La strategia di al-Shabaab

(di Paolo Palumbo)
07/05/18

Secondo la definizione di Boaz Ganor, presidente dell’International Institute for Counterterrorism, gli attacchi suicidi rappresentano l’arma intelligente delle organizzazioni terroristiche. Lo shaihd (il martire) prescelto per farsi esplodere è, infatti, in grado di selezionare il suo obiettivo ed attendere il momento più opportuno per rilasciare il suo carico di morte. Una strategia che ha una storia molto lunga, soprattutto in Israele, dove in passato Hamas organizzò vere e proprie campagne di attentati per seminare il panico nelle varie città dello stato ebraico. Per far fronte o addirittura prevenire un attentato suicida non esistono mezzi realmente efficaci e qualsiasi procedura si voglia seguire si deve sempre mettere in conto un alto numero di morti. Per quanto riguarda Israele, in quest’ultimo decennio, gli episodi che hanno coinvolto martiri con cinture esplosive hanno subito una flessione verso il basso ancorché, in altre parti del mondo, continuano ad essere uno dei metodi più sfruttati, principalmente in quei luoghi dove le misure preventive e di vigilanza non hanno raggiunto l’efficacia dei paesi Occidentali. Oltre l’Afghanistan e l’Iraq, l’esempio più eclatante riguarda l’Africa laddove in Somalia l’organizzazione affiliata ad al-Qaeda - Harakat al-Shabaab - ha raggiunto un primato negativo in termini di vittime causate da attacchi con veicoli o cinture esplosive.

Somalia insanguinata

Il gruppo di al-Shabaab (letteralmente “la Gioventù”) ha una genesi maturata nel corso di lunghi anni di guerra civile e intromissioni straniere. Dopo la drammatica esperienza americana negli anni Novanta e la morte di Mohamad Farrah Aideed, la Somalia ebbe il suo primo presidente, Abdiqasim Salad Hassan, che dopo appena sei anni fu estromesso da una coalizione di partiti islamisti riuniti nel partito delle Unioni delle Corti Islamiche (UCI) per le quali al-Shabaab rappresentava il braccio armato. Fu in questa fase di transizione che gli etiopi, sostenuti dagli Stati Uniti, condussero al potere il movimento di Abdullah Yusuf, leader del Governo Federale di Transizione (GFT) il quale spodestò gli islamisti dal governo facendo così sprofondare nuovamente il Paese in una guerra civile.

Nel 2007, i transfughi islamisti iniziarono a raccogliere consensi tra la popolazione scontenta della presenza degli etiopi e del mal governo di Yusuf. Nel 2009 il disimpegno militare dell’Etiopia riaccese gli scontri tra gli islamisti e Sheik Sharif Sheik Ahmed diventato presidente di un Paese senza avere il controllo del territorio. Ancora una volta la Somalia divenne un crocevia di passaggio per soldati stranieri, questa volta inviati dall’Unione Africana (soprattutto dall’Uganda e dal Burundi) che cercarono invano di riportare l’ordine e mantenere aperte le vie di comunicazione nazionali e internazionali. Questa nuova ingerenza straniera rafforzò il beneplacito verso i militanti islamisti i quali, già da diverso tempo, erano tenuti sotto stretta osservazione dai leader di al-Qaeda. Il primo avvicinamento tra le due organizzazioni avvenne nel 2006 quando il fronte islamista delle Corti Islamiche inviò due attentatori suicidi contro obiettivi del governo federale a Baidoa; in quell’occasione il dottor al-Zawahiri (foto) li ribattezzò “i leoni della Somalia”.

Da quel momento in poi l’organizzazione, capeggiata inizialmente da Aden Hashi Farah “Ayro” e poi, dal 2008, dallo Sceicco Ahmed Abdi Godane, estese i suoi tentacoli su tutto il Paese seminando il terrore tra le forze governative, ma soprattutto tra gli inviati della missione AMISOM (African Union Mission in Somalia) patrocinata da Stati Uniti e dalle Nazioni Unite. Secondo i rapporti più recenti i soldati di al-Shabaab variano dalle 3.000 alle 7.000 unità, suddivisi su un territorio ripartito in tre aree di comando: Bay e Bokol, Centro Meridionale e Mogadiscio ed infine il Puntland e Somaliland. Sin dai suoi esordi il gruppo islamista dimostrò una propensione all’uso di attacchi suicidi tramite l’impiego degli VBIED (vehicle-borne improvised explosive device) con i quali colpirono, il 22 febbraio 2009, una base AMISOM a Mogadiscio uccidendo sei impiegati.

Un’organizzazione peculiare

L’acquisizione del brand di al-Qaeda diede un impulso alle bande islamiste somale che intensificarono i loro attacchi contro la forza multinazionale all’interno della quale militavano diversi soldati dell’Uganda e del Burundi. Per guadagnare maggiore credito nel mondo jihadista, l’11 luglio 2010 al-Shabaab mise in atto un terribile attacco simultaneo a Kampala, per la prima volta fuori dai confini nazionali. In quell’occasione due attentatori suicidi si fecero esplodere in un club di rugby e in un ristorante etiope, proprio mentre la gente guardava la finale di coppa del Mondo. Ci furono 74 morti, mentre altre 70 persone rimasero gravemente ferite.

Ovviamente la facilità con cui al-Shabaab riesce a trovare volontari shahid è il risultato della forte influenza che il gruppo quaedista ha su una popolazione le cui condizioni di vita sono ai limiti dell’umano. La fame, la disperazione e la mancanza di un governo stabile permette così un rapido reclutamento tra le file di giovani disperati pronti non solo a immolarsi per Allah, ma soprattutto a combattere per le vie di Mogadiscio o ad imbarcarsi per abbordare le navi occidentali. L’obiettivo primario degli jihadisti è soprattutto il personale delle Nazioni Unite e dell’Unicef anche perché sono organizzazioni che con la distribuzione di cibo e medicinali, cercano in tutti i modi di lenire il disagio della popolazione sottraendola alla propaganda dei terroristi1.

Nel 2011 il direttivo di al-Shabaab istituì una sezione appositamente incaricata di sorvegliare sull’operato delle agenzia straniere in Somalia (OSAFA) che condannò le Nazioni Unite, Unicef, tutte le ONG e persino la Croce Rossa. In effetti il lavoro della Comunità Internazionale non ha sempre portato benefici alla popolazione somala, ma piuttosto soltanto ai pochi che controllavano il mercato. Secondo quanto riportato da Abdel Bari Atwan il meccanismo per la distribuzione delle derrate alimentari non era perfetto, anzi fin dall’inizio rivelò gravi lacune che danneggiarono la produzione locale. Nel 2006, ad esempio, gli agricoltori indigeni ottennero un buon raccolto, ma quando si presentarono sul mercato, il World Food Programme delle Nazioni Unite decise di distribuire in un sol colpo i suoi aiuti all’interna popolazione schiacciando così ogni traffico interno. Ma la cosa incredibile fu che lo stesso errore venne commesso anche l’anno successivo. Come reazione, al-Shabaab precluse ogni ingerenza del WFP nei suoi territori favorendo così l’utilizzo delle risorse interne sebbene, è utile rammentarlo, per il proprio tornaconto. La difesa del territorio e la preservazione di un interesse nazionale unitario è comunque una peculiarità di al-Shabaab che la differenzia dalle altre organizzazioni jihadiste africane. L’iniziale “non allineamento” all’internazionale jihadista e il suo radicamento al territorio consentirono agli islamisti somali di ricoprire un ruolo effettivamente alternativo alle organizzazioni internazionali. Tuttavia al-Shabaab non riuscì mai a sostituirsi alle forniture delle Nazioni Unite: la guerra e qualche raccolto andato male abbassarono di fatto il livello di fiducia nei confronti dei terroristi i quali si stavano preparando ad un pericoloso salto di qualità.

La presenza di al-Qaeda in Somalia era iniziata timidamente negli anni Novanta quando gli americani misero piede a Mogadiscio per cacciare Aideed. In quel frangente bin-Laden confidò di trasformare il conflitto in Somalia in un nuovo Afghanistan, ma non tenne conto di alcuni fattori che rendevano quel posto impenetrabile persino per i suoi sgherri. La mancanza di leggi, lo strapotere dei clan e la dilagante corruzione che regnava nel Paese non permetteva una facile infiltrazione: i clan somali non si piegavano facilmente alle alleanze, ma soprattutto esigevano un grave esborso di denaro per il transito di uomini, armi e merce nei propri territori. Sebbene in patria la componente islamista somala restasse scettica nei confronti di al-Qaeda, furono molti i giovani credenti a lasciarsi incantare ai progetti di jihad dello sceicco saudita: centinaia lasciarono, infatti, il Corno d’Africa per andare a combattere al fianco dei talebani2. Qualche tempo dopo, la generazione che emigrò verso la guerra in Afghanistan diventò la spina dorsale di al-Shaabab.

Nel 2012 l’egiziano Ayman al-Zawahiri, insieme a Godane, pubblicò un video (fotogramma a dx) nel quale proclamava che la “Gioventù” guerriera somala sarebbe entrata a far parte della famiglia di al-Qaeda. Era il momento che tutti aspettavano poiché quella legittimazione consacrava al-Shabaab quale rappresentante principale del jihad in Africa Orientale.

Organizzazione, tattica e finanze

La diaspora di somali verso i luoghi del jihad ha garantito ad al-Shabaab un bacino di guerriglieri ben addestrarti. Lo stesso Godane, uno dei leader carismatici dell’organizzazione, si era fatto le ossa combattendo al fianco dei talebani nel 2001. Il sodalizio con al-Qaeda mutò profondamente il modus operandi dei somali i quali da una prospettiva “nazionalista” accettarono una visione più “internazionale” del jihad. La struttura operativa di al-Shaabab poggia su tre livelli: il primo, quello di comando (qiyadah) che controlla l’attività dei combattenti stranieri (muhajirin) e dei guerriglieri somali3. La distinzione riportata da David Shinn identifica con attenzione la categoria dei foreign fighters suddividendoli in tre categorie: quelli nati nei paesi confinanti, principalmente in Kenya, con la nazionalità di quel Paese, seguiti dai nativi somali i cui parenti sono poi migrati, ed infine i soldati che non hanno nessuna connessione etnica con la Somalia. Per i loro attentati, i terroristi somali prediligono l’impiego simultaneo di attentatori suicidi e macchine imbottite di esplosivo. Secondo i dati raccolti dal Combating Terrorism Center di West Point dall’anno della loro formazione (2005) fino all’ottobre del 2017, 216 martiri di al-Shabaab hanno condotto 115 attacchi suicidi. La difformità tra le due cifre è causata dal fatto che i somali inviano più gruppi suicidi sullo stesso obiettivo aumentando così le probabilità di successo e il numero delle vittime4. In questa macabra statistica, al-Shabaab si pone al secondo posto immediatamente dopo Boko Haram confermando che gli attentati suicidi sono diventati l’arma preferita dei gruppi operanti nel continente africano.

Tra gli attentati più gravi abbiamo già ricordato quello del luglio 2010 dove una serie di attacchi contemporanei causarono diverse vittime a Kampala, in Uganda. Il 24 agosto 2012 i terroristi somali colpirono il Muna Hotel a Mogadiscio. Un commando travestito da personale governativo seminò la morte tra le persone e dopo due ore di conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, uno dei terroristi si fece esplodere: ci furono 32 morti tra cui molti membri del parlamento somalo. L’ultimo sanguinoso episodio risale a pochi giorni fa, il 13 aprile 2018: una violenta esplosione durante una partita di calcio ha ucciso cinque persone e ferite 10 (foto).

Non c’è stato anno in cui l’attività dinamitarda dei terroristi somali abbia conosciuto requie: dal 2014 in poi abbiamo assistito inermi ad un crescendo di attentati con una percentuale di successo davvero impressionante. Al-Shaabab è un’organizzazione che ha dei profitti molto alti derivanti dall’infiltrazione nel mercato di merci legittimo e in quello illegale. Secondo i dati raccolti dal Center on Sanctions & Illecit Finance dal 2012 al 2014 i terroristi somali hanno ricavato oltre 83 milioni di dollari dalla tassazione e vendita del carbone che al momento rappresenta la fonte di guadagno principale. Il contrabbando di zucchero con il Kenya nel 2015 ha fruttato oltre 12 milioni di dollari derivanti da una tassazione illegittima di 1000 dollari a carico transitato. Al-Shabaab detiene inoltre il controllo sul traffico di droga (il khat) e la gestione dei rapimenti dai quali ottiene ingenti somme di riscatto5.

L’assoluto dominio dei terroristi in Africa orientale pone seri interrogativi circa l’efficacia della strategia occidentale per riportare l’ordine in uno dei paesi più complicati del pianeta. I problemi della Somalia hanno radici molto profonde e la presenza di altri paesi quali arbitri – mai imparziali – della loro politica interna è uno storico fallimento. Al-Shabaab resta un’organizzazione fortemente localizzata e i suoi principali avversari sono i militari dell’AMISOM, ciò nondimeno è appurata una certa tendenza ad esportare terroristi in giro per il mondo usando i canali ormai noti dell’immigrazione clandestina. Nel complesso l’Africa sembra essere ancora un fronte molto instabile, anche per gli stessi terroristi i cui “giochi di potere” sono in continua evoluzione.

  

1 Abdel Bari Atwan, After bin Laden. Al-Qa’ida, The Next Generation, London 2012, p. 113.

2 David Shinn, Al-Shabaab’s Foreign Threat to Somalia in “Orbis”, Spring 2011, Vol. 55, Issue 2, p. 203. URL: https://www.fpri.org/docs/media/alshabaab.pdf

3 Ibidem, p. 209.

4 Jason Warner-Ellen Chapin, Targeted Terror: The Suicide Bombers of al-Shabaab, Combating Terrorism Center, West Point, February 2018, p. 7. URL: https://ctc.usma.edu/app/uploads/2018/02/Targeted-Terror-2.pdf.

5 Yaya J. Fanusie-Alex Entz, Al Shabaab. Financial Assessment, Center on Sanctions & Illecit Finance – Foundation for Defense of Democracies, June 2017, p. 3 URL: http://www.defenddemocracy.org/content/uploads/documents/CSIF_TFBB_Al-Sh...

(foto: web)