Trump, poco folle e bravo comunicatore

(di Frank Montana)
02/05/17

Che cosa unisce Donald Trump alla sociologia e alla comunicazione? La sua vita lavorativa e ora quella politica.

Il super imprenditore immobiliare e 45° presidente degli Stati Uniti sta dimostrando, ora con le minacce, ora con le aperture a Kim Jong-un, di essere in possesso di qualità specifiche che entrano nel campo della sociologia e della comunicazione alle masse. Tutti lo descrivono come un pazzo per le sue prese di posizione, le gaffe e i suoi atteggiamenti, ma non lo è assolutamente. Anzi, sta usando un modello comportamentale, che si dice sia stato creato dal presidente Richard Nixon, che si chiama “Teoria del folle” e di sicuro non è un guerrafondaio ma solo il difensore degli interessi americani.

Secondo questa teoria, in sintesi, in politica estera bisogna avere l'atteggiamento che induca l'avversario a pensare di essere di fronte ad un folle e che le sue reazioni potrebbero essere spropositate rispetto alla causa scatenante.

Secondo un rapporto STRATCOM, pubblicato in un libro di Noam Chomsky: "È importante che i pianificatori non siano troppo razionali nel determinare [...] quali siano gli obiettivi che contano di più per l'oppositore, che vanno comunque tutti colpiti. Non è bene dare di noi stessi un'immagine troppo razionale o imperturbabile. Il fatto che gli USA possano diventare irrazionali e vendicativi, nel caso che i loro interessi vitali siano attaccati, dovrebbe far parte dell'immagine che diamo in quanto nazione. È giovevole per la nostra condotta strategica che alcuni elementi possano sembrare fuori controllo".

Non dimentichiamo che Nixon è anche quello che ha detto: “Quando perdi, cambia le regole del gioco”. Dunque, perché non dovrebbe essere così anche con Trump?

La politica estera americana è tutta incentrata nell'avere nuovi sbocchi commerciali e soprattutto nel contenere le mele marce che potrebbero intaccare anche le altre nel cesto. Kim Jong-un (foto) non è sicuramente il pazzo scatenato che i media stanno dipengendo, infatti David Hume, filosofo scozzese (1711-1766), sosteneva che la forza sta sempre dalla parte dei governati (del popolo) più che dalla parte dei governanti che non hanno altro sostegno che l'opinione pubblica. Ecco perché qualsiasi tipo di potere politico si regge sull'opinione pubblica. Kim e Trump non fanno eccezione. Se Kim è abile a parlare al suo popolo per evitare di implodere in se stesso, Trump è altrettanto abile. Il presidente americano ha le idee molto chiare e sapendo di essere sbucato politicamente dal nulla - infatti durante la campagna ad un certo punto aveva contro anche parte del suo partito - ha pensato bene nelle tornate pre-elettorali di parlare sempre agli ex militari e alle associazioni d'arma per avere il loro appoggio. Mossa dettata dall'istinto naturale o studiata da Machiavelli? Non lo sapremo mai, ma rimane il fatto che ora sta riscuotendo grande consenso proprio da loro. Ha parlato ad ex militari, i quali poi a casa hanno sicuramente parlato con figli o nipoti che fanno i militari (tutto il mondo è paese) e così la sua idea di uomo adatto alla causa ha fatto breccia. Ora la sta cementando con le iniziative che richiedono un certo movimento militare.

Kim non è certo un problema vero, ma solo la mela marcia da levare dal cesto. Il suo Paese è forte e potrebbe diventare un modello di riferimento anche per altri paesi e creare così un vero problema nella regione. Kim ha lanciato qualche missile, certo, ma sono esplosi tutti prima del tempo. La bomba atomica? È forse un problema solo su un missile? O potrebbe esserlo anche dentro ad una valigetta 24 ore? Eppure se si ha la tecnologia per montarne una su un missile si può averla anche in formato ridotto. La questione va tutta cercata sullo scontro della pubblica opinione: schierarsi con una America forte e decisa o con altri? Trump sta giocando le sue carte per far pendere la bilancia dalla sua parte. Uno degli assi è la “teoria del folle”.

Questo è solo un aspetto del tema, perché bisogna anche valutare che Trump per natura è predisposto ad un simile comportamento, prova ne sia che tutta la sua carriera è sempre stata costellata da colpi di scena.

Trump è conosciuto in tutto il mondo, sia per la sua ricchezza sia per le sue bellissime mogli. E se proprio la dobbiamo dirla tutta, Donald Trump è fortemente invidiato-ammirato da milioni di uomini. Storia tutta americana quella dell'imprenditore che riesce a moltiplicare i guadagni del padre. Insomma, metà popolo americano è affascinato dal “Trump Style” e molti lo imitano, l'altra metà ufficialmente non lo approva, ma segretamente in qualcosa lo ammira. Tante persone ammettono che non sia il loro stile, ma nutrono comunque un fondo d’ammirazione nazional-popolare.

Quello che interessa, in ogni modo, è il suo stile comunicativo prima, durante e dopo le elezioni presidenziali.

Il tipo di percezione che Trump mette in atto per entrare in sintonia con il mondo, una semplificazione del mondo lavorativo, finanziario, militare, politico, ecc. è contrariamente a quello che si potrebbe pensare uno stile induttivo più che deduttivo. Forse non sarà il segreto professionale più vero e più intimo, ma in ogni caso lascia parecchio spazio ad una valutazione interessante sul comportamento lavorativo e relazionale con la comunicazione. Trump ha dimostrato di essere un comunicatore e soprattutto un analista dell’ambiente circostante. Ambiente inteso come gruppo sociale in rapporto allo spazio/tempo. Il magnate americano è sempre riuscito a catalizzare l’attenzione su di sé: prima con il suo lavoro di costruttore e successivamente su scala planetaria attraverso la pubblicità, i camei nei film (altra forma di pubblicità) e le sue mogli. Dunque è riuscito prima a proporsi bene e dopo, quando aveva a disposizione gli strumenti adatti, a far veicolare il messaggio di uomo dal successo straordinario e un po' fuori dagli schemi.

Successivamente ha consolidato il suo stile di vita e lo ha trasformato nel desiderio segreto di milioni di uomini. È difficile pensare che Trump, tra un impegno e l’altro, abbia passato il suo tempo a studiare in maniera approfondita la sociologia e le tecniche della comunicazione. Molto probabilmente è frutto di un’infarinatura culturale supportata da una eccellente dote naturale. Molti potranno pensare che abbia fatto ricorso a degli esperti della comunicazione. Può darsi. Ma solo successivamente con la campagna elettorale, prima, agli inizi, probabilmente si è arrangiato con le sue capacità. Insomma è riuscito, studiando attentamente l’ambiente di riferimento, a capire il funzionamento del meccanismo e ad escogitare un modello per il suo successo. Bravissimo, perché a ciò si aggiunge, nel mondo odierno, la rapidità e vastità delle comunicazioni che incidono sulla formazione delle opinioni pubbliche accelerando i processi comportamentali e i mutamenti dei gusti.

Secondo John Dewey (filosofo statunitense) gli sbocchi degli avvenimenti rispondono a delle costanti ove l’uomo incide solo per la parte che lo riguarda ma non sui fatti collettivi, dati da situazioni createsi da effetti che sono cause “in quanto non accade nulla che non sia parte di una corrente continua di eventi” perché la vita sociale, come sostenuto da Kurt Lewin (psicologo sociale), “è il risultato di forze all’interno di un più ampio contesto”. L’ambiente va visto come un’entità integrata socio-storica-geografica-culturale che incide in modo determinante sui comportamenti collettivi (in quanto il gruppo sovrasta sempre per capacità di decisione e coesione le singole volontà): in un frattale rappresentato da un gruppo di appartenenza (ad esempio i palazzinari di New York), il comportamento sociale si uniformerà spontaneamente alle consuetudini o regole dell’ambiente e agli input trasmessi dagli strumenti di comunicazione.

La dichiarazioni di Trump riportate durante la sua marcia verso la presidenza cominciano a dipanarsi e a risaltare per la loro intrinseca funzionalità. Trump è un acutissimo osservatore, perché ha capito che osservare vuol dire cercare di comprendere la realtà. Il tanto contestato presidente americano, ad esempio, fece il discorso giusto al momento giusto con l'oratorio giusto: ai possibili licenziati di una fabbrica perché vittime del dumping dello stesso prodotto offrendo loro il blocco delle importazioni in Usa del prodotto concorrente. In sociologia esiste l’osservazione partecipante. Dunque, il comportamento è una conseguenza della cultura che è data dalla interrelazione tra il territorio/la popolazione/le risorse umane e naturali. Si presume che Donald Trump abbia tenuto in considerazione, e non potrebbe essere altrimenti, i fattori: “tempo” e “spazio”. Per “tempo” s’intende il contesto temporale in cui si studia, si valuta e si agisce conseguentemente. Tutto questo per non sbagliare i tempi d’entrata. Ma anche lo “Spazio” ha la sua importanza: il modo di fare acquisti a New York è diverso da il Cairo, esistono differenze anche tra New York e Leesburg. In ogni modo il “metodo Trump” ha funzionato e funziona tuttora. Certo, che non sarà solo frutto del caso se tutte le sue scelte sono state vincenti o perlomeno nella stragrande maggioranza. Ha indovinato negli affari, ha indovinato il team per la campagna, ha indovinato i partners, ha indovinato i tempi, ha indovinato tutto. Troppo. A questo punto sorge il sospetto che si sia avvalso di una forte struttura specializzata nell'analizzare i dati open source. Forse Donald Trump avrà accesso a delle informazioni di sicura affidabilità. E in certi ambienti è tutto. Per quanto possa essere motivato e per quanto possa indovinare i tempi di esecuzione, rimane sempre da considerare che Trump deve essere dotato di una precisione professionale al limite del maniacale.

Ha il merito di aver creato un’organizzazione perfetta con una fortissima impronta personale. Per ultimo, ma non meno importante, il suo carisma a misura cosmopolita. La sua è stata una scelta azzeccata, probabilmente frutto di un’intuizione personale e corroborata da qualche consiglio: ha saputo colpire il pubblico giusto. Anche in questo caso le analogie con la scienza che studia la pubblica opinione tornano a farsi sentire. I pubblici sono vari, ma per semplificare possiamo dire che si dividono in due grandi filoni: il pubblico oggettivo e il pubblico soggettivo. L’oggettivo, per esempio, è un gruppo di persone portate alla fucilazione (dunque contro la loro volontà). Dei marinai che si immolano assieme al loro comandante nella nave che affonda sono un pubblico soggettivo (dunque di spontanea volontà). Il pubblico può essere tale anche se non è nello stesso luogo o tempo: uno spettacolo in tv può essere visto da migliaia di persone che insieme formano il pubblico di quello spettacolo, eppure sono in città diverse. Nella sostanza Donald Trump è riuscito a creare un suo pubblico soggettivo. Il pubblico lo segue perché è convinto che ne valga la pena.

L’impressione che molte persone hanno del carismatico Trump è che sia un “gaudente” che riesca sempre a farcela per dei guizzi mentali escogitati all’ultimo secondo e per la sua bravura a convincere le persone. Queste ultime valutazioni sono troppo semplicistiche perché resistano al duro mondo del business americano. Forse Trump ci marcia un po’ sopra, coscientemente, per autoalimentare il suo status. Max Nordau (scrittore) in un suo libro del 1895 sostenne che la società moderna (per quei tempi) era pervasa da un disagio dovuto al contrasto esistente tra il modo di pensare e il modo di agire, come se l’uomo vivesse due vite “una esterna e l’altra interna, le quali a vicenda si deridono e sono in perpetua contesa”. Kurt Lewin oltre ad affermare che “il gruppo è qualcosa di più o, per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha struttura propria, fini peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi” (il pubblico di uno spettacolo teatrale è ben diverso per modalità, aspettative e comportamento da un pubblico di fedeli ed entrambi dal pubblico di un supermercato) è in funzione sia del mondo interno personale (aspettative) sia del mondo esterno (ambiente).

Michele Del Vescovo (demodoxalogo) nel mettere in risalto la pressione psichica che accompagna l’uomo in ogni suo atto, dal passeggiare a qualunque altra cosa, ha distinto il comportamento secondo norme esteriori (giuridiche, religiose, civili) ed interiori (fungibili). Queste spingono la società ad agire dialetticamente secondo leggi fisse causate dall’ambiente (pressione esterna) e dai bisogni del soggetto (elemento personale) creando, così, il comportamento sociale (o di massa) espresso dalle opinioni pubbliche. Il disorientamento tra l’essere e l’apparire, il dire e il fare, il concetto di male e bene, e così via, non è altro che l’adeguamento ad un fenomeno naturale; un fenomeno che mostra per reale quello che in realtà non lo è. Di fatto, stiamo andando verso una unica civiltà la cui caratteristica sarà imperniata sull’”apparire”. Dunque, il trend è quello di mostrarsi agli altri non per quello che si è o si sente (l’essere) ma in base agli schemi che vengono dai comportamenti di massa, a loro volta suggeriti dai cosiddetti mass-media. In tempi moderni Gabriel Tarde (1843-1904) aveva ampiamente dimostrato che è l’ambiente che influenza la storia e non i grandi uomini. Questi realizzano delle opere che in quel momento sono percepite dall’opinione pubblica; percepite ma non bene identificate e definite: vedasi Le leggi dell’imitazione, La logica sociale, L’opinione e la folla. Mentre Gustave Le Bon (1842-1931) nel suo Psicologia delle folle ha messo in luce il fattore imitativo che spinge ad uniformare i nostri comportamenti a quelli della maggioranza.

“La vita di corte è un deprimente, ma importante, gioco, che richiede lo schieramento dei pezzi e delle batterie, la progettazione di un piano e il suo perseguimento, contemporaneamente alla difesa dai colpi del nemico. Qualche volta, tuttavia, conviene rischiare e azzardare le mosse più balzane e imprevedibili”. Jean de La Bruyère (1645-1696, scrittore).

(foto: White House / KCNA / Twitter)