La figura del servo della gleba, emblematica del sistema feudale europeo, rappresenta un paradigma di dipendenza economica e sociale radicato nel vincolo alla terra e nella subordinazione al potere signorile. Pur non essendo giuridicamente uno schiavo, il servo era privato della libertà di disporre autonomamente del proprio lavoro e dei frutti della propria attività, sistematicamente incamerati dal feudatario.
Nell'ecosistema dell'economia digitale contemporanea, questa dinamica secolare si riproduce attraverso morfologie più sofisticate ma strutturalmente analoghe. I creatori di contenuti, i micro-imprenditori digitali e gli utenti attivi sulle piattaforme social generano quotidianamente valore economico e sociale all'interno di spazi digitali proprietari, controllati da entità corporate che detengono il monopolio delle infrastrutture, degli algoritmi distributivi e, crucialmente, dell'accesso all'attenzione pubblica.
Lungi dall'incarnare uno spazio neutrale di libertà e partecipazione, questo sistema configura un ambiente caratterizzato da profonde asimmetrie, dove l'utente assume il paradossale duplice ruolo di produttore e consumatore, senza tuttavia possedere alcun diritto sostanziale di proprietà o governance sulla piattaforma che utilizza. La dipendenza algoritmica e commerciale erode progressivamente l'autonomia dei creatori, relegandoli alla condizione di lavoratori al servizio di un padrone invisibile che può ridefinire unilateralmente le condizioni di accesso, visibilità e remunerazione.
Sul piano democratico, le conseguenze di questa architettura di potere sono profonde e pervasive. La mediazione algoritmica dei contenuti, unita all'imperativo della massimizzazione dell'engagement e della profilazione commerciale, compromette irreversibilmente la natura pubblica e pluralistica dell'informazione. L'accesso alla sfera pubblica digitale non risponde più a criteri di rilevanza sociale o qualità informativa, ma a logiche di mercato e scelte tecnologiche opache, frequentemente inaccessibili alla comprensione degli utenti stessi. In questo scenario, la libertà di informazione si trasforma in simulacro governato da meccanismi che privilegiano contenuti polarizzanti, emotivamente carichi o sensazionalistici, erodendo inesorabilmente lo spazio per una deliberazione pubblica consapevole e informata. L'informazione si riduce così a merce amministrata da attori privati, affrancati da qualsiasi responsabilità pubblica o vincolo democratico.
A questa analisi socioeconomica si intreccia una dimensione geopolitica e strategica, sistematicamente sottovalutata nel dibattito pubblico. La stragrande maggioranza delle piattaforme dominanti nell'ecosistema digitale – dalle infrastrutture sociali a quelle di ricerca, fino ai sistemi integrati di comunicazione – appartiene a entità extra-europee, rispondenti a logiche di governance, framework normativi e interessi economici propri di altre aree geopolitiche, principalmente Stati Uniti e, in misura crescente, Cina.
Queste piattaforme, pur operando all'interno di territori sovrani come l'Unione Europea o l'Italia, sfuggono a un reale controllo democratico da parte delle comunità che le utilizzano. Le loro architetture normative, i loro algoritmi e le loro politiche di gestione dei dati e della visibilità non emergono da processi negoziali con cittadini o istituzioni locali, ma vengono imposte verticalmente da attori che operano su scala globale. Tale configurazione non solo erode la sovranità informativa degli Stati e delle comunità, ma espone intere società al rischio di dipendenza tecnologica e culturale da paradigmi esogeni, spesso incompatibili con i valori costituzionali, sociali e culturali dei Paesi in cui si radicano. In altri termini, non solo i contenuti e le informazioni sono governati da interessi privati, ma le stesse infrastrutture della comunicazione pubblica e privata subiscono un processo di "colonizzazione" da parte di poteri esterni che esercitano una forma di influenza economica, politica e culturale senza precedenti storici comparabili.
In un mondo multipolare, la capacità di sviluppare e governare piattaforme digitali autonome, allineate alle normative e ai valori democratici delle comunità di riferimento, assurge ormai a questione cruciale di sicurezza nazionale e sovranità strategica. Questa problematica, tuttavia, trascende la mera dimensione economica o giuridica per toccare uno degli ambiti più sensibili della contemporaneità: il dominio cognitivo, ovvero la capacità di plasmare percezioni, comportamenti e opinioni collettive attraverso il controllo sistematico delle piattaforme informative e comunicative.
Governare algoritmi, flussi informativi e ambienti digitali significa esercitare un potere che oltrepassa la sfera tecnologica, arrivando a modellare la realtà percepita da milioni di individui. Chi detiene il controllo delle piattaforme non determina soltanto cosa è visibile e cosa rimane invisibile, ma definisce i frame cognitivi, le gerarchie di attenzione, le emozioni collettive e, in ultima analisi, le narrative che orientano il dibattito pubblico e le scelte democratiche fondamentali. In questa prospettiva, il dominio cognitivo rappresenta la frontiera avanzata della competizione tra potenze globali e tra interessi economici antagonisti. Delegare tale potere a soggetti stranieri o a corporation che operano al di fuori di qualsiasi vincolo democratico equivale a cedere un elemento costitutivo della sovranità culturale, politica e sociale di una comunità. Non è ancora tardi per iniziare a "pensare" che questo sistema deve essere oggetto di qualche riflessione, se i valori della democrazia ci sono ancora cari, l’alternativa è diventare servi della gleba digitale.