila euro), mentre, per chi pubblicasse o diffondesse “bufale” dirette a costruire una campagna d’odio contro un singolo individuo o contro la collettività o, ancora, che si dovesse far promotore di campagne volte a minare il processo democratico, si prospetterebbe, secondo quello che dovrebbe essere il nuovo articolo 265-ter, la reclusione non inferiore a due anni e l’ammenda fino a diecimila euro.

Un disegno di legge che, in realtà, sembra non aver convinto la stragrande maggioranza dei parlamentari, degli operatori del diritto e della stessa informazione che, sostanzialmente, sono stati concordi nel constatarvi un netto contrasto con - lo si diceva più sopra - la libertà di stampa.

Netta al riguardo, la posizione della organizzatrice del Festival del Giornalismo di Perugia, Arianna Ciccone, secondo cui "Innanzitutto non c’è consenso unanime sulla definizione di 'fake news', che è un fenomeno complesso. La vulgata è che siano un fenomeno preoccupante, perché influiscono sul comportamento e sulla opinione delle persone. Ma evidenze scientifiche di questo concetto, ormai dato per scontato, non ci sono. Non sappiamo nemmeno quale sia la portata di questo fenomeno, e se davvero sia così impattante sul comportamento delle persone. Perché la propaganda politica, la disinformazione, il cattivo giornalismo non dovrebbero suscitare la stessa preoccupazione? E poi il testo presenta articoli che mettono insieme – e male – tutto. Primo: ammenda e carcere per chi diffonde false informazioni. Questo significa che è punibile anche chi in buona fede condivide un post o retweetta un contenuto che risulterà poi falso? E si specifica che le sanzioni riguardano anche informazioni che sono fuorvianti per l’opinione pubblica. Ma come si può stabilire in modo oggettivo cosa sia fuorviante? Il ddl prevede anche l’obbligo di registrazione alla sezione per la stampa di chi vuole aprire un sito. Ma questo vale anche per chi ha un profilo Facebook in cui parla di politica?. E vuole introdurre l’obbligo di rettifica senza possibilità di replica per i blog. E nel caso in cui la rettifica fosse falsa?".

Quel che è certo è che, a livello giuridico, alcune norme che potrebbero benissimo fungere da copertura già esistono (fermo restando che, ad un hacker russo o cinese, difficilmente importerebbe il loro rispetto) e, in tal senso, si potrebbe anche concordare con quanto chiosato dalla stessa Ciccone al riguardo: "La concezione di una Rete senza regole, così come dicono questi legislatori, è essa stessa una 'fake news'".

Alcune considerazioni finali

Ovviamente, anche i diretti “incolpati” (Russia in primis) hanno il loro punto di vista, e ribaltano le accuse contro i loro detrattori: lo stesso Vladimir Putin, per rimanere sul tema tanto discusso delle elezioni americane, ha dichiarato (come riportato dall’agenzia di stampa russa Interfax) a gennaio scorso che "I committenti delle notizie false" sul presidente eletto americano Donald Trump, sono "peggio delle prostitute" e che chi costruisce notizie false per "usarle nella lotta politica" non ha "nessun limite morale". Ma non solo: continuando nel suo ragionamento, ha aggiunto "Che cosa vediamo negli Stati Uniti? Vediamo una continua e acuta lotta politica interna nonostante le elezioni presidenziali siano finite con una vittoria convincente del signor Trump. Nel corso di questa lotta vengono fissati alcuni obiettivi,(…) il primo è minare la legittimità del presidente eletto americano". Per poi concludere affermando che "ho l’impressione che, dopo aver fatto il test a Kiev, siano disposti a organizzare una Maidan a Washington per non lasciar assumere l’incarico a Trump". Chiare, insomma, le accuse agli americani nel loro presunto coinvolgimento nel caso Ucraino, allo stesso modo in cui gli Usa hanno - come più sopra ricordato - accusato i russi, al contrario, nel recente caso della Catalogna.

Insomma, sembra evidente che, dalle accuse reciproche, non siano (o non siano solo) la Russia e le altre potenze finite sotto accusa da parte della Nato a ricorrere a questo nuovo strumento di guerra ibrida, ma (anche) alcuni governi occidentali (curioso che, nel 2017, si sia tornati a questa dicotomia) e, in effetti, gli esempi, al contrario, non mancherebbero (vedasi la Siria, la Libia o, andando indietro nel tempo, l’Iraq di Saddam Hussein).

Ma, mescolando varie tematiche, si potrebbe parlare del fenomeno migratorio (si ricorderanno, ad esempio, le fotografie artefatte per impietosire l’opinione pubblica mondiale, o la disputa “migranti economici”/”migranti politici”), o, per venire nuovamente al caso italiano, della disputa sulla opportunità o meno dei vaccini, sulla violenza di genere (accostata, troppo spesso, al solo “femminicidio”), sulla “teoria gender” o, ancora, sull’età pensionabile, aumenta sempre di più in base ad una presunta maggior longevità del popolo italico.

D’altronde, appare di un certo interesse anche il punto di vista di chi sostenga che la nuova “moda” delle “fake news” altro non sia che una diversa idea concettuale per sostituire la famosa “teoria della cospirazione”, la quale, negli ultimi tempi, sembra aver perso credibilità come modo di bollare le critiche anti-mainstream.

Chiaramente, si rischia di vedere ombre dovunque, e che tutto possa diventare il contrario di tutto: mai come oggi, allora, si dovrebbe tornare a quanto auspicato dal deputato Edmund Burke (che durante una seduta della Camera dei Comuni del Parlamento inglese nel 1787, esclamò rivolgendosi ai cronisti parlamentari seduti nella tribuna riservata alla stampa: "Voi siete il quarto potere!"), secondo cui la stampa (o, mondo dell’informazione, per meglio adattarlo ai variegati strumenti di diffusione di notizie oggi esistente) può esercitare la sua importante funzione, ossia quella di informare le persone, solo se rimane nettamente separata dagli altri tre poteri costitutivi dello Stato.

E, magari, che le stesse persone abbiano un po’ più di curiosità nell’approfondire le notizie, senza accettarne, in maniera acritica (ed a volte pigra o di comodo) il contenuto. Nel loro stesso interesse.

(foto: Nato Defense College / U.S. Air Force / Cremlino)