Con un colpo di spugna netto, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 240/16 ha cancellato le aspettative del personale delle FF.AA. impiegato nelle missioni ONU, esprimendosi negativamente sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale Amministrativo Regionale del Friuli Venezia Giulia e da quello dell’Abruzzo relativamente alla violazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art.3 della Costituzione in considerazione delle interpretazioni rese, e costituenti diritto vivente, in diverse sentenze dal Consiglio di Stato sulla questione dell’applicazione o meno della L.n.1074/62 con la quale si applicano al personale impiegato in missioni ONU i benefici previsti dalle norme in favore dei “combattenti”.
La questione ha impegnato negli ultimi anni diversi Tribunali amministrativi ed il Consiglio di Stato, con alterne fortune, in una battaglia giudiziaria che ha trovato la sua conclusione nella sopra citata sentenza della Corte Costituzionale la quale, proseguendo su una visione già tracciata dal Consiglio di Stato, ritiene non fondate le pretese in ordine all’applicazione dei predetti benefici al personale richiedente.
UN PO' DI STORIA
La L.n.1746/1962 prende spunto da un brutale episodio della storia delle missioni ONU (l’eccidio di Kindu del 1961) per effetto del quale ci si rendeva drammaticamente conto del fatto che le missioni ONU avrebbero potuto comportare rischi equiparabili alle situazioni di conflitto armato (rectius, guerra) per il personale impiegato. A compensazione dei rischi e dell’esposizione alla situazione “similbellica”, l’articolo unico della L.n.1746/62 applicava al personale impegnato in missioni ONU “i benefici previsti dalle norme in favore dei combattenti”.
La questione è filata liscia per svariato tempo fintantoché il numero delle missioni e le dimensioni dei contingenti non venivano ad essere idonei ad onorare sempre maggiori impegni che la comunità internazionale richiedeva; la previsione normativa esponeva pericolosamente l’erario ad esborsi non previsti seppur prevedibili, in forza di una presenza militare in teatri operativi esteri sempre più consistente. Il primo “botto giudiziario” si avverte nel 2010 ad opera della sentenza n.1288 del 2010 del T.A.R. Veneto conseguente ad un ricorso per il riconoscimento del diritto inoltrato addirittura nel 2003 da personale militare impiegato in missioni ONU. Con tale provvedimento e con il ragionamento deduttivo in esso contenuto, il T.A.R. Veneto riconosceva il diritto dei ricorrenti alla supervalutazione dei periodi di servizio svolti per conto ONU, facendo ricorso al combinato disposto dell’art.18 del D.P.R. n.1092/73 e dell’art.3 della L.n.390/50 per giungere ad individuare perfettamente i benefici di cui alla L.n.1746/62 nella supervalutazione di un anno di servizio per ogni campagna di guerra.
Successivamente a tale pronuncia, prendeva piede un orientamento conforme in forza della sentenza n.01168/2014 del T.A.R. Lombardia Sezione Prima e della sentenza n.450 resa in data 28.08.2014 dal T.A.R. Friuli Venezia Giulia ma anche della giurisprudenza della Corte dei Conti che riconosceva corrispondentemente al personale in quiescenza medesimi benefici, seppur la giurisprudenza contabile fosse conforme e costante in doppio grado di giudizio differentemente, come si vedrà, dalla giurisprudenza amministrativa.
Certamente l’erario avvertì la pericolosità della situazione, prospettando una falla economica di tutto rispetto laddove avesse preso piede l’interpretazione sopra riportata, e ciò non solo per sé ma anche per l’INPS ente erogante i trattamenti di quiescenza in seguito al subentro di esso al precedente ente erogante INPDAP. Evidentemente “empatizzando” con l’erario, il Consiglio di Stato è intervenuto a ristabilire l’ordine, cassando le sentenze favorevoli di primo grado ed instaurando quello che, correttamente nell’ordinanza di trasmissione alla Corte Costituzionale, il Presidente del T.A.R. Friuli Venezia Giulia definisce “diritto vivente” in quanto costituente giudicato sostanziale; ovviamente detto orientamento impedisce qualunque successo definitivo per i ricorrenti i quali, seppur vincenti in primo grado, saranno certamente soccombenti in appello ben potendo il Consiglio di Stato procedere, sull’orientamento precedentemente stabilito, rendere sentenze in forma semplificata.
Sensibile all’andamento particolare che la questione stava assumendo all’interno dell’iter giudiziale ed al costante contrasto giurisprudenziale, il Presidente del T.A.R. Friuli Venezia Giulia rimetteva la decisione sull'interpretazione di essa alla Corte Costituzionale, asserendo come la mancata equiparazione tra combattenti e personale militare partecipante alle missioni ONU, data la presenza di rischi e pericoli sensibilmente ed evidentemente equiparabili, costituisse una violazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art.3 della Cost.it.
La conclusione della vicenda è nota: la Corte Costituzionale rende sentenza di inammissibilità della questione di legittimità e spegne le speranze e le aspettative del personale che, peraltro, non sta certamente attraversando il migliore dei suoi periodi storici.
LA SENTENZA n. 240/2016 DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Dobbiamo necessariamente addentrarci nelle motivazioni della pronuncia della Corte per poter cercare di ricostruire l’iter logico che ha indotto la decisione in oggetto. In primis, dovremo però riprendere i motivi posto a fondamento delle pretese dei ricorrenti; essi sono fondamentalmente la violazione e la falsa applicazione della L.n.1746/62, dell’art.18 del D.P.R. n.1092/73 e dell’art. 3 della L.n.390/50: l’art.1 della L.n.1746/62 recita che “al personale militare che per conto dell’ONU abbia prestato o presti servizio in zone di intervento, sono estesi i benefici previsti dalle norme in favore dei combattenti”; l’art.18 del D.P.R. n.1092/73 recita che “il servizio computabile è aumentato di un anno per ogni campagna di guerra riconosciuta ai sensi delle disposizioni vigenti in materia” mentre l’art.3 della L.n.390/50 afferma come “per ottenere il riconoscimento della campagna, è necessario che le persone di cui all’articolo precedente abbiano complessivamente prestato per ogni anno solare non meno di tre mesi di servizio, anche non continuativo di cui all’art.1. Qualora nell’anno solare non si raggiunga il periodo minimo di cui al comma precedente, ma la partecipazione al ciclo operativo sia continuativo a cavallo di due anni, può essere computato per il riconoscimento di almeno una campagna il servizio prestato nell’anno successivo a meno questo, a sua volta, non sia di tale durata da comprare il riconoscimento di un’altra campagna. In tal caso verrà riconosciuta solo quest’ultima”.
La ricostruzione della struttura normativa di cui sopra, consente di concludere coerentemente con l’argomentazione deduttiva del T.A.R. Veneto nella citata sentenza n.128872010 dianzi citata, per l’applicazione dei benefici come individuati in un anno di supervalutazione per ogni “campagna di guerra” e così come il disposto dell’articolo unico della L.n.1746/62 vorrebbe che si applicasse ad una sua semplice lettura ma anche a fronte di un’azione di interpretazione giacché la linearità ed essenzialità della disposizione non consente di giungere a contenuti diversi da quelli espressi. Gli antichi dicevano “in claris non fit interpretatio”.
Oltre alle richiamate (ma anche ad altre) motivazioni di diritto, venivano svolte alcune osservazioni sull’evoluzione del concetto di “guerra” che erano state rilevate dalla seconda guerra mondiale in poi: dalla prima Guerra del Golfo ai recenti cyberattacchi lamentati dall’uscente Presidente USA Obama, il concetto di “guerra” ha subito una radicale trasformazione che l’ha portato a non identificarsi (a parere di chi scrive ma anche di ben più autorevoli autori) più con quella concezione in cui gli eserciti si contrapponevano in logica tridimensionale (terra, cielo e mare) seguendo ad una formale dichiarazione di guerra. Oggi la quotidianità ci dimostra come di fatto già la popolazione viva in uno stato di assedio in cui si cerca di forzarne le abitudini di vita verso un radicale cambiamento e, nel contempo, il personale militare impegnato in missioni all’estero può vedersi immerso in un teatri a bassa-media-alta intensità, anche a seconda della tipologia di operazione in cui si vede impiegato (peacekeeping, peaceenforcing, peacebuilding), esposto ad una conflittualità “asimmetrica” non paragonabile alla guerra tradizionale quanto a concezione ma assolutamente equiparabile quanto ad effetti.
Queste le argomentazioni di fatto e diritto sinteticamente rappresentate nei ricorsi.
Sulla base di una questione di legittimità relativa alla disparità di trattamento tra il personale impiegato in missioni ONU ed i “combattenti” ai sensi dell’art.3 Cost.it. si è arrivati alla pronuncia della Consulta che così di seguito viene rappresentata nelle sue linee essenziali.
In principio, la Corte sostiene che la valutazione della norma in esame non possa non prendere in considerazione il momento storico in cui venne emanata e le ragioni che ne determinarono la necessità (il già citato eccidio di Kindu), stante la totale assenza di alcuna previsione normativa che disciplinasse la partecipazione del personale militare alle missioni ONU. Per la stessa necessità di contestualizzazione storica delle disposizioni, la Corte afferma come dal 2000 in poi, la partecipazione italiana alle missioni all’estero veniva ad essere disciplinata in toto da apposite disposizioni normative in cui venivano inclusi anche tutti i provvedimenti relativi ai trattamenti economici e previdenziali. Conseguenza di ciò è che l’equiparazione della L.n.1746/62 tra personale impegnato nelle missioni ONU e “combattenti” non può costituire in capo ai primi dei diritti specifici posto che la normativa ad hoc che accompagna ogni intervento all’estero del personale militare, struttura un frame normativo nel quale tutto viene ad essere previsto. L’onnicomprensività delle disposizioni viene santificata, a detta della Corte, anche nell’art.1808 C.O.M. norma di chiusura del processo di adeguamento dell’ordinamento militare alle mutate esigenze storiche e giuridiche.
Che poi il legislatore avesse bene a mente la distinzione tra campagne di guerra e missioni ONU è dimostrato anche dal fatto che a queste ultime vengono applicati istituti tipici delle prime (es. far tutti, le pensioni di guerra) proprio a significare che le due tipologie avessero ognuna il proprio astro e la propria fortuna.
La Corte prosegue la motivazione del suo provvedimento intrattenendosi sul significato del termine “combattente”: in merito a ciò, rinvia a quanto già determinato a suo tempo relativamente alla definizione dei partecipanti a vario titolo alla seconda guerra mondiale, individuati nelle figure dei militari, militarizzati, prigionieri e partigiani e specificando come fonte per l’individuazione dei combattenti, dei requisiti e delle cause di esclusione da tale status, sia il D.Lgs. n.137 del 04.03.1948 come modificato dalla L.n.93/52.
Quanto all’equiparazione/assimilazione della missione ONU alla situazione bellica per un adeguamento dell’ordinamento nazionale ai dettami dell’ordinamento internazionale, la Corte osserva come ciò non costituisca rimostranza pertinente nemmeno seppur si consideri come nel corso dell’operazione “Enduring Freedom” sia stato applicato il codice penale militare di guerra ai “soggetti impiegati (solamente) in alcune operazioni armate”. Oltre ciò, la Corte sostiene ancora che l’assimilazione al conflitto armato delle operazioni militari armate svolte all’estero è avvenuta parzialmente ed espressamente solo per alcuni fini e con determinati limiti, mediante l’aggiunta di due commi all’art.165 c.p.m.g. tramite l’art.2 della L.n.15/2002, significando ciò che al di là di tale precisa circostanza, nessun’altra assimilazione sarebbe potuta essere possibile tra i due concetti.
Criterio distintivo finale, ai fini della determinazione dei benefici di applicazione nelle fattispecie “al di là della presenza dei rischi mortali” la dimensione “quantitativa” del personale impiegato in contesti di limitati contingenti in teatro operativo estero rispetto ad una situazione in cui, invece, si verrebbe a configurare il ricorso alla leva obbligatoria: da ciò, secondo la Corte, si verrebbe a comprendere in maniera chiara e netta “la scelta del legislatore di non estendere tout court ai militari impegnati in missioni ONU tutti i benefici combattentistici quali essi siano”.
Conclude la Corte la propria motivazione sostenendo come “non sussiste alcuna sperequazione tra l posizione del militare che nell’ambito di un servizio svolto professionalmente decida volontariamente di partecipare a missioni internazionali e che quindi riceva un peculiare trattamento stipendiale, comunque migliorativo rispetto a quello normalmente percepito nel corso del rapporto di lavoro e quella dell’arruolato in seguito a provvedimenti più o meno generali di richiamo alle armi, cui spetterebbe - allo stato della legislazione esistente - oltre alla sola supervalutazione di cui all’art.18 del d.P.R. n.1092 del 1973 un compenso giornaliero, il cosiddetto soldo, poco più che simbolico”.
LE PERPLESSITA’
Questo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale: opportuno pare non entrare subito nel merito delle motivazioni relativamente alla loro correttezza o meno, quanto piuttosto operare una valutazione sulla conformità di quanto rappresentato nella sentenza della Corte rispetto all’agito dell’Amministrazione Difesa. Come rappresentato nei ricorsi introduttivi, probabilmente nessun dubbio sarebbe sorto e nessuna pretesa sarebbe stata fatta valere se la L.n.1746/62 dal 1987 non fosse stata richiamata dalla Direttiva di SMD in cui si elencavano le missioni ai sensi della menzionata normativa e per gli effetti di essa, da considerarsi “zone di intervento”. Ciò che, infatti, lascia perplessi è il perché si è dovuto ricorrere ad una direttiva per indicare quali missioni sono da ricomprendervi nell’ambito dell’applicazione dei benefici di cui all’articolo unico della L. n. 1746/62 (direttiva a questo punto configurabile come contra legem) nonostante le disposizioni fossero chiaramente da intendersi di segno opposto così come sembrerebbe sostenere il Consiglio di Stato nella sua giurisprudenza in materia.
Perplessità suscita anche il fatto che, se effettivamente la lettura da dare alla disposizione di cui sopra, fosse stata quella sostenuta dal Consiglio di Stato, allora è normale chiedersi come mai non si sia mai intervenuti per modificare una norma che creava dubbi interpretativi di non poco conto ma si sia proseguita una linea che non solo non dirimeva ma, addirittura, ha fatto giungere ad una mole di contenziosi considerevole.
Perplessità ancora laddove le motivazioni che venivano addotte tra primo e secondo grado da parte dell’Avvocatura dello Stato erano tra le più diverse tra loro: degna di nota l’osservazione che la difesa erariale svolge in sede di Consiglio di Stato laddove ha sostenuto come i benefici fossero applicabili solo alle categorie suscettibili di progressione per classi e scatti (quindi soltanto le categorie dirigenziali) creando a sua volta un’ulteriore disparità di trattamento non solo tra le varie categorie del personale di F.A. ma anche all’interno della stessa categoria Ufficiali: l’idea che tale teoria dà di sé è quella del classico arrampicarsi sugli specchi.
Insomma la sensazione finale è che mai l’A.D. sia riuscita a svolgere una difesa convincente in punta di diritto poiché è evidente che la lettura data alla L.n.1746/62 non può che essere univoca, unico esemplare nel panorama nazionale di legge chiara ed immediata nella sua ratio e nella sua applicazione: l’unico aspetto che veramente ha giocato un ruolo fondamentale nella partita in esame è solo ed esclusivamente quello legato, in primis, all’esborso economico che avrebbe comportato per l’erario, il riconoscimento e l’applicazione dei benefici ed, in seconda battuta, l’esodo di personale in misura non controllabile con tutte le conseguenze del caso riguardo gli obblighi internazionali e gli impegni interni assunti dalle FF.AA.
Pur tuttavia, la decisione della Corte parrebbe rendere, allo stato degli atti e delle interpretazioni rese, vano ogni ulteriore ricorso per l’ottenimento dei benefici combattentistici di cui alla L.n.1746/62: al di là di un coinvolgimento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), non pare che vi siano altre possibilità per proseguire la battaglia a meno che, cosa sulla quale si nutrono dubbi consistenti, le interpretazioni della Corte Costituzionale non subiscano stravolgimenti ovvero vengano individuate altre linee interpretative sulle quali dare una nuova lettura ed, anche in questo caso, i dubbi sono molto consistenti.
LE CONCLUSIONI
Non vi è dubbio che all’A.D. sia riuscito il “colpaccio”: tra l’esegesi “adeguatrice” del Consiglio di Stato e la chiusura della Corte Costituzionale, si è evitato miracolosamente il peggio: la falla non si è aperta, l’A.D. può dormire sonni tranquilli e l’INPS “non deve portare i libri in Tribunale”; per molti appartenenti alle FF.AA. rimane l’amarezza di vedere nel proprio stato di servizio molte missioni trascritte con il richiamo agli effetti della L.1746/62 senza conoscerne l’utilità e dopo che tale annotazione aveva rappresentato una speranza legittima, alimentata dalla condotta dell’A.D. che, se veramente (chi scrive dubita fortemente di ciò) l’interpretazione che doveva darsi alla norma fosse stata quella resa dal Consiglio di Stato e dalla Corte Costituzionale, allora meglio avrebbe fatto a sopprimerla immediatamente ed a non dare seguito all’emanazione della direttiva di SMD.
Le sentenze rese paiono sentenze “politiche” in quanto mirate più a correggere un errore dell’A.D. che non a tutelare le posizioni giuridiche rappresentate nei ricorsi e, come si è già detto, per tale fine non rimane che la possibilità di sottoporre la questione alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo auspicando un efficace intervento di quest’ultima per riportare la vertenza nel giusto assetto.
(foto: U.S. DoD / Web)